AFRODISIACI: PER NON SFIGURARE CON VENERE

di Gian Piero Piazza -

Fin dall’antichità il maschio è ossessionato dal sogno di vincere ai “punti” gli incontri d’amore. Prima dell’eccitazione democatica offerta dal Viagra ci si affidava a pietanze ritenute afrodisiache e a improbabili alchimie a base di grasso di impiccato, lingue di fenicotteri e stufato di gufo…

Pubblicità di un prodotto "rinvigorente" americano del 1926

Pubblicità di un prodotto “rinvigorente” americano del 1926

(Da Storia in Network n. 21-22, luglio-agosto 1998) Da qualche mese la parola magica sulla bocca dei maschi di tutto il mondo è Viagra. Un affare plurimiliardario all’insegna del “sesso più forte” per l’industria farmaceutica americana che lo produce, la Pfizer, subissata com’è di richieste dai luoghi più remoti dei cinque continenti. La miracolosa pillola blu dell’amore, un farmaco destinato inizialmente a ripristinare la circolazione sanguigna in soggetti con problemi cardiovascolari, si è ben presto rivelata un portentoso stimolante “locale”, nel senso che agisce in modo precipuo sulla propaggine maschile preposta alla funzione riproduttiva e ai piaceri della carne favorendone l’erezione anche nei casi più recalcitranti.
Il principio attivo del Viagra, il sildenafil, prolunga gli effetti del Gmp ciclico, un neurotrasmettitore che si attiva normalmente quando dal cervello parte lo stimolo sessuale. Il Gmp ciclico è il fattore scatenante dell’erezione poichè attiva la dilatazione dei vasi e consente un maggiore afflusso del sangue al pene. Nei casi di impotenza, il Gmp emesso risulta inadeguato, il sangue non si trattiene a sufficienza nella “parte lesa” e l’erezione non si verifica compiutamente. Grazie al Viagra, l’effetto del Gmp viene potenziato favorendo un’erezione a prova di stallone. Tutto questo per la scienza, ma nell’accezione più prosaica quel farmaco che i medici si sforzano con scarso seguito di definire come tale sta sempre più scivolando nella casistica poco scientifica e moltissimo ambita degli afrodisiaci. La pillola della virilità, anche da parte del sano “Gallo” latino con prestazioni sessuali di una potenza da fare invidia a un toro andaluso, è diventata una fonte miracolosa cui attingere almeno una volta tanto per provare l’effetto che fa.
La prestanza sessuale al di là di ogni sospetto è stata d’altronde un cruccio che ha assillato la popolazione maschile del globo fin dai tempi più antichi. L’amore, o per dirla fuor di metafora la pratica amorosa, rappresenta da sempre oltre che uno stimolo fisico la preoccupazione più assillante del genere umano. In ogni parte del mondo a partire dagli albori della civiltà gli uomini hanno escogitato ogni sorta di “coadiuvanti” per migliorare la qualità e la durata delle congiunzioni carnali. Gli antichi greci avevano un rapporto particolarmente gioioso e totalmente disinibito con l’amore, stimolati dalla religione che collocava le divinità sul gradino più alto dell’espressione dei piaceri della vita, sesso incluso. Afrodite, la dea dell’amore, era venerata anche come Afrodite “porné”, cioè prostituta, e nella sua divina tolleranza concedeva ai mortali la facoltà di intrattenere anche amori illeciti senza minimamente sentirsi in colpa.

L’amore sacro, quello sancito dal vincolo coniugale, e quello profano, fuori dal talamo, erano perfettamente compatibili se non complementari per i canoni della morale corrente, anche se nella vita quotidiana i greci s’imponevano un codice di comportamento improntato a un minimo di decenza e morigeratezza, per poi sfogare gli istinti repressi nelle feste orgiastiche a spese dello Stato. Per sostenere senza l’onta di un seppur sporadico insuccesso le fatiche provocate dagli impegnativi piaceri dell’erotismo sfrenato, i greci ricorrevano assiduamente a pozioni e sostanze afrodisiache che costituivano un florido commercio gestito dalle prostitute sacre e dalle sacerdotesse, oltre che dalle etère, cortigiane tuttofare al cui confronto le gheishe giapponesi sarebbero sembrate candide educande. Nei loro poemi erotici i greci consigliavano l’uso di carote, cipolle, tartufi, storione, da cui si ricava il caviale ritenuto tuttora un efficace afrodisiaco.
Pesci, crostacei, con particolare riferimento alle ostriche in virtù del loro elevato potere nutritivo e tutti i cibi in genere di provenienza marina, che ricordavano Venere nata dalle acque del mare, erano considerati afrodisiaci. Nell’Egitto dei faraoni alla casta sacerdotale era proibito cibarsi di prodotti ittici poichè l’appetito sessuale che ne conseguiva li distoglieva dai loro doveri.
A differenza dei greci, che avevano improntato la loro vita secondo i princìpi di un semplice e sano edonismo, l’amore nell’antica Roma assunse le connotazioni di una passione sfrenata, quasi una degenerazione peccaminosa riservata soltanto agli uomini liberi, che trovavano negli spettacoli cruenti dei giochi fra gladiatori nelle arene lo stimolo per dedicarsi a orge sfrenate. Eccitati dal sangue e dalle degradanti sevizie inflitte agli schiavi che lottavano fino alla morte, i cittadini romani uscivano dal Circo Massimo in preda a una smania incontrollabile che sfogavano nei bordelli sorti numerosi intorno a quello “stadio” ante litteram.

Frontespizio di un'edizione tedesca (1644) dell'Ars amatoria di Ovidio

Frontespizio di un’edizione tedesca (1644) dell’Ars amatoria di Ovidio

La convinzione che la vista del sangue fosse un potente afrodisiaco avvalora la tesi di chi attribuiva alla carne rossa virtù altamente stimolanti sul piano erotico. In realtà il nostro apparato digerente è molto più adatto all’assimilazione di prodotti vegetali e l’eccessivo consumo di carne sortisce soltanto l’effetto di placare i sensi. Ne era consapevole Ovidio che nella sua Ars amatoria consigliava di non fare uso dei pericolosi filtri d’amore propinati dalle improvvisate “fattucchiere”, ma di affidarsi alle erbe e alle piante officinali. E suggeriva le sue ricette naturali per rinvigorire la passione amorosa. Cipolla bianca proveniente dalla Grecia, pinoli, erica e miele secondo il poeta erano gli ingredienti ideali per preparare una pozione afrodisiaca davvero efficace senza correre il rischio di avvelenarsi il sangue. Non a torto Ovidio condannava il vezzo di ricorrere alle arti magiche per potenziare la carica sessuale. Si dice che l’imperatore Caligola da uomo equilibrato qual era si fosse tramutato in una “belva degenerata” per effetto dei venefici filtri d’amore che la consorte gli faceva ingurgitare a sua insaputa affinchè fosse in grado di soddisfare le sue insaziabili voglie.
Nel periodo della decadenza gli antichi romani, abbrutiti dai banchetti orgiastici e dal vino che scorreva a fiumi, fecero ricorso a ogni mezzo pur di stimolare la loro virilità in declino e arricchirono le pietanze afrodisiache ereditate dal culto edonistico dei greci con carni di animali dalla dubbia efficacia purchè fossero selvatici e dal temperamento lascivo, come l’asino, il lupo, il cervo. La rucola selvatica che cresceva spontanea intorno alle statue che raffiguravano simboli fallici in onore di Priapo, figlio di Venere e propiziatore della virilità, era una sostanza ricercata nella convinzione che possedesse poteri magici in grado di trasmettere una prorompente carica erotica. Un intruglio con pepe macinato mescolato a semi di ortica e funghi pare producesse effetti miracolosi nei soggetti afflitti da un preoccupante calo del desiderio.
E quando gli amuleti, i filtri magici e le cene afrodisiache smisero di garantire un risultato perlomeno decoroso, i Trimalcioni sull’orlo di una crisi di nervi fecero ricorso a uno stratagemma in auge anche ai tempi nostri. Con una variante d’obbligo. In mancanza di film pornografici e visti gli scarsi effetti del fegato di luccio, delle lingue di fenicottero e del cervello di pavone, allietavano i banchetti con spettacoli osceni e rappresentazioni erotiche in cui discinte danzatrici svelavano le loro grazie in veri e propri striptease primordiali, stuzzicando a quanto pare la sopita libido di quegli screpanti gaudenti. Gli afrodisiaci usati dai romani, quelli confezionati dalle sedicenti maghe, si rivelarono talmente nocivi e spesso addirittura letali. Tanto che a un certo punto l’imperatore Vespasiano, per correre ai ripari, emanò un decreto che puniva con l’esilio chiunque fosse stato sorpreso a preparare o distribuire filtri afrodisiaci e prevedeva la condanna a morte nel caso che la pozione si fosse rivelata mortale.

La Chiesa di Roma, fin dal suo avvento nell’impero d’Occidente all’epoca dell’imperatore cristiano Costantino, memore degli eccessi conviviali e della dissolutezza dei predecessori, stigmatizzò i piaceri della carne e persino le gioie del talamo non indirizzate alla procreazione e bollò come peccaminosi e diabolici i filtri d’amore. Le alchimie che promettevano il risveglio dei sensi erano considerate dalla Chiesa alla stregua di pozioni stregate e sia i “fabbricanti” che i fruitori rischiavano il rogo se colti in flagrante. Tanto valeva allora osare il tutto per tutto e assaporare fino in fondo il piacere del frutto proibito di biblica memoria. Gli intrugli propinati dalle “streghe del sesso” erano composti di sostanze spesso altamente dannose, come la mandragora, la noce vomica da cui si estrae la stricnina, e a volte invadevano il campo dell’occulto e contenevano polveri tratte da resti umani o da interiora di animali particolarmente aggressivi, feroci e per giunta esotici. Cuore di rospo e grasso di impiccato fatti stufare a fuoco lento alimentato con legno di sambuco e rimescolati in un teschio umano maschile erano gli ingredienti di una a quanto pare portentosa pozione afrodisiaca in grado di tramutare un inerme eunuco in un assatanato cacciatore di gonnelle.
Il ricorso alle antiche “ricette” tramandate dai greci non venne mai meno, ma alle erbe afrodisiache spesso disgustose delle streghe elleniche si aggiunsero quei prodotti della natura importati dai navigatori dalle terre più lontane ed esotiche. Medici ed erboristi dell’epoca, probabilmente suggestionati dai racconti di quei viaggi avventurosi, consigliavano con faciloneria l’uso di vivande preparate con i cibi che giungevano da quei luoghi lontani e misteriosi, attribuendo ad essi proprietà afrodisiache in base al semplice fatto che erano cibi rari e costosi.

Nell’Inghilterra del ’500 e del Seicento, oltre alla carne rossa e alla selvaggina, cucinata da esperti cuochi italiani e francesi in elaborazioni con salse piccanti, erano ritenuti afrodisiaci i pomodori, ribattezzati non si sa bene a quale titolo “pomi dell’amore”, e le patate del Perù. I francesi, accompagnati nei secoli dalla fama di estimatori dei piaceri della tavola e dei sensi, nel XVIII secolo si sbizzarrirono in preparazioni di pietanze afrodisiche e di filtri d’amore. Nelle “case” le maitresses servivano ai libertini prima che si appartassero nell’alcova con le prostitute i più strani e tonificanti manicaretti quasi sempre a base di pollo o selvaggina con intingoli e salse speziati e seguiti da una grande varietà di dolci e cioccolatini. In apposite salette si confezionavano le più svariate pillole afrodisiache attingendo a piene mani dalla tradizione araba che in fatto di sostanze afrodisiache non era seconda a nessuno.
La cultura araba ha lasciato un prezioso patrimonio poetico e letterario giunto in Europa in seguito ai viaggi di letterati ed esploratori. Uno di questi, sir Richard Burton, ha tramandato ai posteri nientemeno che il manuale islamico della sessualità, che si era premurato di tradurre in inglese al suo ritorno dal Medio Oriente. Scritto da Muhammad An Nafzawi sulla fine del XIII secolo, Il giardino profumato, che contiene tra l’altro preziose indicazioni sui segreti che favoriscono l’atto sessuale e sulle sostanze afrodisiache, inizia in questo modo: “Lode a Dio che pose il supremo piacere degli uomini nella vulva e quello delle donne nel membro”. Una premessa che è tutto un programma e che sicuramente invoglia alla lettura.

Miniatura tratta da una edizione del XIX secolo del Kamasutra

Miniatura tratta da una edizione del XIX secolo del Kamasutra

L’India, dall’alto dei suoi cinque millenni di civiltà, vanta una corposa tradizione artistico-erotica: La “Bibbia” della sensualità, il Kamasutra, oltre alle infinite e contorsionistiche posizioni dell’amore, alcune delle quali hanno la funzione di prolungare la durata dell’amplesso e di innalzare la dimensione del piacere a livelli paradisiaci, contiene molte ricette per ampliare le capacità sessuali. Come piatti a base di fagioli, cipolle, uova di passero cotte nel latte, miele, carne di gufo e, fra le altre estrosità, un unguento da spalmare sulle palpebre composto da fuliggine tratta dal teschio di un uomo immolato su un falò e raccolta sul terreno ancora ardente. Tale mistura, garantisce il Kamasutra, renderà il maschio irresistibile agli occhi delle donne. Non provare per credere.
Nel campo degli afrodisiaci figura anche la carne di pavone, vietata dal clero nel Rinascimento italiano perchè pare possedesse incredibili virtù “rinforzanti”. I trasgressori non si contavano. Persino l’aria contiene poteri afrodisiaci. Lo sosteneva a spada tratta uno scrittore milanese esperto di storia dell’arte recentemente scomparso che raccomandava di concedersi con l’amante di turno, per ben figurare, un soggiorno a Merano, dove l’aria appunto stimola l’erezione. L’afrodisiaco per eccellenza, secondo un noto ingegnere e scrittore napoletano, è uno dei tanti segreti di Pulcinella: cambiare donna a ogni amplesso. Morale a parte, quanto dev’essere dispersivo, dispendioso e stressante mantenere un nutrito carnet di “conoscenze carnali” pronte a rispondere al richiamo dei sensi. Meglio forse una vita serena, cibi leggeri, un tuffo nella natura e, possibilmente, una florida situazione economica. I pensieri sono nemici dell’amore e la ricchezza, se non risolve, aiuta. Eccome.

Per saperne di più
A. Coletti Strangi, Gli afrodisiaci nel mondo romano – Libreria Universitaria Benedetti, L’Aquila 2011
M. Foucault, Storia della sesualità. La volontà di sapere – Feltrinelli, Milano 1978
R. Stark, Il libro degli afrodisiaci – Mondadori, Milano 1981
L. Stone, La sessualità nella storia – Laterza, Roma-Bari 1995