I CATTOLICI ISTRIANI, DALMATI E FIUMANI: LE PERSECUZIONI DI TITO
di Pier Luigi Guiducci -
Terminato il secondo conflitto mondiale, la politica di Belgrado operò inizialmente con cautela perché la nuova Jugoslavia non aveva ancora il totale controllo della situazione interna e i necessari riconoscimenti dall’estero. In seguito, il regime di Tito mostrò in modo chiaro il proprio volto, e si verificarono una serie di fatti drammatici a danno dei cattolici.
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Con l’avvento del regime comunista in Jugoslavia (1945) un numero elevato di persone venne, in modo arbitrario, definito “nemico del popolo”. Anche molti membri delle Chiese locali (vescovi, sacerdoti, religiosi e laici) subirono condizionamenti, minacce, provvedimenti disciplinari, processi, internamenti e, in taluni casi, la morte “in odium fidei”.[1] La “fratellanza” dei seguaci del maresciallo Tito[2], infatti, esigeva capacità di lotta, radicalismo ideologico e nazionale, e fedeltà prioritaria al regime. In realtà, questi cattolici testimoniarono solo il proprio credo religioso, in sintonìa con il magistero del Papa[3], ed espressero resistenza a quanto poteva distruggere un patrimonio di fede e l’italianità di un’origine. Pure alcuni presuli, diversi consacrati e vari seminaristi fecero parte di quelle migliaia di persone che furono costrette a lasciare le proprie terre dopo l’occupazione jugoslava di Istria, Dalmazia e Fiume. In quella fase storica, non mancarono anche “lusinghe” politiche per arrivare a forme di controllo delle comunità locali.[4] Soprusi e violenze dei partigiani “rossi” poterono usufruire di una ‘copertura’ garantita dal governo di Belgrado, vittorioso sugli eserciti dell’Asse, influente nelle trattative di pace, alleato dell’Occidente dopo l’espulsione del partito comunista jugoslavo dal Kominform[5] (28 giugno 1948).
In particolare, la presenza di Tito costituì un elemento aggregante della nuova Jugoslavia.[6] Tale situazione mutò con la morte del presidente (1980), e con la dissoluzione della Jugoslavia (1981-2015). Con il nuovo assetto politico, fu possibile approfondire non solo le vicende legate al secondo conflitto mondiale, ma anche il disegno espansionistico di Tito[7] che fu alla base di molteplici provvedimenti mirati a neutralizzare anche coloro che vivevano da tempo nelle terre del nord est.[8]
Il contesto storico. I miliziani di Tito a Trieste (1945)
Il 1° maggio del 1945 i partigiani del IX Corpus jugoslavo e la IV Armata del gen. Petar Drapšin[9] entrarono a Trieste. Gli occupanti misero in atto una politica del “fatto compiuto”. Affidarono il comando militare al gen. Josip Cemi, sostituito, dopo pochi giorni, dal gen. Dusan Kveder. Nominarono un commissario politico, Franc Štoka[10], comunista filo slavo. Imposero (a guerra finita), un lungo coprifuoco (dalle 15 alle 10 del mattino successivo). Limitarono la circolazione dei veicoli. Disposero il passaggio all’ora legale per uniformare la città al “resto della Jugoslavia”. Diffusero lo slogan “smrt fazismu - svoboda narodu”, “morte al fascismo – libertà ai popoli”, per giustificare azioni omicide verso chi avversava le mire annessionistiche di Tito.[11]
L’ otto maggio proclamarono Trieste “città autonoma” nella “Settima Repubblica federativa di Jugoslavia”. Sugli edifici pubblici fecero sventolare la bandiera jugoslava affiancata dal Tricolore con la stella rossa. Tale comportamento arbitrario consentì alle milizie di Belgrado di mantenere il controllo sull’abitato per circa quaranta giorni.
In tale periodo si verificarono arresti arbitrari e sparizioni non solo di sospetti fascisti, ma anche di italiani inermi e di resistenti all’espansionismo jugoslavo. I cittadini prelevati e deportati non fecero più ritorno a casa. I loro corpi vennero gettati nelle foibe (fovea = fossa). Queste, si presentano come profonde cavità rocciose naturali a forma di imbuto, ma al rovescio, che si formano a causa dell’erosione delle acque.[12] Le milizie di Belgrado organizzarono anche campi di concentramento, tra cui quello di Borovnica. Qui, fra il maggio del 1945 e l’agosto del 1946 furono internati: 1] alcune migliaia di militari italiani arrestati nel periodo di occupazione della Venezia Giulia; 2] diverse centinaia di ex internati militari italiani (IMI), già prigionieri dei tedeschi, intercettati dalle forze jugoslave mentre cercavano di tornare a casa; 3] alcuni civili italiani delle terre istriane e dalmate. Gli storici definiscono quello di Borovnica come il peggiore dei campi d’internamento jugoslavi.[13]
I ricordi di mons. Santin (1945)
Mentre avvenivano le criticità sopra ricordate, il vescovo di Trieste-Capodistria era SE mons. Antonio Santin.[14] Nato a Rovigno[15], ricordò nelle sue Memorie i drammi vissuti dai fedeli della diocesi e da quelli delle Chiese locali circostanti. Annotò al riguardo: “(…) Vivissimo era l’allarme e lo spavento invadeva tutti… In città dominava la violenza contro tutto ciò che era italiano. Tutti i giorni dimostrazioni di Sloveni convogliati in città, bandiere jugoslave e rosse imposte alle finestre. Centinaia e centinaia d’inermi cittadini, Guardie di Finanza e Funzionari civili, prelevati solo perché Italiani, furono precipitati nelle foibe di Basovizza e Opicina. Legati con filo spinato, venivano collocati sull’orlo della foiba e poi uccisi con scariche di mitragliatrice e precipitati nel fondo. Vi fu qualcuno che, colpito, cadde sui corpi giacenti sul fondo e poi, ripresi i sensi per la frescura dell’ambiente, riuscì lentamente di notte ad arrampicarsi aggrappandosi alle sporgenze e ad uscirne. Uno di questi venne a Trieste da me e mi narrò questa sua tragica avventura”.[16]
L’accordo del 9 giugno 1945
In attesa delle decisioni finali in materia di confini, il 9 giugno del 1945 il maresciallo Tito e il generale britannico Harold Alexander[17] firmarono a Belgrado un Accordo. L’intesa stabilì una linea di demarcazione[18] tra due zone di occupazione militare.
La Zona “A” (esercito inglese e USA) comprendeva Gorizia, Trieste, Sesana, la fascia di confine fino a Tarvisio e l’enclave di Pola. La Zona “B” (esercito jugoslavo) includeva i due terzi della Venezia Giulia italiana, con Fiume (oggi Rijeka), quasi tutta l’Istria, le isole del Quarnaro, e una enclave nei pressi di Opacchiasella (vi erano dislocate anche Boscomalo, Castagnevizza del Carso, Corita, Lippa di Comeno, Loquizza-Seghetti, Novavilla, Novello, Temenizza e Voissizza).
Fine dell’occupazione titina a Trieste e Gorizia
Il 12 giugno 1945, a Trieste e Gorizia, ebbe termine l’occupazione titina e alle milizie di Belgrado subentrarono le forze anglo-americane. Nel medesimo mese e anno, si accentuò un notevole esodo delle popolazioni residenti nella Zona “B” in direzione di Trieste e di Pola.
Il Trattato di pace (1947)
Il 10 febbraio 1947 venne firmato a Parigi il Trattato di pace.[19] Alla data di entrata in vigore di questo accordo (15 settembre 1947) il governo militare alleato si trasferì a Trieste, e la città di Pola passò all’amministrazione jugoslava.[20]
Il Memorandum d’Intesa (1954)
Il 5 ottobre 1954 fu siglato a Londra un Memorandum d’intesa. L’atto fu sottoscritto dai rappresentanti dei governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti, e della Repubblica federativa popolare di Jugoslavia. L’accordo riguardò il regime di amministrazione provvisoria del Territorio Libero di Trieste[21] previsto dall’allegato VII del Trattato di pace di Parigi (1947).
Con il Memorandum venne anche disposta una modifica rispetto al confine tra le due Zone nei comuni di Muggia e di San Dorligo della Valle, collocandolo tra punta Grossa e punta Sottile.
La nuova Zona “B” venne così ampliata di circa 11,5 km² ed i 3.500 abitanti di Crevatini, Plavia, Elleri e Albaro Vescovà vennero assoggettati all’amministrazione del governo jugoslavo.
Il Memorandum di Londra del 1954 aveva però generato delle situazioni ambigue. Alla Repubblica socialista federativa di Jugoslavia era stata affidata solo l’“amministrazione civile” della Zona “B”, tacendo sulla sovranità. In modo uguale ci si comportò con la Zona “A”.
In tale contesto, è da ricordare che il governo italiano aveva definito provvisorio quel Memorandum. Mentre avevano resa nota questa Intesa, le autorità di Roma avevano sorretto, almeno fino al 10 novembre 1975 (Trattato di Osimo), le speranze degli esuli dalla zona “B”, che attendevano la restituzione delle proprie case.
Il Trattato di Osimo (1975)
Il 10 novembre del 1975 i ministri degli affari esteri di Jugoslavia e Italia firmarono a Osimo un Trattato. Con tale atto il governo italiano rinunciò alla Zona “B” il cui territorio divenne jugoslavo. Con l’accordo di Osimo, anche se in modo tacito, il governo italiano mise fine a quelle speranze che per un non breve periodo erano state alimentate: l’art. 4 legalizzava infatti tutti gli espropri del regime di Belgrado sui beni degli esuli. [22]
Persecuzioni contro i cattolici (alcuni riferimenti)
Nel contesto, cominciarono ad essere rese note cronache tragiche (arresti, processi, detenzioni, sparizioni) collegate alle persecuzioni dei fiduciari di Tito a danno della Chiesa cattolica. Al riguardo colpiscono anche i seguenti fatti che qui di seguito si riassumono.
I sacerdoti italiani che furono costretti ad abbandonare la Zona “B” furono decine.[23] Molti dovettero lasciare i luoghi di cura pastorale a seguito di minacce di morte.
Diversi religiosi si trovarono nella condizione di lasciare le località ove svolgevano il proprio impegno ecclesiale. Pure loro subirono minacce e ultimatum. Si possono ricordare: sette padri Cappuccini di Capodistria[24], nove Frati Minori di Capodistria,[25] otto Benedettini di Cittanova d’Istria[26], due Benedettini di Sant’Onofrio[27] (oggi Krog), cinque Frati Minori di Strugnano[28], sei Frati Minori Conventuali di Pirano (in sloveno Piran).[29]
La situazione delle religiose
Non furono poche le consacrate espulse dalla Zona “B”. La loro assenza forzata creò dei vuoti nei servizi socio-sanitari e socio-pastorali. Può essere utile al riguardo ricordare alcune vicende.
Da Pola (in croato Pula) divennero profughe dodici Suore della Provvidenza di Udine. Da 50 anni operavano come infermiere nell’ospedale e nella casa di riposo.
Da Capodistria (oggi Koper in Slovenia) dovettero lasciare la città quattro Suore Terziarie Francescane Elisabettine di Padova. La loro presenza ebbe inizio nel 1888 e terminò nel 1950. Furono costrette a interrompere il loro impegno presso il Convitto diocesano parentino-polese[30], l’ ospedale civico “San Nazario”, e l’istituto femminile “Grisoni”[31]. Il 23 agosto del 1949 il vescovo mons. Santin scrisse una lettera alla superiora generale, madre Costanzina Milani. Si riporta qui di seguito una parte dello scritto. “(…) Le suore del Grisoni hanno ricevuto l’ordine di lasciare l’Istituto il 1° settembre. Così mi si comunicava da Capodistria e così tutto è finito. Io avevo detto loro di rimanere nell’Istituto fino a che potevano fare del bene. Ma quando seppi tempo fa che erano ridotte a semplici operaie e che le ragazze erano loro sottratte, dissi loro di abbandonare la casa e di ritornare a Padova. Avevano deciso di rimanere a Capodistria fino a che avessero potuto resistere e poi sarebbero venute a Padova. Così stanno le cose. Quindi ai primi di settembre verranno in Casa Madre [...]. E mentre le sue figliole lasciano il Grisoni, devo dirle che lei può essere orgogliosa di avere religiose così fedeli al loro dovere, così coraggiose, così brave. Esse sono degne di lode e meritano la nostra riconoscenza”.[32]
Sempre a Capodistria nove Suore Dimesse[33] Figlie di Maria Immacolata furono costrette a lasciare il proprio lavoro. Operavano in un collegio, in una scuola elementare, in un asilo e in un laboratorio. Erano molto attive. Fecero ritorno a Padova e a Udine.
A Isola d’Istria (in sloveno Izola) ci fu la partenza di sette Piccole Suore della Sacra Famiglia. Sul piano storico il loro Istituto era sorto a Castelletto di Brenzone sul Garda (Verona). Queste religiose lasciarono un asilo e una scuola di cucito.
Asili, conventi seminari
Gli immobili delle congregazioni religiose vennero incamerati dai fiduciari del maresciallo Tito, e trasformati in uffici del Komunistička partija Jugoslavije[34].
Gli asili divennero proprietà statale. Vennero di conseguenza gestiti da personale laico (di stretta obbedienza comunista).
I conventi subirono attacchi. Quello dei Frati Minori di Capodistria[35] venne utilizzato come prigione, quello dei Frati Minori Cappuccini fu caserma dei Vigili del Fuoco. Il convento del santuario di Strugnano[36] (luogo venerato dagli istriani) fu trasformato in caserma e prigione. A Pirano, l’unico religioso dei Frati Minori Conventuali rimasto nel convento di San Francesco fu imprigionato.
Il seminario di Capodistria[37] venne adattato a caserma (fu poi depredato e abbandonato). Per il seminario di Pisino (riaperto nel 1945 con un apporto finanziario del vescovo mons. Radossi) era obbligatorio chiedere un permesso annuale per mantenerlo aperto, affrontando continui problemi. Dopo il ritiro del direttore, il croato Božo Milanović (1968), fu necessario chiuderlo (anni Settanta, XX sec.). Divenne in seguito un liceo classico. I possedimenti dei Benedettini di Daila e di Sant’Onofrio furono espropriati e assegnati a dei coloni.[38]
Il convento di Sant’Antonio a Pola
5] Il 6 novembre del 1947 ebbe inizio a Pola – consegnata alla Jugoslavia – un’azione anti-cattolica. Diversi miliziani comunisti circondarono il convento di Sant’Antonio dei Frati Minori. All’interno c’erano quattro frati. Questi, furono condotti in caserma. Durante il processo vennero accusati di essere: nemici del popolo, collaborazionisti dei fascisti, spie. Il principale imputato fu p. Albino Simpliciano Gomiero ofm.[39] Il religioso, nelle sue memorie[40], raccontò queste ore critiche. Subì la condanna a 16 anni di carcere e lavori forzati per aver trasmesso dati da una radio trasmittente sul trattamento religioso riservato ai cattolici a Pola. Anche per i suoi confratelli ci furono sentenze sfavorevoli. Su questa situazione critica p. Gomiero annotò una memoria della quale si riportano qui di seguito alcuni passi. “(…) Il 6 novembre 1947, in pieno giorno, non ci accorgiamo che agenti dell’OZNA stanno setacciando l’orfanotrofio, convento, teatro parrocchiale. In chiesa si trova Fra Ambrogio Bellato, venuto da qualche settimana a Pola da Rovigno, per aiutarci (…). Io mi trovo in una stanza dietro il teatro. Sono le undici e mezzo. Mentre esco, a pochi passi appare un uomo con un’arma nella mano. Mi grida: “In alto le mani!” e poi, affacciandosi alla finestra, spara un colpo di pistola, e mi spinge fuori sulla strada. Da ogni parte vedo un accorrere di uomini armati che circondano il convento e la chiesa. È un assalto in piena regola. Vengo immediatamente affidato ad un agente della polizia, che impugna un’arma, e condotto, attraverso le vie della città, alla sede dell’OZNA. Qui vengo introdotto con forza in una stanza e spinto davanti a tre uomini seduti a un tavolo. Mi ricevono con un insulto, una bestemmia e cominciano a martellarmi di domande. Comincia un lungo estenuante interrogatorio che non ha sosta un minuto. Devo rimanere sempre in piedi; se tento di appoggiarmi a qualche mobile o alla parete, ricevo uno schiaffo. Da una porta laterale entra più tardi ‘l’uomo del gatto’, con una valigia-radio; la consegna ad un capo e si ritira (…). Il ‘capo banda delle spie del Vaticano’ sono io. Comprendo che la valigia è l’argomento chiave per presentarci davanti l’opinione pubblica come i peggiori elementi della terra passata alla Jugoslavia. Però, negli interrogatori interminabili e insidiosi, a me presentano altri capi d’accusa: le mie continue visite nella Zona B e gli incontri con la gente italiana erano per raccogliere notizie e consigliare l’esodo; le mense pontificie della Poa[41] erano una organizzazione di propaganda anticomunista per far uscire la gente dall’Istria; il convento di Sant’Antonio era un rifugio di criminali fascisti (quali?), mons. Radossi, nella sua permanenza a Pola, portava ordini del Vaticano ai preti per un’attività politica antislava in Istria; siamo italiani imbevuti di idee fasciste rimasti a Pola per ostacolare le conquiste dei partigiani jugoslavi. Ad ogni passo vomitano nuove accuse, giudici e inquisitori si cambiano continuamente, entrano, salgono, presentano nomi di persone di sentimenti italiani per essere accusate con noi e così trascinate in carcere (…)”.[42]
I provvedimenti delle milizie di Tito a Fiume
A Fiume, dei sette sacerdoti parroci, tre vennero tradotti nelle carceri, i rimanenti erano in procinto di essere processati o in sospetto presso le autorità popolari. Oltre a questi presbiteri, anche altri preti (che avevano preso le distanze dalla dottrina e dai metodi dei seguaci di Tito) furono vessati in vario modo. In tale contesto può essere utile ricordare le figure di: don Polano, don Cesare Giacomo, don Luigi Sartorelli, fra Nestore da Treppo ofmcapp, don Girolamo De Martin.
Don Luigi Polano[43] in seguito all’arrivo delle milizie di Belgrado organizzò un Comitato fiumano in via San Nicolò. Fu presto ricercato dagli slavi e subì la condanna a morte. Riuscì a sfuggire alla cattura. Raggiunse la sorella a Trieste. Ma neanche in questa località fu al sicuro. Gli jugoslavi per due volte cercarono di catturarlo. Il sacerdote raggiunse allora la sua città natale, San Daniele, ove venne protetto. Dopo l’esodo del 1945 fu cappellano nelle navi che portavano i profughi istriani in America. Morì a Udine nell’ospedale civile.
Don Giacomo Cesare[44] divenne parroco in un paese di periferia. Operò poi presso il Tempio Votivo di Cosala (Fiume). Fu anche cancelliere di mons. Santin. Dentro il campanile della sua chiesa venne rinvenuta una pistola. Ne derivarono più accuse (pretestuose). Fu processato e torturato. Subì una condanna a tre anni di carcere.[45] Le sofferenze della prigionia lo segnarono per anni. Di lui fa riferimento fra Nestore da Treppo nella relazione che scrisse sulla prigionia.[46]
Don Pierluigi Sartorelli[47], fu ordinato sacerdote per la diocesi di Fiume il 19 settembre 1942. Dalla fine del mese di settembre 1943, dopo la resa senza condizioni dell’Italia, fece parte di un gruppo democristiano che cercò di reagire ai regimi anticattolici. Le riunioni si svolgevano in locali del vescovado. Dopo il 1945 il gruppo si sciolse. Sartorelli poté raggiungere l’Italia. Seguì poi un cursus nella diplomazia vaticana.[48]
Fra Nestore da Treppo ofmcapp[49] fu assegnato come padre guardiano al convento fiumano nel dicembre del 1942. Alla fine del secondo conflitto mondiale venne arrestato dalle milizie titine e sottoposto ai lavori forzati nei campi di concentramento di Fiume, Maribor e Lubiana. Su di lui incombeva il pericolo costante di una condanna a morte. Solo nel 1949 poté uscire dal reclusorio e tornare in Italia.[50]
Don Girolamo De Martin[51], salesiano, trascorse molti anni della sua vita a Fiume. Parroco della chiesa di Maria Ausiliatrice e direttore dell’Oratorio. Fu anche insegnante scolastico. Nella città del Carnaro questo religioso subì vari controlli dalle milizie di Tito per i suoi sentimenti italiani, e per l’aiuto silenzioso offerto agli esuli e ai resistenti. Dopo l’arresto, fu inviato in un campo di concentramento e poi segregato in prigione. Qui, rimase per oltre un anno e mezzo. Rimesso in libertà vigilata, fece appena in tempo a riparare a Trieste e poi a Belluno. Nel 1948, da questa città relazionò al Rettor Maggiore dei Salesiani (don Pietro Ricaldone) sulla situazione nelle terre ove aveva operato. Si riporta qui di seguito un brano significativo. “(…) 3. L’ Autorità Popolare Jugoslava – come i suoi vicini d’Oriente – va attuando il suo piano quinquennale in modo impressionante. Il primo articolo di tale programma è: “… demolire le vecchie strutture!” – il che significa: a) abolire la proprietà privata (il che avviene mediante perquisizioni e requisizioni… un pretesto qualsiasi è sufficiente!); b) paralizzare l’attività della Chiesa e dei Sacerdoti.
Noti bene, non si può, né si deve dire che la Chiesa è perseguitata… anzi, si stampa e si dice che la Religione è libera e favorita: in pratica poi la si deve soffocare.
Dalle adunanze riservate ai quadri dirigenti viene la parola d’ordine… “non bisogna mai dire apertamente la meta cui si tende… ma bisogna raggiungerla!”. Parroci, sacerdoti, vengono arrestati con estrema facilità, rei di godere la benevolenza e favore del popolo, giacché ciò viene loro imputato come effetto di segreta sobillazione dei fedeli contro il potere popolare: appaiono quindi in tribunale come reazionari, quindi meritevoli di pena e castigo. Al campo di concentramento ove io mi trovavo un anno fa (1947), eravamo 110-120 sacerdoti”.[52]
La cancellazione delle iniziative religiose
Mentre avvenivano i fatti sopra ricordati, le milizie del maresciallo Tito accentuarono le iniziative mirate a neutralizzare l’attività religiosa (ad es. le opere dei Salesiani e quelle delle Figlie di Maria Ausiliatrice), e a togliere nelle scuole il crocifisso. Al suo posto veniva collocato un quadro di Tito. Ai lati dell’immagine erano appese una bandiera jugoslava e una italiana con la stella rossa al centro.[53] Anche a Rovigno, e in altre località, ci fu l’ordine di rimuovere i crocifissi dalle aule scolastiche.[54] Molte croci venne divelte. Varie chiese subirono atti di disprezzo. Nei cimiteri furono profanate tombe e distrutte piccole cappelle, perché i nomi di quei morti ricordavano le radici di specifiche terre. Per questo motivo le spoglie dell’eroe nazionale della prima guerra mondiale, Nazario Sauro[55], furono traslate da Pola al Lido di Venezia.
La resistenza dei vescovi. Mons. Santin (febbraio 1946)
Nel contesto delineato la reazione dei vescovi si sviluppò seguendo più strade. Dopo la fine dell’occupazione dei soldati di Tito, e con la presenza stabile degli anglo americani (12 giugno 1945) a Trieste e Gorizia, SE mons. Antonin Santin (vescovo di Trieste-Capodistria) attivò diverse iniziative.
Il 12 giugno 1945 inviò una Relazione a Pio XII ove denunciò le criticità presenti nella sua diocesi e in altre Chiese locali. Evidenziò in particolare il clima di oppressione che regnava nell’Istria occupata dalle forze jugoslave, e segnalò la debolezza della Commissione insediatasi a Trieste per decidere le sorti della Venezia Giulia.[56]
Il vescovo trasmise poi una Nota (24 febbraio 1946) sulla situazione della Venezia Giulia ai diplomatici statunitensi e francesi presso la Santa Sede e presso il governo italiano, al card. Edward Aloysius Mooney, arciv. di Detroit (USA) per il presidente Harry Truman[57], al card. Francis Joseph Spellmann, arciv. di New York, e al card. Bernard W. Griffin di Londra. Mons. Santin, dopo aver parlato con un prelato statunitense (forse il card. Mooney o il card. Spellmann) aveva avuto l’assicurazione che il “Memoriale” sarebbe stato consegnato e “presentato” a Truman al suo ritorno negli Stati Uniti. [58]
Le tematiche affrontate dal vescovo furono evidenziate in modo chiaro. Erano problemi da considerare seriamente prima di tracciare una demarcazione o confine nella Venezia Giulia: di umanità, di giustizia, di religione, di economia, di precauzioni… [59] I fiduciari di Tito stavano continuando le loro pressioni sulle popolazioni e sui membri della Commissione stessa. Volevano dimostrare che la gente della Venezia Giulia era a favore dell’assegnazione non solo dell’Istria a Tito. Le preoccupazioni del vescovo erano legate a più realtà: la non equità nelle decisioni degli Alleati, la non conoscenza della storia delle terre da esaminare, l’espansionismo nazionalista del sistema comunista titino, la lotta alla religione. Le violenze titine anche omicide ad opera dell’OZNA.[60] Tutto ciò non costituiva una supposizione, era invece una constatazione per Trieste, sperimentata già nei “quaranta giorni” di occupazione titina della città.
Il Comunicato dei presuli Santin e Margotti (6 maggio 1946)
Il 6 maggio del 1946, il vescovo di Trieste-Capodistria (Santin) con l’arcivescovo di Gorizia (Carlo Margotti)[61] denunciarono, in un Comunicato congiunto, le gravi criticità presenti nei loro territori, specie nella Zona “B”. Si riporta qui di seguito il testo del documento.
“L’ Arcivescovo di Gorizia e il Vescovo di Trieste e Capodistria si sono incontrati per uno scambio di idee sopra la situazione delle loro diocesi.
Essi sono ansiosi di vedere ritornare alle loro case i prigionieri di guerra, che ancora vi mancano, gli internati civili del tempo di guerra, dei quali ancora si ignora la sorte, e i cittadini, che nel maggio 1945 sono stati allontanati dalle loro famiglie e dalla nostra terra, senza che mai nulla ufficialmente si sia saputo di loro. Essi si propongono di continuare nei loro sforzi perché a questi gravi problemi sia data una sollecita, umana e cristiana soluzione, che ponga fine a tante dolorose separazioni e lenisca l’acuta pena di questa angosciosa incertezza.
I due Presuli, preoccupati del rincrudirsi delle agitazioni, che assumono aspetti di livore e di odio contrari alla coscienza cristiana e all’antica civiltà delle nostre popolazioni, invitano quanti sono divisi da ragioni politiche, etniche e sociali a non lasciar degenerare le loro contese in modo che esse assumano forme ripugnanti di volgarità, di ingiustizia e di violenza, e a sostenere le loro aspirazioni con argomenti e iniziative che rispettino il diritto di tutti.
Fino a che prevarrà il concetto, da tutti ripudiato, ma pure generalmente adottato, che deve prevalere non colui che ha più ragione, ma colui che in quel determinato momento è materialmente più forte, non vi potrà essere pace. Non le agitazioni in mezzo alle rovine, alla fame e alla disoccupazione giovano al popolo ma la calma operosa, la collaborazione sincera e concorde, possibile in tanti settori, il rispetto vicendevole, e l’intesa di tutti onde ottenere che vi sia più lavoro, più pane, più pace e dalle rovine risorgano le nostre industrie e le nostre case.
Continuando nell’esame attento della situazione i due Pastori diocesani hanno notato che dalle numerosissime relazioni, che sono giunte alle due Curie dalle varie parrocchie, si rilevano alcuni fatti, che destano grave preoccupazione:
a) la propaganda antireligiosa intensissima, che si serve degli argomenti che la cultura ha ripudiato da gran tempo e di calunnie suggerite dall’odio contro la Chiesa;
b) la violazione della libertà ecclesiastica nell’asportazione dagli uffici parrocchiali di registri canonici;
c) la modificazione sostanziale della legislazione matrimoniale da parte di tribunali locali, senza che le Autorità responsabili abbiano dato disposizioni pubbliche in materia, che naturalmente sarebbero state contrarie al diritto delle genti, ma purtroppo anche senza che esse abbiano finora represso abusi così inauditi;
d) il costante controllo della predicazione fatto spesso da incompetenti che si allarmano dell’esposizione dei più elementari principi cristiani.
Tale situazione, che non fa onore a nessuno, potrebbe facilmente essere migliorata dalla buona volontà delle sfere competenti. E ciò sarebbe nell’interesse della giustizia, della pace e della fiducia, che devono regnare nella nostra regione.
Essi (i due Pastori diocesani) hanno anche accolto con comprensibile consolazione le notizie, giunte particolarmente frequenti in questi giorni, sopra la vita religiosa che in molte zone fiorisce fra la popolazione, la quale in occasione della Pasqua ha dato eloquente dimostrazione della sua illuminata e virile fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa.
Una nota di tristezza è data purtroppo dal perdurare della divisione di molte famiglie. Molte persone hanno abbandonato le loro città ed i loro villaggi e vagano esuli in mezzo a disagi, lontane dalle loro case. I Presuli sperano che in breve nuovi sentimenti di sincera fraternità, di schietta tolleranza, di rispetto delle opinioni e delle aspirazioni abbiano a regnare ovunque in modo che si renda possibile il ritorno ai loro focolari anche di questi loro figli spirituali. I quali, ne siamo certi, porteranno nel loro cuore solo propositi di concordia e di pace. Solo così le sanguinanti ferite delle nostre terre potranno essere rimarginate.
Un altro argomento che ha attirato l’attenzione dei Pastori diocesani è quello della miseria di tanta parte della popolazione, della disoccupazione crescente e della mancanza di abitazioni, che crea tanti disagi e tanti pericoli morali. Chi ha la responsabilità della nostra regione deve preoccuparsi di questi fondamentali problemi della vita sociale. La disoccupazione è peggiore della guerra. La mancanza di abitazioni rende ancora più dura la vita della povera gente. Bisogna trovar lavoro per tanti disoccupati, e costruire case per un grande numero di persone che è senza abitazione.
I Vescovi confidano che chi ha in mano la cosa pubblica provvederà con largo cuore e vigile premura”.[62]
La lettera di mons. Santin agli Alleati
Pur con rischi, in presenza di una situazione sempre più critica, mons. Santin continuò a visitare le parrocchie della sua diocesi (divisa tra Zona “A” e Zona “B”). Si rese conto del clima di persecuzione e di terrore che subiva la sua gente. In tale contesto, si accentuò sempre più l’esodo dall’Istria. Purtroppo le accoglienze riservate in Italia ai profughi non furono sempre rispettose della dignità dei nuovi arrivati, e in alcuni casi si rivelarono profondamente carenti di umanità. Il presule, al riguardo, emanò direttive per l’accoglienza degli istriani nella Zona “A”. Unitamente a ciò, scrisse ai ministri degli Esteri degli Stati Uniti d’ America, del Regno Unito e della Francia. Questi, si dovevano rendere conto dello scempio dei diritti umani che la Jugoslavia di Tito faceva nella Zona “B” da essa occupata. Santin supplicò i suoi interlocutori a non fare cessioni a Tito se non con un plebiscito.
Con riferimento alla lettera di mons. Santin trasmessa agli Alleati si riportano qui di seguito alcuni passaggi. In particolare, riguardo ai diritti umani calpestati, il presule annotò:
“(…) Voi vi meraviglierete che un vescovo si occupi di simili problemi. Ma se ieri, a fronte alta, abbiamo protestato contro le ingiustizie dei tedeschi, oggi abbiamo il diritto di gridare contro qualunque altra ingiustizia. (…) Più della metà della mia Diocesi si trova nella Zona B, cioè sotto Tito. Ed è da notare che il regime della Zona B non è ancora il sistema stabilito nella Jugoslavia. Ora io vi dico che questo sistema distrugge ogni libertà, riduce l’uomo a un cencio che trema notte e giorno di paura (…). Noi abbiamo conosciuto il fascismo, ma, di fronte a questo regime, il fascismo rappresenta quasi il regno della libertà”.
Con attenzione, poi, ai nuovi confini abbozzati dalla Commissione il vescovo Santin annota:
“(…) La linea francese strappa carne viva, lasciando Parenzo, Orsera, Rovigno, Pola ecc. alla Jugoslavia. Sono città perfettamente italiane. (…) Mai nella storia questa Zona appartenne alla Croazia. È un atto d’imperialismo, dinanzi al quale si ribella l’animo di tutti. (…) La linea francese è inaccettabile. Potrà essere imposta come s’impone la morte: perché sarà la morte di nobilissime città sacrificate all’imperialismo comunista. Accettabile è la linea americana; con sacrificio quella inglese. Null’altro. Io vi prego di dare in questo senso istruzioni al vostro sostituto nella Commissione”.
A fine lettera si trova questa affermazione di mons. Santin: “Perdonate il mio ardire, ma io difendo il Diritto di questa povera gente, difendo la più pura causa della Giustizia”.[63]
La Relazione alla Segreteria di Stato (fine 1946)
Alla fine del 1946, mons. Santin inviò una Relazione alla Segreteria di Stato vaticana sulla situazione religiosa in Istria occupata dall’Armata Jugoslava. Si riporta qui di seguito il testo.
“(…) Nella Zona B è completamente impedito l’esercizio del ministero episcopale al Vescovo di Trieste e Capodistria: Visita Canonica, amministrazione della Cresima, partecipazione a solennità sono proibite, l’Autorità si rifiuta di trattare con la Curia Vescovile; decine di migliaia di fanciulli attendono la Cresima senza poterla ottenere.
Il Vescovo di Parenzo e Pola e quello di Fiume e di Zara sono guardati con diffidenza e trattati spesso villanamente.
L’Arcivescovo di Zara in particolare, che è gravemente ammalato e che ha chiesto il permesso di essere trasportato a Trieste per essere curato da alcuni specialisti, si vide fino ad ora rifiutato il permesso.
Il Clero è sorvegliato con diffidenza, ogni parola che pronuncia in Chiesa è pesata e frequentemente i richiami e le minacce fanno seguito all’esposizione più semplice e religiosa della dottrina evangelica. Guai poi se qualcuno osasse accennare al comunismo ateo. Sarebbe immediatamente imprigionato. Non sono permesse le Associazioni di Azione Cattolica.
Ogni sacerdote vive ogni giorno sotto l’impressione di essere alla vigilia di essere gettato in prigione. Quando vengono in Curia osservano che non sanno se vi ritorneranno più.
Parecchi hanno dovuto fuggire. Alcuni sono stati imprigionati. Il pretesto è sempre la contrarietà al regime di Tito. La ragione vera è l’odio alla Religione e alla Chiesa. Quando lo zelo di qualche sacerdote aumenta, allora incomincia a dare sospetto e la lotta non manca.
In piena coscienza si deve affermare che la Chiesa nella zona B non è libera di svolgere il suo ministero.
Si apprende da fonte jugoslava ineccepibile:
1. Il centro Jugoslavo per la Venezia Giulia ha ricevuto e fissato recentemente il piano d’azione d’accordo col comando militare jugoslavo di Lubiana, con i rappresentanti del governo di Belgrado, con i capi del movimento comunista italiano.
2. È stato deciso di intensificare e di accelerare il processo di slavizzazione e di eliminazione degli italiani della Zona “B” e quello di infiltrazione slava e di propaganda separatista “sub specie” sociale ed internazionale nella Zona “A”.
3. Tutto il territorio carsico fino al suburbio di Trieste è organizzato militarmente. Nel più piccolo villaggio perfino in ogni gruppo di casolari c’è un nucleo ed una cellula a cui sottostanno gli abitanti uomini e donne. Ogni rappresentante ha una certa autonomia e dispone di propri depositi di armi, munizioni e viveri, di mezzi di trasporto. L’inquadramento è fatto da ex-partigiani al comando del colonnello Ukmar.[64]
4. A Trieste stessa ha sede il comando generale avanzato che ha concentrato il piano di mobilitazione. Ne fanno parte oltre a Ukmar, Štoka[65], alcuni ufficiali superiori dell’esercito jugoslavo ed alcuni capi partigiani. I depositi di armi e munizioni in città sono in continuo incremento.
5. Qualora la Conferenza non attribuisca alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia, Trieste compresa, dovrebbe scoppiare una sommossa a carattere sociale, seguita immediatamente da una insurrezione di partigiani; infine interverrà l’esercito regolare jugoslavo. Si conta sulla sorpresa e sulla rapidità dell’azione.
Si specula così sulla creduta stanchezza delle forze armate alleate e sulla supposta predisposizione dell’America e dell’Inghilterra a cedere alla violenza, piuttosto che provocare un conflitto armato con la Russia.
Ritiratasi gli alleati oltre l’Isonzo, si creerebbe il fatto compiuto.
La Venezia Giulia annessa alla Jugoslavia verrebbe in breve epurata da buona parte degli Italiani e da ultimo la conquista violenta sarebbe legalizzata con un plebiscito controllato.
L’11 settembre, verso sera, il Rev. Sac. Francesco Bonifacio, mentre ritornava a piedi da Grisignana a Villa Gardossi, sua residenza, fu arrestato dalla Guardia popolare.
Nella notte stessa fu ucciso sul Carso di Piemonte. La notizia dell’uccisione è certa.
Era un sacerdote di 33 anni, mite, pio, molto amato dalla popolazione.
Non si può trovare nessun motivo del fatto, ad eccezione dell’ostilità per la sua attività religiosa.
Recentemente furono ospitati nel Seminario di Pisino, per volontà dei “poteri popolari” dei giovani partecipanti a un loro convegno. Durante la notte atterrarono il grande crocifisso e altre croci della Casa, che li ospitava.
Recentemente fu atterrato e profanato un grande Crocefisso a Pinguente da elementi comunisti affiliati ai ‘poteri popolari’.
Il parroco del luogo, don Natale Silvani[66], indisse una processione di penitenza, durante la quale egli a piedi scalzi riportò sul posto un nuovo Crocefisso.
Una immensa folla, mai vista in tali proporzioni, prese parte piamente alla processione.
Dopo due giorni i medesimi distrussero il nuovo Crocefisso.
Nel mese di marzo il parroco di Villanova del Quieto, don Giovanni Zogani (corr. Zugan)[67], fu citato davanti alla Polizia (Ozna) di Buie perché insegnava in italiano la dottrina cristiana ai fanciulli nella chiesa parrocchiale. La parrocchia è italiana. La popolazione lo accompagnò e rimase davanti la sede della Polizia fino a che non fu restituito.
Il giorno dopo alcuni elementi dell’Ozna scesero a Villanova per accusare il parroco davanti alla popolazione.
Per fortuna era quasi notte e la popolazione reagì, gridando che il parroco era innocente e che si voleva distruggere la Religione. La sera successiva sparatoria per intimidire la popolazione.
E la notte successiva il parroco fu arrestato, bastonato e condotto per un lungo giro a Buie.
La popolazione reagì. In massa si portò al Comando, senza sapere dove si trovasse il sacerdote.
Dopo qualche giorno il sacerdote fu lasciato libero, avendone parlato la stampa e la radio non iugoslava.
Sempre in marzo fu arrestato il decano di Portole, don Bona Angelo, un sacerdote esemplare, molto stimato dal clero e amato e venerato dalla popolazione. E senza nessun motivo.
Si trova ancora in carcere a Pinguente. Così la vastissima parrocchia la domenica delle Palme e la Settimana Santa è senza alcuna funzione religiosa.
L’ ostilità contro la Religione è continua. In tutti i modi ne è ostacolata l’opera.
Ogni sacerdote sa che prima o poi verrà la sua ora.
Sempre in marzo a S. Pietro in Selve, un sacerdote molto zelante, don Giovanni Zufic, dovette abbandonare la parrocchia, solo perché la sua opera aveva suscitato un consolante risveglio religioso. La popolazione tutta, meno quattro persone, aveva firmato una petizione a suo favore”.[68]
L’aggressione a mons. Santin (giugno 1947)
Nel gennaio del 1947 mons. Santin scrisse all’on. De Gasperi[69] per sollecitare aiuti a favore delle popolazioni in stato di bisogno.[70] In seguito, si verificò un fatto particolarmente doloroso. Dopo l’emanazione di una “proibizione” nei suoi confronti da parte delle autorità jugoslave con conseguente impedimento anche con mezzi violenti di eventuali visite pastorali (1946), mons. Santin venne aggredito, insultato, malmenato, ferito a Capodistria (19 giugno 1947) mentre si apprestava ad amministrare la Cresima. Fu costretto a riparare a Trieste protetto da una scorta armata.[71] Si riporta qui di seguito la sua testimonianza.
“(…) Mi trovarono, mi insultarono, gridando che dovevo andarmene. E mi trascinarono violentemente giù per le scale (del seminario) percuotendomi con pugni e con legni, sulla testa. Arrivai in cortile perdendo mozzetta, rocchetto, croce e scarpe. Ero tutto insanguinato. Mi spinsero e trascinarono, mentre sui muri esterni del cortile la gente arrampicata urlava improperi, e così arrivai nel refettorio davanti alla cucina. Colà vi era altra folla che si dimenava e gridava. Seppi poi che la gente capodistriana aveva cercato invano la polizia ed era stata bloccata fuori del Seminario mentre tentava di portare soccorso. Ma secondo un piano prestabilito la polizia – per scansare le responsabilità – doveva intervenire a tempo opportuno, consumato il misfatto. E così intervenne.
Proprio allora un energumeno entrato in cucina aveva preso dal tavolo un gran coltello con cui le suore tagliavano la carne. E stava uscendo brandendolo, quando la polizia, giunta finalmente, si collocò fra me e la folla urlante. E così fui salvo. Nel refettorio venne qualcuno ad asciugarmi il sangue e poi mi portarono nella parte più riposta, sopra la chiesa-cappella. Era l’infermeria. Venne il medico dott. Paruta, che mi medicò. Era furibondo e io dovetti calmarlo. Mi feci portare la comunione. E rimasi lì ad attendere.
Dopo qualche tempo ritornò la Rosa.[72] Mi disse: “Ora verranno alcuni a offrirle di portarla a Trieste con una barca, che hanno preparato in marina a Bossedraga. Non accetti, per amor di Dio. Intendono gettarla in mare in mezzo al golfo con una pietra al collo. Lei sa che sono a giorno di tutto”. Difatti vennero alcuni dell’autorità a scusarsi. Non sapevano che io sarei venuto a Capodistria (ed erano ad attendermi sulla strada di Trieste). Se li avessi avvertiti, avrebbero impedito quanto era avvenuto. Risposi che io avevo informato regolarmente le autorità. E soggiunsero che era pronta una barca per portarmi a Trieste. Insistettero nell’offrire questo loro servizio. Ma io rifiutai decisamente. E mi lasciarono in pace.
Più tardi ritornarono alcuni dicendomi che era pronto un camion per portarmi a Trieste. Intanto la notizia era arrivata a Trieste al Governo Militare Alleato. Accettai. L’automezzo scoperto aveva in mezzo un banco sul quale ci sedemmo io e padre Porta, che venne con me. Attorno nello stesso vi erano in piedi soldati armati, che ci circondavano. Sembravamo due condotti a morte. Avevano disposto gruppi di loro compagni con le mani piene di sassi. E mentre si passava tiravano le pietre che colpirono i soldati, perché noi eravamo in mezzo. Così siamo arrivati ad Albaro Vescovà, ove si trovava il posto di blocco che separava la zona occupata dagli jugoslavi da Trieste. Qui ci vennero incontro polizia e soldati del G.M.A.[73], che mi presero in consegna e con un’automobile mi portarono a casa”.[74]
1948. La nuova denuncia di mons. Santin
Nella prima domenica di Avvento del 1948, mons. Santin volle pronunciare un discorso molto esplicito dalla cattedrale di San Giusto. Si riportano qui di seguito i passi principali.
“(…) Bisogna che il mondo ascolti la voce dei fratelli perseguitati. Più che la furia del carnefice, impressiona la passività di chi assiste insensibile. Bisogna che gli uomini sappiano che qui, in una terra nobile e civile, in pieno secolo ventesimo regna il terrore e i diritti di Dio e delle anime sono violati. Il Governo della diocesi è impedito. Il pastore non può visitare il suo gregge. Dai luoghi più lontani, con un disagio sempre crescente, i fedeli devono venire a Trieste, mentre è dovere del Pastore portare fra di loro il suo ministero. (…) Il clero è spiato in chiesa e fuori chiesa, la predicazione severamente vigilata. (…)
Nella scuola i testi insegnano l’ateismo e i maestri lo inculcano. Anche la Religione (l’insegnamento) vi è ammessa, ma relegata a ore impossibili, ed è arbitrariamente esclusa dall’insegnamento buona parte dei sacerdoti migliori. In qualche luogo si pretende che anche per la dottrina in chiesa si chieda il permesso. Nelle pubbliche adunanze e dalle tribune radiofoniche si insultano e si calunniano i sacerdoti e la gerarchia della Chiesa. (…).
E così dopo la distruzione del Seminario[75] o di istituti religiosi di educazione e la violazione e la profanazione di conventi e monasteri[76], dopo che sacerdoti innocenti furono uccisi, imprigionati o fatti fuggire dalla Zona, si continua a rendere loro impossibile la vita e solo la fedeltà eroica al sacro dovere mantiene al loro posto quei sacerdoti, che finora han potuto resistere.
Così si proibisce la residenza nella Zona a sacerdoti che ne hanno pieno diritto[77] si scacciano dalle case canoniche i parroci senza dare loro la possibilità di abitare in mezzo ai fedeli, che sono loro affidati (…). Non possono vivere e operare l’Azione Cattolica e le varie Congregazioni pie (…).
Violate sono le domeniche con un lavoro che ha del volontario solo il nome. La promiscuità dei collegi crea situazioni delicate (…). Nel campo delicatissimo del matrimonio è stata portata la confusione e così nella stessa piccolissima zona vi sono ordinamenti diversi permessi dalla stessa autorità. Introdotto il divorzio, imposta la precedenza dal matrimonio civile (…).
E spesso lo scherno e il sospetto – quando non sono velate minacce – che accompagnano coloro che frequentano la chiesa, rendono eroica la manifestazione della fede e della cristiana pietà (…).
Ora io chiedo che cessi questo stato di cose che non fa onore a nessuno. I persecutori sono sempre stati bollati d’infamia dalla storia (…). Nessuna persecuzione è terminata mai con la vittoria dei persecutori. Con la certezza che ci viene dalla fede e dalla storia sappiamo che anche questa avrà uguale fine (…)”.[78]
I divieti di Santin (gennaio 1950)
Oltre a lettere e omelie, mons. Santin emise anche un decreto per i fedeli della Zona “A” con il quale elencava i giornali e i periodici di ideologia comunista che non dovevano essere letti. Diffondevano ateismo e materialismo. Tra questi organi di stampa: ‘Il Corriere di Trieste’ (sovvenzionato dalla Jugoslavia), ‘Il Lavoratore’, ‘La nostra Lotta’ e diversi altri in lingua slovena, tra cui anche una rivista letteraria ‘Razgledi’.
La resistenza di mons. Camozzo
La situazione della città di Fiume al momento dell’occupazione delle milizie titine (3 maggio 1945) è stata descritta da mons. Severino Dianich[79] anche nell’intervento al Consiglio Comunale di Firenze, il 10 febbraio del 2020. Si riporta, al riguardo, un passaggio del discorso.
“(…) Non sapevamo nulla delle foibe: era solo che la gente spariva, si moltiplicavano i desaparecidos. Illusi, speravamo che l’occupazione finisse e passassimo sotto l’amministrazione degli Alleati, mentre si consolidava col pugno di ferro su tutte le nostre libertà. Le uniche reazioni possibili erano quelle dei ragazzini e degli studenti, oppure quella delle chiese affollate anche da atei e anticlericali per rendere onore al vescovo mons. Camozzo o per ascoltare le coraggiose prediche di don Janni Sabucco e di don Alberto Cvecich”.[80]
La prova di forza del 22 giugno 1946
Il comandante dei reparti dell’OZNA a Fiume fu Oskar Piškulić[81], detto ‘Zuti’ (il giallo). Svolse il proprio ruolo fino al 1947. Il responsabile del Comitato Popolare Cittadino fu Petar (Pietro) Klausbergher.[82] La sede dell’OZNA a Fiume era in piazza Scarpa, nel palazzo che ospitò il consolato jugoslavo e la rappresentanza della Croazia ustascia, già casa Milidragovich.
In tale contesto, furono diverse nella città le azioni pastorali mirate a confermare una diffusa vita di fede. Ne fu prova un episodio che avvenne il 22 giugno del 1946. In quel giorno, la Chiesa locale partecipava alla festa liturgica del Corpus Domini. Era (e rimane a tutt’oggi) un momento significativo per i cattolici. Il maresciallo Tito, però, aveva dichiarato lavorativo quel giorno. Tale provvedimento mirava a indebolire l’unità ecclesiale. Cominciarono quindi le pressioni dei fiduciari del partito comunista per far rispettare l’ordinanza. A questo punto, il vescovo Camozzo[83] non accettò l’imposizione. Fece organizzare dal clero la processione del Corpus Domini per le vie della città. Il rito religioso ebbe luogo e vi partecipò un significativo numero di fedeli.
In tale contesto i rapporti con i nuovi occupanti si acuirono. Il presule, nel frattempo, si premurò di chiedere aiuti alimentari ad organismi internazionali, a sostegno delle popolazioni fiumane e istriane. Si occupò inoltre, in prima persona, dell’esodo di vari italiani. L’avversione comunista verso questo presule aumentò. Vi furono anche tentativi dei miliziani di Tito per impedire la celebrazione di messe (le chiese erano presidiate da attivisti comunisti).
L’esodo di mons. Camozzo con preti e seminaristi
Alla fine, nel 1947, mons. Camozzo fu costretto a seguire il generale esodo verso l’Italia. Riuscì, però, a proteggere diversi sacerdoti e seminaristi, facendoli trasferire da Fiume in Toscana (molti di loro erano finiti nei campi di lavoro).[84] I sacerdoti e seminaristi esuli a Pisa con il vescovo Camozzo furono: Giovanni Cenghia, Clemente Crisman, Egido Crisman, Alberto Cvecich, Severino Dianich, Vittorio Ferian, Gabriele Gelussi, Floriano Grubesich, Mario Maracich, Rino Peressini, Fulvio Parisotto, Giuseppe Percich, Oscar Perich, Ariele Pillepich, Francesco Pockaj, Antonio Radovani, Giovanni Regalati, Aldo Rossini, Arsenio Russi, Janni Sabucco, Giovanni Slavich, Giacomo Desiderio Sovrano, Giuseppe Stagni e Romeo Vio. Tra i sacerdoti citati risultano due figure particolarmente significative: don Cvecich e mons. Sabucco.
Don Alberto Cvecich[85] fu un presbitero ricordato con affetto dai suoi fedeli. Si riportano qui di seguito alcuni brani della Memoria di un esule fiumano, Antonio Dianich.
“(…) Era nato a Noselo-Villanova, nell’Istria (…)”. Dopo aver studiato nel Seminario di Fiume e in quello di Venezia “era stato poi ordinato sacerdote, nel 1943, dal vescovo di Fiume monsignor Camozzo. Aveva celebrato la sua prima messa nella chiesa dei Salesiani di Fiume” (…). Durante la guerra correva sotto le bombe per dare assistenza ai malati e ai moribondi, e per dire messa nei rifugi sotterranei; dopo la guerra, nei primi tragici anni dell’occupazione titina, portava una parola di conforto ai malati e ai poveri nelle loro case con pericolo della propria vita, perché strettamente sorvegliato dalla polizia comunista. Mi ricordo che in quelle visite si faceva sempre accompagnare da un chierichetto (mio fratello ed io lo abbiamo fatto più volte), che incaricava di portare alla famiglia visitata una “puturitza”, cioè un fascetto di legna da ardere per riscaldarsi (le forze militari di Tito avevano introdotto la vendita della legna a misura invece che a peso).
Essendo proibito fare catechismo a scuola, don Alberto ci riuniva in chiesa alle 2 del pomeriggio, quando la chiesa era vuota: in fondo alla chiesa, vicino alla porta, una spia della polizia ci stava sempre a controllare, finché un giorno don Alberto, alla fine del catechismo, disse a voce alta, per poter essere ben sentito: “Ed ora preghiamo per quella brava persona così devota che viene tutti i giorni a sentire il nostro catechismo. La spia non si fece più vedere.
(…) La situazione con la polizia si faceva sempre più tesa. Un giorno, al processo contro il salesiano don De Martin, a sentire le false accuse del procuratore e dei testimoni, don Alberto non aveva resistito ed aveva gridato qualcosa contro l’ingiustizia che si celebrava in quel “tribunale del popolo”. Dopo poco suo cognato, che era stato vigile urbano a Fiume, ma aveva rifiutato l’incarico dopo essere stato sul punto di essere deportato, insieme con tutti gli altri vigili, ed ammazzato chissà dove, aveva saputo, nel suo nuovo lavoro di magazziniere, che la polizia era pronta ad arrestare don Alberto da un momento all’altro. Don Alberto ebbe la prontezza di prendere un taxi (ancora si poteva) e di scappare a Trieste: era il 1946-47 circa (…)”.[86]
Mons. Janni Sabucco[87] operò a Fiume dal 1939 al 1948 nella parrocchia del SS.mo Redentore, con don Luigi Polano. Fu tra le ultime persone a vedere ancora in vita, segnato dall’aggressione fisica ricevuta, il senatore Riccardo Gigante[88], prigioniero dei partigiani comunisti che lo condussero a Castua, luogo dell’esecuzione. Don Sabucco ne descrisse il tragico cammino in una pubblicazione del 1953.[89] Mons. Sabucco fu poi arrestato e torturato dall’OZNA[90] (una lampada fissa davanti agli occhi fu causa di un danno corneale).
La resistenza di SE mons. Munzani
Alla morte di mons. De Borzatti fu nominato vescovo amministratore apostolico di Zara (oggi Zadar) mons. Pietro Doimo Munzani[91] (Petar Dujam), del clero cittadino. Nel marzo 1933 questo presule divenne arcivescovo di Zara (fu l’ultimo). L’arcidiocesi, con trenta parrocchie, non aveva una particolare estensione. Si trovava inoltre suddivisa in tre aree non vicine tra loro. La vita religiosa, però, rimaneva vivace. Il secondo conflitto mondiale provocò purtroppo delle notevoli criticità nella città. Per tale motivo, l’arcivescovo decise di trasferire il seminario a Lussingrande, nella villa che era sede estiva per i seminaristi. I problemi si acuirono con i 54 bombardamenti anglo americani che Zara subì tra il settembre 1943 e l’ottobre 1944 (Munzani si rifugiò nella cappella mortuaria del cimitero). Le incursioni distrussero l’85% delle abitazioni con circa 4mila morti (tra bombardamenti e cause belliche), su meno di 22mila abitanti. Il 31 ottobre 1944 Zara venne occupata dalle milizie di Tito.
Con la presenza stabile delle truppe jugoslave la Chiesa locale subì persecuzioni. I parroci di Cerno (Cernik) e Làgosta (Lastovo; isola della Dalmazia meridionale) furono fatti sparire. Giovedì 2 novembre 1944 i militari di Belgrado fermarono a Zara l’industriale Pietro Luxardo[92], il vice prefetto Giacomo Vuxani[93], il vescovo e altri cittadini italiani. Vennero tutti ristretti nella caserma ‘Vittorio Veneto’.
Seguirono penose vicende. Dal novembre 1944 alla primavera del 1945 il presule fu confinato prima a Lissa e poi a Lagosta.[94]
Tornato a Zara, volle proseguire le sue attività pastorali. Nel frattempo, molti religiosi, italiani e slavi, erano stati incarcerati. A questo punto, fu nominato vicario generale dell’arcidiocesi mons. Mario Novach. Quest’ultimo, però, nel 1948 dovette affrontare l’esilio riparando a Trieste.[95] Intanto, la popolazione italiana della città, come quella delle comunità italiane più piccole in Dalmazia, abbandonava la città. Tra i profughi c’erano diversi sacerdoti.
Nel 1948, dopo il Trattato di Parigi che attribuiva Zara – insieme con Fiume e con l’Istria – alla Jugoslavia, la Santa Sede ridisegnò il territorio dell’arcidiocesi, di cui era ancora titolare mons. Munzani. Quest’ultimo, nominò quale suo vicario mons. Mate (Matteo) Garković[96], e dopo poche settimane lasciò l’arcidiocesi (agosto 1948), per raggiungere l’Italia. In seguito, non ebbe una sede propria, anche per le sue precarie condizioni di salute (acuite da una sordità). Malgrado ciò, e in sintonìa con il Papa, divenne l’apostolo dei profughi giuliani e dalmati, che visitava in ogni località italiana ove erano stati accolti.
Con l’esodo dell’arcivescovo cessava di esistere la struttura ecclesiastica italiana a Zara e in Dalmazia. Come avvenne per la popolazione italiana della Dalmazia, anche i sacerdoti di quell’area si sparsero in Italia e in altri Paesi. Tra il clero che dovette lasciare la Dalmazia ci furono, incluso l’arcivescovo, cinquantotto sacerdoti, mentre dieci sacerdoti della diocesi rimasero nelle loro parrocchie. Uno di essi, il salesiano don Romano Gerichievich[97], parroco di Làgosta, fu recluso per diversi anni nelle carceri titine, prima di poter arrivare in Italia.
Nel tardo pomeriggio del 28 gennaio 1951, nella cattedrale di Oria (Brindisi) mons. Munzani (61 anni) stava tenendo un ciclo di prediche presenti vari fedeli. Quel giorno, terminò il sermone con queste parole: “Perdono, mio Dio, di tutti i miei peccati: miserere mei, miserere mei!”. A questo punto, scese dal pergamo. Mentre si inginocchiava davanti al Santissimo Sacramento, fu colpito da una trombosi cerebrale. Si accasciò al suolo rimanendo immobile per terra.
Don Romano Gerichievich
Arrestato il 25 gennaio 1944, don Romano riuscì a scappare a Lissa. I miliziani di Tito, però, fermarono la madre e la tennero come ostaggio. A questo punto, il sacerdote si consegnò all’OZNA (polizia segreta politica). Il 18 dicembre ’44 fu tradotto al carcere Karmen a Ragusa (ex convento delle Carmelitane). Condannato a morte e trasferito a Traù, prigione delle fucilazioni, ebbe la pena commutata a dieci anni. Dopo un periodo nel carcere di Stara Gradiška, fu in seguito assegnato ai campi di lavoro di Zalog e Marijin Dom.[98]
La resistenza di SE mons. Radossi
Nato a Cherso (nell’arcipelago del Quarnaro), mons. Raffaele Mario Radossi[99] faceva parte dei Frati Minori Conventuali. Nel 1941 fu nominato vescovo di Parenzo e Pola (Istria). Il 18 agosto del 1946 una esplosione di mine navali durante una manifestazione sportiva a Vergarolla (Pola) provocò la morte di 65 persone. In quel periodo l’Istria era rivendicata dal governo di Tito. Le sue milizie l’avevano occupata fin dal maggio del 1945. Pola, invece, era amministrata dalle truppe britanniche, a nome degli Alleati. Era quindi l’unica parte dell’Istria al di fuori del controllo jugoslavo. L’inchiesta delle autorità inglesi stabilì che “gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute”.[100]
In tale contesto, mons. Radossi, subì più atti di violenza. Si pensi, ad esempio, alla devastazione del palazzo vescovile di Parenzo (abbattute porte e finestre, rovinati gli arredi, incendiata un’ala del fabbricato). Anche nelle sue visite pastorali, fu spesso oggetto di angherie: ostruite le strade di accesso alle chiese di Filippano (Filipana) e Pergnani, minuziose perquisizioni ai posti di blocco, et al..[101] Il 20 giugno del 1946, nella festa liturgica del Corpus Domini, il presule poté ancora una volta rivolgersi ai fedeli. Protetto dalle truppe alleate, parlò sull’Eucaristia dalla terrazza del ‘Bar Italia’.
Disse tra l’altro:
“(…) Una falsa filosofia e poi falsa politica hanno pensato di spostare il centro di volontà dello spirito sulla materia e per questo abbiamo avuto l’ombra di altri metodi (…). Noi questa sera, in questa magnifica e commovente dimostrazione di fede, noi diciamo il comune desiderio, la nostra preghiera che l’Istria, che la Nazione e che le Nazioni, rivolgendosi allo spirito cristiano, riconsacrino tutto quello che è stato dissacrato e massacrato da falsi sistemi ideologici, materialismi, passati e presenti, ateismo pratico e comunismo e che i grandi valori morali: fede e speranza, amore e giustizia, libertà e diritto, famiglia e Nazione non siano delle semplici parole vuote di senso, ma realtà efficaci, direttive sante per la vita dei singoli e della collettività”.[102]
In tale contesto, mons. Radossi dovette affrontare varie realtà difficili. In particolare, era emersa una posizione dei sacerdoti croati a favore della causa croata dell’Istria. Al riguardo, il presule volle intervenire perché nell’Assemblea dei sacerdoti croati di San Paolo per l’Istria (Zbor hrvatskih svećenika sv. Pavla za Istru) individuava una sotterranea presenza titina. Tale organismo, infatti, si era autonominato intermediario tra il clero croato e l’autorità jugoslava, ignorando l’autorità dei vescovi di Parenzo-Pola, di Fiume e di Trieste-Capodistria. L’Assemblea, inoltre, aveva emarginato il sacerdote Miroslav Bulesić[103] che nel 1945 era stato nominato intermediario tra il vescovo e la nuova autorità popolare emergente. Radossi, evidentemente, fu contrario all’iscrizione dei sacerdoti all’associazione. La benevolenza titina, comunque, mutò il suo volto quando i fiduciari di Tito si accorsero dell’insistere di una linea anticomunista all’interno dell’associazione.[104]
Unitamente a ciò, mons. Radossi si occupò anche dell’esodo della popolazione italiana. Tra i profughi, infatti, c’erano pure degli adolescenti orfani di guerra, o figli di persone lontane, o minori le cui famiglie volevano i figli in Italia. Per questi bambini e ragazzi mons. Radossi individuò come tutore don Edoardo Gasparini[105], originario di Capodistria, ma incardinato nella diocesi di Parenzo-Pola. Dopo un’interazione tra mons. Radossi e i responsabili della cittadina di Oderzo, don Gasparini poté raggiungere nel 1947 tale località con quaranta ragazzi. Qui, trovò ospitalità presso un capannone della parrocchia dell’abitato. Si arrivò in seguito a promuovere un collegio denominato ‘Ragazzi Giuliani’ (ubicato poi a Villa Giol, a Gorgo al Monticano).[106]
Il 6 febbraio del 1947 mons. Radossi scrisse direttamente all’on. De Gasperi per sollecitare aiuti a favore dei profughi.[107]
La resistenza di mons. Stepinac
In territorio croato, l’arcivescovo di Zagabria, mons. Alojzije Stepinac[108], si trovò nella necessità di avvisare i propri presbiteri delle reali politiche di Tito. La propaganda di Belgrado, infatti, aveva utilizzato anche una strategia sottile per coinvolgere i sacerdoti a favore del nuovo regime: la proposta di aderire all’associazione clericale intitolata ai santi Cirillo e Metodio. L’organismo venne istituito senza l’approvazione della gerarchia cattolica. Offriva vari benefici agli iscritti, anche economici e fiscali. L’obiettivo dissimulato era quello di operare una separazione tra i vescovi e i sacerdoti (il cosiddetto “clero popolare”). Si voleva arrivare a rovinare il rapporto tra presuli e presbiteri alimentando situazioni di sfiducia e di sospetto.
In uno scritto, indirizzato a un gruppo di sacerdoti di Zagabria (aprile 1954), Stepinac, facendo riferimento all’associazione dei santi Cirillo e Metodio, avvertì che i suoi membri “vogliono convincere la gente che sono rimasti sacerdoti cattolici, mentre nello stesso tempo innalzano il vessillo contro la Chiesa santa (…). Quando rifletto perché quello o quell’altro si è associato a quella tristissima associazione, in ultima analisi trovo la stessa identica motivazione: perché non gli andava di portare la croce del Signore. Vuole più libertà, più indipendenza, come se non avesse promesso mai davanti all’altare di Dio: ‘Promitto reverentiam et oboedentiam’.”
Nel luglio del 1954, in una lettera, egli volle paragonare gli aderenti all’associazione ‘Cirillo e Metodio’ a quei tanti sacerdoti francesi che si prostrarono davanti ai rivoluzionari del 1789, e poi, “con la stessa logica”, si inginocchiarono anche davanti a Napoleone Bonaparte, sebbene questi tenesse in schiavitù il Capo supremo della Chiesa”. E in modo esplicito, nella missiva del 23 luglio 1954, indirizzata a mons. Josip Pavlisic, vescovo ausiliare della diocesi di Fiume, Stepinac condannò l’associazione definendola “vera escrescenza dell’inferno”. Ribadì inoltre la necessità di usare “la spada della scomunica tagliando questo marciume dall’albero sano della Chiesa”.[109]
Mons. Stepinac si rifiutò di scindere il rapporto di fedeltà al Papa. Difese inoltre, in più occasioni, la dottrina cattolica. I militari jugoslavi lo arrestarono e processarono una prima volta nel 1946. Dei 35 testimoni proposti dalla difesa, tra cui c’erano alcuni serbi ed ebrei, ne vennero ascoltati solo 8. Il presule venne condannato a sedici anni di lavori forzati e alla privazione dei diritti politici e civili per la durata di cinque anni.
In seguito stava per essere processato una seconda volta ma morì nel 1960. Il 22 luglio del 2016 il Tribunale Distrettuale di Zagabria decise l’annullamento della sentenza del 1946 per vari motivi di illegittimità. Nel 2020, presso la foiba di Jazovka sono stati riesumati anche corpi di donne, bambini e suore di diversi ospedali di Zagabria.[110]
La rottura diplomatica del 1957
Nel 1957 si verificò una rottura delle relazioni diplomatiche tra la Jugoslavia di Tito e la Santa Sede. Quest’ultima, infatti, percorrendo più strade aveva cercato (senza esito) di stabilire una sia pur minima interazione con Belgrado per difendere le Chiese locali, e per chiedere la rimozione dei provvedimenti penali a carico di consacrati. Pio XII morì senza vedere alcun risultato.
Solo il 25 maggio 1966, durante il pontificato di Paolo VI[111], si arrivò a un avvicinamento con il ‘Protocollo di Belgrado’. Si attuò in tal modo un “modus vivendi” minimale di attività religiosa. Non tutti i nodi vennero superati, ma si neutralizzarono più criticità. il governo garantì alla Chiesa cattolica locale il libero esercizio delle attività religiose e di culto; riconobbe la giurisdizione della Santa Sede sulla Chiesa cattolica in Jugoslavia, nelle questioni spirituali e di carattere ecclesiastico e religioso; garantì ai vescovi la possibilità di mantenere contatti con la Santa Sede in materie ecclesiastiche e religiose; si dichiarò disposto a prendere in esame le segnalazioni della Santa Sede in relazione alla piena applicazione di tali princìpi e garanzie. Da parte della Santa Sede (punto II della pattuizione), venne confermato il principio che l’attività degli ecclesiastici, nell’esercizio delle loro funzioni, si sarebbe svolta solo nell’ambito religioso ed ecclesiastico, senza sconfinare nella sfera politica. [112]
Il dramma dei profughi e le opere di assistenza
Nel contesto fin qui delineato, si svilupparono dal 1945 in poi due linee operative cattoliche significative. Da una parte mons. Santin e altri presuli operarono in direzione della Santa Sede e degli Alleati per far cessare molte tragedie in atto, e per fronteggiare le politiche titine avverse alla Chiesa cattolica.
Unitamente a ciò venne attivata, da parte della Chiesa e dello Stato italiano, un’opera di assistenza di non deboli proporzioni.[113] Si ricorda, al riguardo, che fu proprio Santin a sostenere emergenze legate a gravi criticità. Il vescovo attivò interventi umanitari nella sua diocesi (Trieste-Capodistria) a favore dei profughi (migliaia). Aiutò pure le diocesi di Fiume, Gorizia, Parenzo-Pola e Zara. In concreto, la rete del presule ricevette e distribuì viveri e supporti di varia natura. Nel settembre del 1945 mons. Ferdinando Baldelli[114] inviò generi alimentari per ottobre e novembre ai “refettori del Papa”, incaricando Santin di stornare il quantitativo giornaliero di mille minestre per la città di Fiume.
Nell’ottobre del 1945, il governatorato della Città del Vaticano informò il vescovo che alla città di Pola erano stati assegnati generi alimentari per 500 minestre ai “ragazzi di strada” (periodo 1° gennaio – 30 aprile 1946). Nel gennaio del 1946 mons. Baldelli inviò a Trieste 800 quintali di zucchero, 800 quintali di olio e 200 quintali di pasta da distribuire “in quota parte anche a Gorizia”. Nell’aprile del 1946 mons. G.B. Montini[115] rimise al vescovo, su incarico di Pio XII, 500mila lire per i vescovi di Fiume, Parenzo-Pola e Zara. Altre 200mila lire erano state inviate in precedenza.[116]
Accanto all’azione della Chiesa (che vide l’intervento di don Pietro Damiani[117], don Abramo Freschi[118], don Emerico Ceci[119], padre Flaminio Rocchi[120], et all.), si collocò l’intervento statale.
Nel primo dopoguerra l’assistenza ai profughi provenienti da Zara, da Fiume e dalla isole del Quarnaro venne affidata al ministero dell’Assistenza Post-Bellica. Tale organismo si era sostituito all’Alto Commissariato per l’Assistenza istituito nel maggio del 1944. Il ministero si occupò di assistere più persone in difficoltà: profughi e prigionieri di guerra, reduci, militari rientrati dall’internamento, vittime civili. I provvedimenti a tutela dei profughi dalle terre dell’Adriatico Orientale furono segnati da un criterio assistenzialistico. L’intervento governativo si dimostrò dispersivo e inconcludente. Si cercò di assicurare delle minime condizioni di sopravvivenza, ma non si avvertì l’importanza di operare un reale inserimento dei profughi nella vita italiana.[121]
A fianco dell’azione statale operarono più organismi di assistenza. Si ricordano qui, ad esempio, le iniziative promosse dalla Croce Rossa Italiana.[122]
Testimoni delle violenze titine. Profughi dalle terre dell’Adriatico Orientale
Nel contesto delineato l’esodo dall’Istria, dalla Dalmazia e da Fiume, non riguardò solo gli abitanti delle diverse aree territoriali. Tra le migliaia di profughi ci furono anche vescovi, sacerdoti e religiosi/e. Ognuno di loro affrontò vicende critiche sulle quali non sempre gli studi storici hanno saputo evidenziare il cammino di sofferenza. Per tale motivo può essere utile ricordare alcune vicende che riguardarono presbiteri testimoni delle violenze titine (tra i motivi dell’esodo), e consacrati che dovettero lasciare i luoghi del loro apostolato (vittime delle imposizioni titine).
Testimoni delle violenze titine. Don Giacomo (Jakob) Ukmar
Giacomo (Jakob) Ukmar[123] era triestino di origine ma sloveno di madrelingua. Nacque ad Opicina.[124] La sua famiglia proveniva dalla vicina Sežana (Slovenia). Il nucleo si era trasferito per il lavoro del padre.[125] Jacob frequentò il ginnasio di lingua tedesca a Trieste. Entrò poi nel seminario di Gorizia. Sacerdote nel 1901. Iniziò a collaborare con la rivista di Lubiana Almanah.[126] Nel 1906 divenne amministratore della parrocchia di Ricmanje (San Giuseppe della Chiusa).[127] Qui, dovette affrontare anche la questione del glagolitico.[128] Nel 1910 fu nominato rettore del Convitto vescovile di Trieste. Insegnante di religione nel liceo statale tedesco di Trieste (1913). Venne poi arrestato dalla polizia austriaca per “lesa maestà”.[129] Don Ukmar, dopo la laurea in teologia (1917), ricevette la nomina a direttore del seminario di Trieste (1919). Nel suo apostolato sostenne la “convivenza cristiana delle nazioni” (omelie, scritti su bollettini diocesani). Per i cattolici sloveni di Trieste e dell’Istria (condizionati dal regime fascista) divenne un riferimento importante. 1940: giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale di Venezia. Nel secondo dopoguerra sostenne gli internati nei campi di Chiesanuova (Padova), Gonars (Udine) e Visco (Udine). Ottenne, inoltre, la reintroduzione della lingua slovena nelle chiese di Trieste.
La tragedia di Lanischie (1947)
Nel luglio del 1947, il segretario del Comitato distrettuale del partito comunista di Pinguente (Kotarski komitet KPH Buzet) aveva impartito la direttiva di colpire duramente i parroci. Si doveva approfittare di quelle situazioni ove questi “fossero stati coinvolti in attività nemiche e non democratiche”. Se fino a quel momento i religiosi avevano agito liberamente, con la conclusione della vertenza legata al Trattato di pace, essi andavano “colpiti” ogni qualvolta non avessero “rispettato la legge del nuovo potere popolare e la democrazia”. L’arresto non era previsto per “ogni piccolezza”, ma le autorità avevano comunque il dovere di “smascherarli e punirli”.[130] Spettava quindi a ogni cellula del partito capire quali fossero i metodi con i quali i parroci si servivano per lavorare contro il potere popolare.
In tale contesto, avviene un fatto ecclesiale significativo. Il vescovo Santin aveva affidato (19 agosto 1947) a mons. Ukmar il compito di amministrare la Cresima a Pisino, Pinguente (in croato Buzet) e zone limitrofe. Nell’espletamento di questo compito Ukmar ebbe come assistente un giovane sacerdote, don Miroslav Bulešić. Quest’ultimo, era parroco di Mompaderno, vicerettore del seminario di Pazin e segretario dell’Associazione sacerdotale di San Paolo.
All’inizio non sembrò profilarsi alcun pericolo. In seguito fiduciari del partito comunista cominciarono a bloccare le strade per impedire ai cresimandi di raggiungere le parrocchie.
Sabato 23 agosto 1947: a Pinguente un nucleo di oppositori fece irruzione nella chiesa parrocchiale. Si voleva impedire l’amministrazione delle Cresime. L’azione violenta fu bloccata da don Miroslav. In tal modo non vennero profanate le ostie consacrate deposte nel tabernacolo. Verso sera, i due sacerdoti arrivarono a Lanischie (Lanišće), paese dell’Istria settentrionale, all’epoca nel territorio della diocesi di Trieste-Capodistria. Il giorno dopo dovevano celebrare la messa (con amministrazione delle Cresime) nella chiesa dei Santi Canzio, Canziano e Canzianella.
Domenica 24 agosto: parenti e padrini dei cresimandi cominciarono a sostare presso la chiesa per prevenire azioni inconsulte da parte di oppositori legati al regime titino. Al termine della funzione mons. Ukmar, don Stefan Cek[131] (parroco) e don Miroslav, raggiunsero la canonica.[132]
Verso le ore 11, alcuni uomini entrarono nella casa parrocchiale. Videro subito don Miroslav Bulešić. Il prete fu bastonato, gettato in terra, contro la porta, e ucciso con colpi di coltello alla gola. Gli aggressori bloccarono anche mons. Ukmar. Questo sacerdote subì violenze fisiche. Alla fine, venne ritenuto morto e lasciato in terra. Don Cek sfuggì all’aggressione perché nascosto in un sottoscala.[133]
Domenica 24 agosto: parenti e padrini dei cresimandi cominciarono a sostare presso la chiesa per prevenire azioni inconsulte da parte di oppositori legati al regime titino. Al termine della funzione mons. Ukmar, don Stefan Cek[134] (parroco) e don Miroslav, raggiunsero la canonica.[135]
Verso le ore 11, alcuni uomini entrarono nella casa parrocchiale. Videro subito don Miroslav Bulešić. Lo bastonarono. Il prete fu gettato a terra, contro la porta. Poi venne ucciso con colpi di coltello alla gola.
Gli aggressori bloccarono anche mons. Ukmar. Questo sacerdote subì violenze. Alla fine, venne ritenuto morto e lasciato in terra. Don Cek sfuggì all’aggressione perché nascosto in un sottoscala.
Dopo questo fatto di sangue, la polizia segreta di Tito (l’OZNA) tentò di far rilasciare ad alcuni medici una dichiarazione secondo la quale il sacerdote ucciso era invece morto per arresto cardiaco, ma essi si rifiutarono di farlo.
Le autorità civili imposero di seppellire i resti di don Miroslav Bulešić nel cimitero di Lanischie. Nel 1958 acconsentirono a trasferirli a Sanvincenti (in croato istriano Savičenta) a una condizione: la lastra tombale non doveva recare scritte con il nominativo. Sulla prima lapide, di conseguenza, venne incisa la parola presbyterum (sacerdote). Il 24 agosto 1987 fu riportata una nuova iscrizione con il nome e le circostanze della morte del sacerdote.[136] Nel 2003 la salma venne traslata all’interno della chiesa dell’Annunciazione, sulla parete laterale destra, verso l’ingresso principale.
Con il nulla osta dalla Santa Sede, venne avviato presso la diocesi di Parenzo e Pola il processo informativo diocesano sul martirio, aperto il 24 agosto 1997. L’11 settembre 2004, nella basilica di Parenzo, si svolsero le fasi conclusive, dopo le quali, nel 2010, la Positio super virtutibus venne trasmessa alla Congregazione per le Cause dei Santi a Roma.
Infine, con decreto firmato da Benedetto XVI[137] il 20 dicembre 2012, venne riconosciuto che l’uccisione del Servo di Dio Miroslav Bulešić era avvenuta in odium fidei (odio verso la fede). La cerimonia di beatificazione si svolse nell’arena di Pola sabato 28 settembre 2013.
Il processo ai sacerdoti
Dopo la tragedia avvenuta a Lanischie, il 29 settembre ebbe inizio il processo contro gli ecclesiastici sopravvissuti. Erano “rei” di aver provocato “gli incidenti” del 24 agosto. Don Stefano Cek fu accusato di aver affisso alle porte della chiesa di Lanischie un comunicato nel quale si metteva sull’avviso che non sarebbero stati ammessi per padrini alla cresima coloro che avevano militato tra i partigiani.
La verità era un’altra. Il comunicato faceva riferimento a “peccatori pubblici”, cioè a concubini o a persone sposate solo con rito civile. Inoltre, don Cek fu accusato di aver fatto circondare la canonica da uomini armati che “provocarono” l’ “incidente” opponendosi a chi era intervenuto per mantenere l’ordine. Anche in questo caso non si disse che i sacerdoti erano stati difesi da chi voleva ucciderli. E si tacque sul fatto che proprio i membri della forza pubblica non erano intervenuti mentre avvenivano le violenze e l’omicidio.
Riguardo all’uccisione di don Miroslav avvenuta in canonica, si disse che per il gran numero di soggetti presenti non erano stati individuati i colpevoli. Mons. Ukmar fu accusato, “quale delegato del vescovo di Trieste, noto fascista Santin”, di associazione a delinquere, per aver concordato con don Stefano Cek il modo di tener lontani dalla cerimonia della cresima coloro che avevano militato tra i partigiani.
Quanto a Miroslav Bulešić, segretario e uomo di fiducia del “vescovo fascista” di Parenzo e Pola, mons. Radossi, e prediletto dell’altro vescovo triestino Santin, lo si accusava di “essersi particolarmente distinto in occasione delle prime elezioni per il potere popolare in Istria, e di aver osteggiato con don Stefano Cek la lotta per la liberazione dalla tirannide tedesca e fascista. Queste “accuse” vennero confermate da testimoni, istruiti in precedenza.
Riguardo al cadavere di don Bulešić, il tribunale del popolo pose interrogativi: fu trovato morto? E chi poteva provare che era stato ucciso? In definitiva, gli altri due preti non avevano fatto la stessa fine. Poteva essersi suicidato “a scopo intimidatorio”.
La lettura della sentenza
Il 3 ottobre venne letta la sentenza. Don Stefano Cek venne condannato a sei anni di privazione della libertà e ai lavori forzati, oltre che alla perdita dei diritti politici e civili per due anni dopo il periodo di pena. Mons. Giacomo Ukmar, trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, subì la condanna a un mese di reclusione. E venne rimesso in libertà tenendo conto dei giorni di reclusione preventiva. Per tutti gli altri detenuti (tre erano stati reclusi in campi di concentramento tedeschi) la sentenza fu mite.
A Slavko Sankovic[138], che la popolazione aveva identificato nel soggetto che era entrato in canonica con un coltello (poi segnato dal sangue di don Bulešić), fu comminata una condanna a cinque mesi “per il troppo zelo nella contestazione”. Medesima sentenza a Elvio Medica, l’aggressore di mons. Ukmar. Agli altri due, Josip Bozic e Felice Brajkovich, venne inflitta una pena di tre mesi di reclusione.[139]
Mons. Ukmar a Trieste
Tornato a Trieste, mons. Giacomo Ukmar si dedicò allo studio delle lingue classiche e orientali per meglio comprendere i testi della Sacra Scrittura. Divenuto Protonotario Apostolico (1959), ebbe modo di interagire con Giovanni XXIII[140] in occasione del Concilio Ecumenico Vaticano II, e nella fase preparatoria dell’enciclica Pacem in terris.[141] Con riferimento a quest’ultimo documento, fu Ukmar a suggerire al Papa di inserire quei paragrafi[142] (dal n. 52 al n. 53) che rappresentano un’incisiva affermazione dei diritti delle minoranze nel mondo.[143] Mons. Jacob morì a Servola di Trieste. Nel 2001 venne promosso il processo di beatificazione. Nel 2009 si è conclusa la fase diocesana.
Missionarie dei Sacri Cuori a Pola (esodo 1947)
Le Suore Missionarie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria sono un Istituto religioso femminile di diritto pontificio.[144] Nel dicembre del 1896 suor Rosa D’Ovidio, con alcune consorelle, si recò a Pola per fondare una nuova comunità. In quel periodo la vita della città era segnata da una politica edilizia vivace (area del porto-arsenale). Sul piano assistenziale emerse l’utilità di organizzare un centro residenziale (orfanotrofio) per bambine con svantaggi in ambito famigliare e sociale. Il vescovo di Pola sostenne le religiose. Dal 1918 la città divenne provincia italiana. Con il trascorrere del tempo le religiose, oltre l’orfanotrofio, prestarono servizio nell’ospedale della Regia Marina. Qui, tra le diverse consacrate, emerse anche la figura di suor Tarsilla Osti.[145]
Nel 1945 l’esercito popolare jugoslavo del maresciallo Tito occupò progressivamente i territori di frontiera abbandonati dalla Repubblica Sociale Italiana. Cessarono di essere zone italiane Zara, Pola, l’intera Istria, il Carso triestino e goriziano e l’Alta valle dell’Isonzo. In questi territori si verificarono, a danno delle popolazioni di lingua italiana, confische, rappresaglie violente ed eccidi. Chi può fuggì. Per chi rimase si profilò lo spettro delle foibe. Anche le Suore dei Sacri Cuori affrontarono l’esodo forzato. Con loro ci furono pure le bambine dell’orfanotrofio. Al riguardo, in una pagina del ‘Corriere di Novara’ del 5 febbraio 1947, venne ricordato il trasferimento delle religiose e delle piccole.
“Il supremo sacrificio di Pola sta per compiersi. La città che conobbe lo splendore della civiltà romana e il saggio governo della Serenissima, è divenuta quasi deserta. Gli ultimi suoi cittadini si apprestano ad abbandonare terre, abitazioni, tutto quanto essi avevano accumulato in lunghi anni di lavoro. Interminabili colonne di profughi si avviano verso il porto, recando seco solo quel poco che consente il precipitare degli avvenimenti. C’è una grande angoscia nei cuori. Dietro loro la città morta, la terra di nessuno. Gli italiani se ne vanno, mentre si spegne nelle terre che lasciano la luce della latinità. Ma laggiù, ove dopo la fine della pace, porrà piede lo straniero, rimane però, solenne testimone della nostra civiltà, l’anfiteatro. Un altro contingente di profughi è giunto a Trieste da Pola; con gli altri sono arrivati pure 46 orfani dell’Orfanotrofio del Sacro Cuore, accompagnati da alcune suore. I bimbi sono stati ospitati provvisoriamente al Silos, in attesa di essere inviati in qualche altra città italiana”.[146]
Pure nel Registro delle Case delle Missionarie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, si trova un riferimento all’esodo:
“Nei primi di gennaio 1947, per motivi politici a tutti noti, divenuta ormai impossibile la permanenza nella città, venne ordinato ufficialmente l’esodo, dal quale, in brevissimo tempo, ben circa 29.000 persone lasciarono con dolore straziante la cara patria. Per volontà espressa di S.E. Mons. Radossi anche le Religiose delle varie Congregazioni si unirono al numeroso stuolo di profughi. Solo alcune delle nostre Suore, vista la necessità di assistere con la refezione data dall’Opera Pontificia Commissione per gli impiegati obbligati a rimanere fino al termine dell’esodo, si trattennero fino al 20 marzo 1947. Anche S.E. Mons. Radossi passò i suoi ultimi giorni nel nostro Convento”.[147]
Le Suore della Provvidenza in Istria (esodo 1947)
A fine Ottocento ebbe inizio in Istria l’apostolato delle Suore della Provvidenza di Udine.[148] Si ricordano qui le loro presenze territoriali. Esse intervennero a tutela dei piccoli dell’asilo ‘San Giuseppe’ di Rovigno (1882) e del ricovero per anziani (dal 1900). Si occuparono inoltre dei malati dell’ospizio marino (1945-1947).
A Parenzo, nel 1894, aprirono l’asilo, seguito da una scuola di lavoro e di dottrina cristiana, poi dal convitto per le studentesse dell’istituto magistrale (1923).
A Pola operarono nell’ospedale civile (1896), nella casa di ricovero e nell’asilo nido fino ai bombardamenti e all’esodo. Le ultime suore della Provvidenza lasciarono Pola il 10 marzo 1947. La maggior parte di loro raggiunse il convento di Cormons[149], allora sede della casa generalizia. L’esodo riguardò pure lo spostamento di salme sepolte nel locale cimitero. Le religiose avrebbero voluto riportare in Italia anche le spoglie delle consorelle sepolte nel cimitero della città istriana. Ciò non fu possibile a motivo di pratiche burocratiche non brevi. A questo punto, la congregazione volle almeno conservare in Italia i resti di suor Paola Martinelli, morta a 65 anni nel 1923 in concetto di santità. Aveva prestato servizio nell’ospedale di Pola fin dal 1900. La vicaria generale, madre Adeodata Rizzi, affrontò l’iter amministrativo, aiutata dall’economo dell’ospedale di Pola (Giacomo Malabotta) e dall’avv. Giovanni Benussi. Alla fine, con decreto n. 558 del 9 luglio 1947, il presidente di zona di Pola, permise l’esumazione della salma e il trasporto a Trieste.[150]
Le religiose furono presenti a Pirano d’Istria dal 1900. La loro attività ebbe inizio in un ricovero. In seguito si sviluppò un piano che incluse l’ospedale, l’asilo, la scuola di lavoro e l’orfanotrofio. Per mezzo secolo queste religiose ebbero il merito di sostenere la rete di assistenza locale. Alla fine della Seconda guerra mondiale Pirano venne inserita nella Zona “B”, soggetta all’amministrazione militare jugoslava. La quasi totalità della popolazione autoctona di questo abitato partecipò al grande esodo più volte ricordato in questo saggio.[151]
Altre presenze riguardarono Capodistria (1905, tutela degli orfani), Umago (1910, asilo), Albona (1940, ricovero per anziani).[152] A Umago i drammi ebbero inizio nel maggio del 1945. In modo discreto le suore cercarono ancora di garantire alcuni impegni. Nell’ottobre del 1947, la polizia jugoslava fece irruzione nel convento e cominciò a indagare nei diversi locali. Alle religiose venne intimato di non uscire dall’asilo. Le consacrate furono poi condotte presso la sede dell’OZNA. Su pressione della gente del posto vennero liberate. Nell’aprile del 1948 l’asilo venne soppresso e adibito a caserma. La comunità fu così costretta a raggiungere Gorizia.
Ad Albona, la superiora del ricovero per anziani, madre Rita Dorigotti, venne arrestata e tradotta nelle carceri del luogo. Vi rimase prigioniera per diversi mesi. Nel 1946 le suore, dopo spaventi e minacce, vennero fatte allontanare dal ricovero.[153]
Mons. Domenico Corelli (esodo 1948)
Nato a Bellei nell’isola di Cherso (Istria), mons. Domenico Corelli[154] venne ordinato sacerdote nella cattedrale di Ossero il 1° luglio 1937 dall’arcivescovo di Zara mons. Pietro Doimo Munzani.[155] Il 7 settembre 2006, da Pordenone, rese nota una memoria ove raccontò i suoi nove mesi di carcere nel 1948. Si riporta qui di seguito quanto da lui divulgato perché il testo rimane significativo.
“Nel 1925 entrai nel Seminario di Zara: ero un ragazzo di tredici anni privo di tutto, nato e vissuto nel villaggio di Bellei, comune di Ossero, sull’isola di Cherso, dove avevo frequentato le elementari italiane e dove la gente era preoccupata soprattutto di procacciarsi di che vivere, pascolando pecore e capre per un po’ di latte, che a stento si poteva avere. Il 1° luglio 1937 fui ordinato sacerdote per la diocesi di Zara dallo stesso arcivescovo. Egli mi accontentò benevolmente nella prima richiesta che gli feci di assegnarmi una parrocchia vicina al mio villaggio di Bellei, dove vivevano i miei genitori. Mi nominò dunque parroco di San Martino in Valle, incarico nel quale restai fino al 1948.
Nel 1945 Monsignor arcivescovo raccolse i pochi alunni del seminario minore che erano tornati in famiglia e aprì le porte della Villa Sacro Cuore di Lussingrande, sede delle vacanze estive dell’istituto, ove essi continuarono la formazione, essendo la sede di Zara esposta ai bombardamenti, che avevano colpito infatti pesantemente quella città (i seminaristi maggiori si erano sparsi in seminari di altre diocesi adriatiche). Così, nelle sue frequenti visite, Monsignor Munzani si fermava anche per più giorni nel seminario provvisorio, da dove poteva seguire meglio la sua attività pastorale nelle nostre isole di Cherso e Lussino[156] e isole minori vicine.
Scelse il professor don Giuseppe Della Valentina come rettore, don Crivici, di Vallon di Cherso, come economo, e, come direttore spirituale, me, parroco di San Martino in Valle. Mi mise dunque a guida spirituale dei quaranta giovani seminaristi ivi raccolti: mi spostavo perciò ogni sette giorni dalla parrocchia il lunedì per tornarvi il giovedì pomeriggio. Mi sorprese questa sua scelta: egli mi incoraggiò a impegnarmi in questo delicato servizio e nella spola che mi comportava: vissi così per due anni scolastici”.[157]
I sospetti della polizia di Tito. Arresto. Interrogatori
Evidentemente una parte significativa del resoconto di mons. Corelli riguarda il momento dell’arresto e il periodo della detenzione. Si riporta il suo scritto:
“Di lì a breve cominciò il mio piccolo dramma. Per spostarmi ogni settimana dalla parrocchia, il lunedì, dovevo fare otto chilometri a piedi e raggiungere a Bellei la stazione della corriera che faceva il percorso Cherso-Lussino; e poi un altro tratto a piedi per arrivare al seminario. Questo mio settimanale andirivieni venne in sospetto alla polizia di Tito, che mi vedeva lungo il cammino con una bisaccia sulle spalle. Dopo vari fermi, perquisizioni e minacce (mi credevano un messo dell’arcivescovo, che era perseguitato), tutto si concluse – si fa per dire – al terzo anno (1948) nella chiesa di San Pietro dei Nembi, il 10 aprile, nel tardo pomeriggio.
Mi trovavo a celebrare la chiusura delle Quarantore di adorazione della settimana santa. Durante il fervorino, la chiesa era piena di fedeli. In fondo quattro uomini, facilmente riconoscibili (polizia titina), mi aspettavano e alla fine della funzione mi prelevarono dalla parte della sacrestia: “Vieni con noi”, mi dissero. Non vedevo la strada, priva di illuminazione, mi trascinarono alla riva, quindi al molo. Frattanto la gente uscita di chiesa e presente alla cattura ci era venuta dietro e gridava contro i poliziotti, invitandoli a lasciare il prete.
Erano le ore 21,30 quando di peso mi buttarono nella stiva del loro motoscafo: a massima velocità fui portato a Lussinpiccolo. Seguì a mezzanotte il primo interrogatorio, ad opera della polizia, di circa mezz’ora: perché mi trovavo a San Pietro dei Nembi; chi mi avesse dato ordini; e altre domande. Verso l’una venni condotto nel sotterraneo della loro sede e chiuso in una cella buia, senza finestre, con una branda nuda, senza alcuna coperta, per riposare la notte: non avevo nemmeno uno straccio, non c’era alcun mobile. Così andò avanti, sempre in stato di isolamento, per circa quaranta giorni, senza mai svestirmi né potermi lavare al mattino. La mia libertà finì quel giorno: 10 aprile 1948.
Il giorno seguente, 11 aprile, alle ore 15 pomeridiane, fui sottoposto al primo interrogatorio da parte di un giudice. Compresi lo fosse, perché usava frasi latine nelle domande. In principio mi furono contestate poche cose, sulla base di false testimonianze: mi accusarono di attività di opposizione alle leggi dello Stato avvenute mediante la predicazione e riunioni serali quasi quotidiane di un gruppo di uomini con i quali io avrei discusso (sempre secondo l’accusa) sul come ci si doveva opporre al comunismo e alla nascente Jugoslavia. Ero accusato anche di essere fascista, cambiavalute, e di altro.
C’era col giudice un partigiano[158] che dattilografava ogni domanda e ogni mia risposta. Verso la fine il giudice insistette: perché ogni settimana andavo a Lussingrande. Questa “tortura” andò avanti ogni giorno, di giorno e di notte. Sino a fine di maggio mi interrogarono sulle mie attività nelle parrocchie e su chi fossero gli organizzatori. Le mie risposte erano scontate: per scambiarci, noi preti e fedeli, le nostre esperienze religiose e umane in un clima di grande collaborazione fraterna. Ma loro incalzavano: “A noi risulta che i tuoi incontri con l’arcivescovo consistono nel ricevere suoi ordini a riguardo della vita della nostra nazione”. Io negavo in modo sempre perentorio e chiaro. Per loro non era una sorpresa, perché prima di me, per lo stesso motivo, fu messo in carcere un confratello sacerdote, che si mantenne irreprensibile.
Ciononostante insistevano con le loro accuse. Alla fine mi presentavano sempre il verbale da sottoscrivere con accuse inventate, ricattandomi al termine della lettura: “Noi siamo comprensivi: se sottoscrivi che hai fatto tutto questo perché te lo aveva ordinato l’arcivescovo, sarai libero”. Il mio no fu sempre deciso: un rifiuto che restò totale anche quando mi diedero schiaffi, tirate di orecchi e calci e minacciarono spesso di arrestare mio padre e mia madre se non sottoscrivessi. Con la grazia di Dio, riuscii a non farmi estorcere mai alcuna firma, nonostante gli interrogatori fossero interminabili. Non cedetti perché tutti i verbali finivano con l’accusarmi falsamente di avere fatto azioni e pronunziato parole contro lo Stato per comando e imposizione dell’arcivescovo Munzani. Temetti però di non riuscire a resistere ai loro metodi”.[159]
Le accuse di “testimoni”
Le tecniche per far crollare mons. Domenico Corelli furono diverse. Tra queste, anche la testimonianza di persone che lo conoscevano. Si riporta qui di seguito quanto scrisse il sacerdote.
“(…) I carcerieri si facevano forti di quanto avevano loro dichiarato due persone della mia parrocchia di San Martino. Mi lessero a tale proposito i verbali contenenti le accuse, firmati dai due amici: spesso, insieme a questi e ad altre dieci venti persone, il sabato sera ci si ritrovava nella casa parrocchiale a discorrere di tutto, si cantava, si giocava. Avevano preso tre tra i più fedeli miei frequentatori: i due sopraddetti, anziani senza figli, e un giovane che aveva moglie e tre bambini. Firmarono, costretti, i due più anziani. Li vidi nel mese di ottobre, nella cella a pianoterra: a un mio cenno si misero a piangere. Io risposi loro con cenni, di avere coraggio. Dopo una settimana tutti e due furono liberati.
Il più giovane invece – percosso e minacciato con la pistola in bocca – si era sempre rifiutato: “Anche se mi volete uccidere, quello che dite non è vero”. Dopo circa due mesi venni trasferito nel carcere comune, sempre a Lussinpiccolo. Mi pesava molto stare chiuso sempre in una cella di quattro metri per quattro con finestrino e grate e un portone che ad ogni apertura e chiusura faceva un rumore. Le celle erano composte da un minimo di quattro a un massimo di undici prigionieri (…). Questo fino alla mezzanotte del 31 dicembre 1948 quando la convivenza in carcere finì. Prima mi fu fatto però un discorso sul come comportarmi d’ora in poi. Avrei dovuto dire alla gente che ero stato imprigionato per colpa mia: perché non ero rimasto nella mia parrocchia a celebrare la messa e perché avevo svolto attività contro lo Stato secondo l’accusa dei miei due parrocchiani. Uscii a quell’ora dal carcere con il solo mantello e un fagotto: camminavo a stento, mi sedetti a terra due volte prima di arrivare a casa, ove trovai mia madre e mia sorella”.[160]
L’incontro a Roma con mons. Munzani
Uscito dal carcere, poté rivedere i suoi cari. Volle anche incontrare l’arcivescovo Munzani. Quest’ultimo, era a Roma. Si riportano qui di seguito le annotazioni riguardanti l’incontro con il presule.
“(…) Ricevetti l’ordine di uscire dalla Jugoslavia il giorno dopo, 1° gennaio 1949. Presi il treno da Fiume per Trieste. Qui mi accolsero i miei parenti. Dopo un giorno partii per Roma per incontrare l’arcivescovo Munzani. Ancora in prigione – non ricordo bene se nel mese di luglio o agosto – ero venuto a sapere, da carcerati che ricevevano visite dall’esterno, che il vescovo era partito per Roma. Avevo allora accettato con gioia la notizia e tirato un sospiro di sollievo, perché l’arcivescovo era finalmente libero. Il suo intervenuto esilio era stato il motivo per il quale io ero stato tolto dall’isolamento ed erano stati sospesi gli interrogatori nei quali si sarebbe voluto indurmi, per centinaia di volte, a dare falsa testimonianza al mio vescovo. Evidente il tentativo dei titini, non riuscito, di servirsi di me per montare un processo scandalistico ai danni del vescovo, che era e si professava italiano.[161]
Una volta fuori dal carcere, venni poi a conoscenza dei particolari; l’arcivescovo si era reso conto di essere sospettato per le sue idee e malvisto per la sua autorità. Probabilmente aveva allora chiesto al Vaticano come comportarsi. Gli era stato risposto di portarsi subito a Roma. Abitava in Vaticano ed era stato nominato canonico di San Pietro. Mi recai dunque in Vaticano, ma trovai chiuso l’alloggio di Munzani. Scesi in San Pietro e chiesi a un monsignore dove avrei potuto trovare una mensa. Mi rispose di andare subito in sacrestia dove vi erano i canonici pronti ad uscire per la funzione. Mi presentai alla porta: mi colpì più di tutti un rosso prelatizio. Mi fermai a guardare, cercavo di vedere l’arcivescovo, quando, d’un tratto, lui stesso mi venne incontro, mi abbracciò e mi presentò ai confratelli: “È questo colui che mi ha salvato dal carcere”. Non so in che modo egli fosse venuto a sapere quanto era successo in carcere e il fatto che io non lo avessi mai tradito sotto interrogatorio. Lo stupore mi assalì in una maniera indicibile.
Dopo la funzione salii nel suo appartamento. Rimasi con lui otto giorni, durante i quali mi ottenne un’udienza particolare con Papa Pio XII. Mi propose varie soluzioni per il mio futuro. Alla fine prevalse quella di fare ritorno in terra veneta. Il mio vescovo telefonò a quello di Concordia[162], il quale ben volentieri mi accolse fra il suo clero. Mi trovai così in una nuova famiglia. Iniziai il mio servizio nella diocesi di Concordia il 1° marzo 1949 come cappellano di San Vito al Tagliamento”.[163]
Alcune annotazioni di sintesi
L’attuale periodo storico, segnato da mutamenti nel disegno geo-politico delle terre dell’Adriatico Orientale, consente di poter leggere una storia articolata e dolorosa con una migliore pacatezza. In particolare, è stato ormai documentato il disegno del maresciallo Tito e dei suoi fiduciari di intervenire anche nella vita religiosa delle Chiese locali.
All’inizio, la politica di Belgrado operò con cautela perché la nuova Jugoslavia non aveva ancora il totale controllo della situazione interna, e i necessari riconoscimenti dall’estero. In seguito, con i sostegni ricevuti, il regime di Belgrado mostrò in modo chiaro il proprio volto, e si verificarono una serie di fatti drammatici a danno dei cattolici.
Oltre ad arresti di vescovi (Munzani, Margotti, Stepinac), di sacerdoti, di religiosi, e a molteplici espulsioni, furono proibite dal governo jugoslavo le festività religiose, Natale e Pasqua, non solo nelle scuole ma nei diversi ambienti sociali. Vietato o limitato l’insegnamento della dottrina cattolica. Impiegati dell’amministrazione centrale, militari e altri dipendenti dello Stato, non potevano – di fatto – sposarsi in chiesa.
Vennero imposti limiti all’amministrazione dei sacramenti, alle processioni (si pensi alle criticità che si verificarono in occasione della festa liturgica del Corpus Domini), l’uso di immagini religiose, gli incontri con i giovani. Chiusi i seminari: Capodistria (1947), Fiume (1947). Su queste vicende esiste oggi una non debole documentazione. Ne sono esempio le relazioni ai superiori[164] – da Fiume – del salesiano p. Girolamo De Martin e del gesuita p. Tarcisio Tamburini.[165]
In tale contesto, divenne chiara una doppia linea d’intervento governativa. Da una parte la propaganda jugoslava volle presentare all’estero un volto “liberale”, “democratico” della Repubblica socialista. Contemporaneamente, le direttive interne di partito rimanevano orientate a neutralizzare (con l’aiuto di delatori) chi rimaneva fermo nell’adesione al Credo cattolico e al patrimonio di italianità.
L’azione di Belgrado, però, trovò una resistenza nelle Chiese locali basata anche su una vita di fede molto semplice, ma rocciosa. All’interno delle case, infatti, la gente conservava immaginette sacre, statue della Madonna di Lourdes, rosari, quadri raffiguranti la Madonna di Loreto e soprattutto crocifissi. Tutti questi oggetti vennero trattenuti dalle famiglie istriane, dalmate e fiumane anche negli anni del duro esodo verso l’Italia.
Quando nell’aprile del 2023 ho avuto la possibilità di visitare a Trieste il Magazzino 26 con il direttore Piero Delbello[166], mi ha colpito la raccolta di beni mobili appartenuti ai profughi, ma mi ha fatto anche riflettere la presenza di materiale religioso distribuito nei diversi ambienti del Museo.[167]
Tali reperti, costituiscono a tutt’oggi la prova di una forza morale degli esuli che sostenne la gente che si allontanava in modo forzoso dalle proprie terre. Non fu possibile alle popolazioni del tempo reagire a decisioni avverse e dolorose, ma – pur in mezzo a tragedie continue – rimase alto il volto di chi subisce senza cedere la propria identità, la propria storia, la propria cultura, la propria fede religiosa.
[1] Si ricordano, ad esempio, le figure di don Francesco Bonifacio (1912-1946; nato a Pirano, Beato), di don Miroslav Bulešić (1920-1947; nato a Zabroni, Beato), di don Angelo Tarticchio (1907-1943; nato a Gallesano d’Istria).
[2] Josip Broz (1892-1980), nome di battaglia “Tito”. Ricoprì nel tempo più ruoli: militare, uomo politico, rivoluzionario, comandante partigiano jugoslavo. Divenne poi: generale, maresciallo, presidente della Repubblica socialista federale di Jugoslavia.
[3] Pio XII (Eugenio Pacelli; 1876-1958; Venerabile). Il suo pontificato durò dal 1939 fino alla morte.
[4] Un esempio è l’associazione dei Santi Cirillo e Metodio. Sorse a Trieste nel 1893 per promuovere scuole elementari in lingua croata e slovena, aprire sale di lettura, tipografie e riviste. Negli anni del regime jugoslavo venne utilizzata in chiave politica da Belgrado (allontanare il clero croato e sloveno dalla obbedienza al Papa, sostenere i candidati comunisti in fase elettorale).
[5] Ufficio d’informazione dei partiti comunisti e operai.
[6] La Repubblica socialista federale di Jugoslavia era divisa in 6 repubbliche (Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, e Macedonia) e 2 province autonome.
[7] R. Pupo, Il contesto internazionale delle vicende giuliane, in: AA.VV., ‘I cattolici isontini nel XX secolo’, III, Il Goriziano fra guerra resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Istituto di Storia Sociale e Religiosa, Tipografia Sociale, Gorizia 1987, p. 51.
[8] P.L. Guiducci, Politiche jugoslave e la Chiesa perseguitata nel secondo dopoguerra. Le criticità in Istria, in Croazia e Bosnia-Erzegovina, in: G. Stelli, M. Micich, P.L. Guiducci, E. Loria, ‘Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico Orientale’, Aracne, Roma 2023, pp. 181-185.
[9] Gen. Petar Drapšin (1914-1945).
[10] Franc Štoka (1901-1969).
[11] Su questo punto cf anche: G. Oliva, Esuli. Dalle foibe ai campi profughi: la tragedia degli italiani di Istria, Fiume, Dalmazia, Mondadori, Milano 2011, p. 27.
[12] Cf anche: G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2017. R. Pupo, Trieste ’45, Laterza, Bari-Roma 2010.
[13] F.G. Gobbato, Borovnica e altri campi di Tito (con liste inedite dei prigionieri di Borovnica), Edizioni Ritter, Milano, 2023. Id., Borovnica e gli altri campi per prigionieri di guerra nell’ex Yugoslavia: 1945- …, Adria storia, vol. 13, Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”, Pordenone 2005.
[14] SE Mons. Antonio Santin (1895-1981). Aveva 38 anni quando l’11 novembre del 1933 fece il suo ingresso a Fiume come nuovo vescovo. Vi rimase fino al 1938. Nel settembre 1938 ebbe inizio il suo nuovo compito di vescovo di Trieste-Capodistria. Tale incarico terminò nel 1975.
[15] Un porto di pescatori situato sulla costa occidentale della penisola istriana.
[16] A. Santin, Al tramonto. Ricordi autobiografici di un vescovo, LINT, Trieste 1978.
[17] Gen. Harold Alexander (1891-1969), comandante delle Forze Alleate in Italia.
[18] Detta “Linea Morgan” dal nome del generale William Duthie Morgan (1891-1977). Al riguardo, cf anche: G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2002.
[19] Cf anche: S. Lorenzini, L’Italia e il Trattato di pace del 1947, Il Mulino, Bologna 2007. M. Toscano, Ricordo della ratifica del Trattato di pace, in: ‘Nuova Antologia’, fasc. 2001, 1967, p. 3ss..
[20] R. Spazzali, Pola città perduta. L’agonia, l’esodo (1945-47), Istituto Regionale per la Cultura Istriano-Fiumana-Dalmata, Edizioni Ares 2022.
[21] Il Territorio Libero di Trieste venne previsto dall’art. 21 del Trattato di Parigi (1947). I suoi confini erano la città di Trieste, a nord il litorale fino al fiume Timavo, e a sud parte dell’Istria occidentale fino al fiume Quieto. Questo Stato indipendente in realtà non si costituì mai, superato da altre vicende.
[22] In merito a questo accordo cf anche: D. D’Amelio, Il dibattito pubblico sul Trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale, in: ‘ Qualestoria’, 2, 2013, pp. 86-87.
[23] Su questo aspetto storico documenti significativi si trovano presso: Archivio della Diocesi di Trieste, Archivi Diocesi Concordia-Pordenone, Pisa, Brindisi et all., Archivi Istituti religiosi, Archivi delle Associazioni degli Esuli, Archivio della Santa Sede.
[24] Nella 2a metà dell’Ottocento, Capodistria annoverava 7.580 abitanti. Oltre al capitolo di cinque canonici, c’erano quattro vicari corali e sei altri sacerdoti facenti capo alla cattedrale. Operavano un cappellano al Santo Crocefisso, due alle carceri e due sacerdoti all’Istituto Grisoni. Vi erano poi otto sacerdoti dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, affiancati da cinque chierici, due laici e cinque terziari.
[25] I Frati Minori, appartenenti alla provincia Dalmata, contavano sette sacerdoti ed otto laici (Annuario delle unite diocesi di Trieste e Capodistria del 1872). Nel 1954 la popolazione ridotta a 4mila abitanti poteva contare ancora su due sacerdoti, il canonico mons. Giovanni Cosolo e il giovane vicario don Giovanni Gasperutti (Annuario del 1954). Anche i semplici numeri attestano la tragedia che investì l’Istria colpendo il clero e riducendo l’attività religiosa al solo aspetto liturgico (e anche in questo caso con difficoltà).
[26] I religiosi dell’Ordine di San Benedetto vi entrarono con dodici monaci nel 1860. Nel 1867, con la soppressione del monastero di Praglia (Padova), vi si trasferiranno completamente. Mantennero la proprietà fino al 1948 quando persero il possedimento.
[27] Una dipendenza dei Benedettini di Daila (Cittanova).
[28] L’ultimo frate italiano (della provincia di Trento) rimasto a Strugnano fino alla sua morte (gennaio 1955) fu p. Vincenzo Gelmini. Venne sepolto nel cimitero di Pirano.
[29] Con rif. a Pirano cf anche la vicenda del frate minore conventuale p. Anselmo Sartori in: P. Zovatto, Preti perseguitati in Istria 1945-1956. Storia di una secolarizzazione, luglioeditore, Trieste 2017, pp. 95-98.
[30] Fondatore del convitto diocesano parentino-polese fu il presbitero Giovanni Nepomuceno (Ivan Nepomuk) Glavina (1828-1899).
[31] Così denominato perché il fondatore fu il conte Francesco Grisoni (1772-1841).
[32] A. Tomiet (suora terziaria francescana elisabettina), Elisabettine oltre i confini. Nel segno della carità. Nella città di Capodistria, in: ‘in Caritate Christi’, anno LXXXI, n. 3, luglio-settembre 2009, p. 31ss..
[33] “Dimesse” significa “umili – piccole”.
[34] Partito Comunista di Jugoslavia.
[35] Convento di Sant’Anna.
[36] Santuario di Santa Maria della Visione.
[37] Fu il vescovo di Capodistria mons. Paolo Naldini (1632-1713), nel 1710, a promuovere un seminario italo-slavo (Seminarium Italo-Sclavorum Naldinianum). Nei suoi scritti continuò a ribadire l’importanza che aveva tale istituzione per l’entroterra slavo. Inoltre, in più punti della sua opera Corografia ecclesiastica o sia Descrittore della Città e dela Diocesi di Giustinopoli detto volgarmente Capo d’Istria sosteneva la fratellanza tra le genti italiane e slave nella diocesi di Capodistria.
[38] Cf anche: G. Tamburrino osb, I benedettini di Daila e S. Onofrio in Istria: ultime vicende (1940-1950), Abbazia di Praglia, Edizioni Zerotre, S. Giovanni Lupatoto (VR) 2021.
[39] P. Albino Simpliciano Gomiero ofm (1915-2010).
[40] A.S. Gomiero, Frati nella morsa della persecuzione titina. Cronistoria della prigionia tra la fine degli anni 1947 e 1949 nelle carceri e nei campi di concentramento di Croazia e Slovenia dopo la dura condanna a Pola, L’ Arena di Pola, Gorizia 1991.
[41] La Pontificia Opera Assistenza (P.O.A.), dedicata ad assistenza sanitaria e sociale, fu istituita da Pio XII nel 1953. Nel 1970 venne sciolta da Paolo VI. Una parte delle sue funzioni fu assorbita nel 1971 dalla Caritas (ndr).
[42] A.S. Gomiero, Frati nella morsa della persecuzione titina…, op. cit., p. 36.
[43] Don Luigi Polano (1904-1955). Nato a San Daniele del Friuli. Parroco a Fiume della chiesa del Santissimo Redentore. Cf al riguardo: Don Luigi Polano, Memoriale sulle attuali condizioni della città di Fiume sotto l’occupazione delle truppe jugoslave (21 giugno 1945), in: Archivio Arcivescovile Udine, Mons. Nogara (Guerra 1940-45), b. G.
[44] Don Giacomo Cesare (1910-1968).
[45] Archivio della Corte Suprema Militare (Belgrado).
[46] P. Nestore da Treppo, Relazione della prigionia, in: ‘Atti della Provincia dei Frati Minori Cappuccini Veneti’, 3, 1949, pp. 86-90.
[47] Don Pierluigi Sartorelli (1912-1996).
[48] Divenne in seguito arcivescovo di Castello e nunzio apostolico in Kenya.
[49] Fra Nestore da Treppo (Guerrino Minutti; 1918-2015), frate minore cappuccino.
[50] Cf anche: P. Nestore da Treppo, Relazione della prigionia, op. cit.. G. Aldrighetti, Addio padre Nestore. Un esempio di fede e semplicità, per tutti, in: ‘Nuova Scintilla’, n. 11, 15 marzo 2015.
[51] Don Girolamo De Martin sdb (1881-1964).
[52] Don Girolamo De Martin sdb, Relazione al Rettor Maggiore dei Salesiani, don Pietro Ricaldone, Belluno, 9 dicembre 1948. Archivio Storico Salesiano, Roma. È stata evidenziata una frase in grassetto per la sua significatività.
[53] E. Loria, Testimoniare l’esilio. Voci di profughi dall’Istria, Fiume e Zara, in: G. Stelli, M. Micich, P.L. Guiducci, E. Loria, ‘Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico Orientale’, Aracne, Roma 2023, p. 280.
[54] R. Spazzali, Pola città perduta. L’agonia, l’esodo (1945-47), Istituto Regionale per la Cultura Istriano-Fiumano-Dalmata, Edizioni Ares, Milano 2022, p. 146.
[55] Nazario Sauro (1880-1916). Militare, comandante marittimo, patriota (irredentista).
[56] Archivio Diocesi di Trieste. Archivio Apostolico Vaticano.
[57] Harry Truman (1884-1972). Presidente USA dal 1945 al 1953.
[58] Archivio Diocesi di Trieste e Archivi sedi diplomatiche cit.
[59] B. Marini, Mons. Antonio Santin defensor civitatis a quaranta anni dalla scomparsa, intervista a mons. E. Malnati, in: ‘La Nuova Voce Giuliana’, anno xxi, 16 marzo 2021, n. 420, pp. 1-3.
[60] La Odeljenje za ZaštituNAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, in sigla OZNA, o Oddelek za zaščitonaroda, era parte dei servizi segreti militari jugoslavi. W. Klinger, Il terrore del popolo. Storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito, Luglio Editore, Trieste 2015.
[61] L’arcivescovo di Gorizia era mons. Carlo Margotti (1891-1951). Alla fine del secondo conflitto mondiale, le autorità jugoslave, che occuparono Gorizia per quaranta giorni, lo arrestarono (2 maggio 1945) e lo espulsero dalla città (8 maggio). Fece ritorno in diocesi il 13 luglio successivo, dopo che le truppe di Tito si erano ritirate oltre la linea Morgan del 12 giugno 1945, e quando la rottura dell’unità reale della diocesi era di fatto già avvenuta. Dopo lunga e dolorosa malattia, mori a Gorizia il 31 luglio 1951. È sepolto nella chiesa del Sacro Cuore.
[62] Comunicato della seduta dell’Arcivescovo di Gorizia e del Vescovo di Trieste, in: ‘Folium Diocesanum’, 1946, pp. 59-61.
[63] Documento in: S. Galimberti, Santin un vescovo solidale. Testimonianze dall’archivio privato, MGS Press, Trieste 2000.
[64] Si tratta di Anton Ukmar (1900-1978). Dirigente comunista (ndr).
[65] Si tratta di Franc Štoka (1901-1969), commissario politico. Comunista filo-slavo (ndr).
[66] Mons. Natale Silvani, deceduto nel 1978 (ndr).
[67] Don Giovanni Zugan (nato nel 1911). Nacque da modesti agricoltori a Villanova del Quieto (Istria). Studiò a Capodistria e poi a Gorizia. Consacrato a Trieste nel 1936, fu mandato a cura di anime a Vetta e poi a Castel Racizze di Pinguente. Dal dicembre 1941 al febbraio 1947 fu parroco di Pinguente d’Istria, poi a Villanova del Quieto fino al 23 agosto 1949. Esule a Trieste, fu prima cappellano presso l’Ospedale Maggiore e poi parroco (1960) della chiesa dei SS. Eufemia e Tecla, a Grignano (ndr).
[68] Documento tratto da: Archivio Diocesano Trieste, Archivio personale Antonio Santin, n. 8.
[69] On. Alcide De Gasperi (1881-1954; Servo di Dio). Presidente del Consiglio di 8 successivi governi di coalizione da dicembre 1945 ad agosto 1953.
[70] Sezioni Provinciali per l’Alimentazione (SEPRAL), Sezione II, Profughi, b. 12 bis 49/4, fasc. Mons. Santin, vescovo di Trieste, Curia vescovile di Trieste e Capodistria, Promemoria, 1° gennaio 1947.
[71] Una primo atto di intolleranza era avvenuto a Opicina (17 giugno 1947). In questa località, mentre il presule era diretto a Sesana e Tomadio per amministrare le Cresime, la sua automobile fu oggetto di aggressione. Sassi, terra ed escrementi di animali vennero gettati da parte di gruppi formati in prevalenza da donne, legati alle forze di Tito. Intervenne la polizia che scortò il vescovo.
[72] Si tratta di una partigiana che avvertì il vescovo che sarebbe stata pericolosa la sua presenza a Capodistria. (nda)
[73] Governo Militare Alleato (ndr).
[74] A. Santin, Al tramonto. Ricordi autobiografici di un vescovo, LINT, Trieste 1978. Cf anche: E. Malnati, Antonio Santin. Un vescovo tra profezia e tradizione. 1938- 1975, MGS Press, Trieste 2003.
[75] Il Seminario di Capodistria fu sequestrato gradualmente, e il rettore mons. Marcello Labor (1890-1954) venne imprigionato. (ndr).
[76] Il riferimento è ai Frati Minori Cappuccini e ai Frati Minori di Capodistria, ai Frati Minori di Pola, ai Frati Minori Cappuccini di Fiume, ai Frati Minori Conventuali di Pirano, al Priorato benedettino di Daila, dipendenza di Praglia, ai Salesiani e ai Gesuiti di Fiume. (ndr).
[77] Essendo nati in quel territorio.
[78] ‘Bollettino delle Unite diocesi di Trieste e Capodistria’, numero di gennaio, 1949, pp. 11-14. Cf anche: E. Malnati Il vescovo Antonio Santin e la tutela dei diritti umani nella Venezia Giulia, Luglio Editore, Trieste 2020.
[79] Mons. Severino Dianich (1934- …). Nato a Fiume da genitori istriani.
[80] Mons. S. Dianich, Intervento al Consiglio Comunale di Firenze, 10 febbraio 2020, “Giorno del Ricordo”.
[81] Dopo i tentativi falliti, a fine seconda guerra mondiale, di avviare processi per le deportazioni e gli infoibamenti, la vicenda giudiziaria si riattivò 50 anni dopo. Il 15.6.1994, l’avv. Augusto Sinagra presentò denuncia per gli eccidi avvenuti nella Venezia Giulia. Consegnò alla Procura di Roma le testimonianze e i nomi dei carnefici. Tra gli altri c’era Oskar Piškulić. Questi, l’11.10.2001 fu riconosciuto colpevole. La Corte d’Assise di Roma lo riconobbe colpevole di “delitto politico premeditato ma non provocato dall’odio etnico”. Pur riconoscendolo responsabile dell’omicidio dell’autonomista di Fiume, Giuseppe Sincich, dichiarò il reato estinto per amnistia. Il 4.12.2002 la Corte d’Assise d’Appello, in applicazione della L. Cirami, sospese il processo, che sarebbe dovuto riprendere dopo la decisione della Cassazione. Il 15.4.2003 la prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, dichiarò la cessata giurisdizione. Conclusione: la Corte di Cassazione ribadì che l’Italia non aveva titolo, per difetto di giurisdizione, per giudicare il cittadino croato Oskar Piškulić. La magistratura si fermò, ma l’INPS poté invece erogare la pensione e tutti gli arretrati relativi agli stessi ex imputati (Piškulić et all.).
[82] Petar (Pietro) Klausbergher (nato nel 1906).
[83] Mons. Ugo Camozzo (1892-1977). Fu consacrato vescovo di Fiume nel 1938.
[84] Cf anche: U. Camozzo, La lampada è accesa: …lunga giornata di un sacerdote e Vescovo, Pacini Mariotti, Pisa 1967.
[85] Don Alberto Cvecich (1921-2007).
[86] A. Dianich, in: ‘La Voce del Popolo’, 24 febbraio 2007.
[87] Mons. Janni Sabucco (1916-2001). La sua attività pastorale è stata resa nota grazie ai documenti conservati dai suoi parenti in Friuli, in Canada e ai dati dell’autorità dell’ Arcidiocesi di Pisa. Il progetto di ricerca è stato realizzato dal gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine, al quale hanno collaborato l’ANVGD di Arezzo e quella della Toscana.
[88] Senatore Riccardo Gigante (1881-1945). Politico, giornalista e imprenditore. Capo dell’irredentismo fiumano.
[89] J. Sabucco, …si chiamava Fiume, Edizioni Centro Italia, Perugia 1953. Pubblicazione cit. da Luigi Maria Torcoletti (1954), da Enrico Burich (1964) e da Mario Dassovich (1985).
[90] Per la resistenza alla dottrina comunista.
[91] SE Mons. Pietro Doimo Munzani (1890-1951). G.E. Lovrovich, Pietro Doimo Munzani Arcivescovo di Zara, Tip. S. Lucia, Marino 1978.
[92] Pietro Luxardo (1892-1944), e il fratello Nicolò (1886-1944) con la moglie (Bianca Ronzoni), vennero fatti annegare nel mare di Zara. N. Luxardo De Franchi, Dietro gli scogli di Zara, Editrice Goriziana, Gorizia 1993.
[93] Giacomo Vuxani (1886-1964).
[94] G. E. Lovrovich, Pietro Doimo Munzani, op. cit., pp. 56-62.
[95] R. Spazzali, La Chiesa, il clero ed i cattolici dalmati italiani, in: ‘Rivista dalmatica’, 2, 1996.
[96] Mons. Mate (Matteo) Garković (1882-1968). Fu nominato amministratore apostolico di Zara il 22 febbraio 1952. Venne consacrato vescovo da Miho Pušić, arcivescovo di Hvar il 30 marzo 1952. Garković fu nominato arcivescovo di Zara il 24 dicembre 1960.
[97] Don Romano Gerichievich (nato nel 1913).
[98] R. Gerichievich, Don Romano racconta: memorie di un ex galeotto, Fachin, Trieste 2000.
[99] Mons. Raffaele Mario Radossi (1887-1972). Aveva cambiato il suo cognome da Radoslović a Radossi. Cf anche: P. Zovatto, Mons. Raffaele Radossi. Vescovo di Parenzo e Pola (1941-1947). “Profugo giuliano”, Luglio Editore, Trieste 2019.
[100] Cf anche: R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005.
[101] Archivio Deputazione Storia Patria delle Venezie – Venezia, fondo Radio Venezia Giulia, notiziario 9 agosto e 16 ottobre 1946.
[102] F. Czeike de Hallburg, Raffaele Radossi vescovo di Parenzo e Pola (1941-1947), in: AA.VV., ‘Istria Religiosa’, a cura di P. Zovatto, Centro Studi Storico-Religiosi Friuli Venezia Giulia, 19, Trieste 1989, p. 103.
[103] In successivi paragrafi si descriverà la morte di questo sacerdote per mano dei miliziani di Tito.
[104] Nel 1946, il capo dell’OZNA regionale, Božo Glažar – Makso, in un rapporto, segnalò alle autorità comuniste regionali che alle elezioni del novembre 1945 anche i sacerdoti considerati slavi (distretto di Cherso, di Pisino, di Canfanaro), oltre a quelli italiani, avevano svolto un ruolo significativo nella diffusione di idee contrarie al nuovo potere popolare. A questo punto, il clero venne controllato dall’OZNA. I sacerdoti italiani si erano astenuti dalle elezioni, mentre di quelli slavi furono segnalati i nominativi di coloro i quali si erano maggiormente distinti nelle prediche contrarie a quello che veniva considerato un potere bolscevico. Cf al riguardo: HDAZ, f. Obl. Kom. KPH za Istru, b.7, fasc. ‘45, Rapporto sul clero compilato il 4 dicembre 1945 dalla II sezione dell’Ozna per l’Istria ed inviato al Comitato regionale del PC della Venezia Giulia per l’Istria.
[105] Don Edoardo Gasparini (1920-2017).
[106] M.G. Ziberna, Ricordando don Gasperini e il Collegio Ragazzi Giuliani, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, agosto 2021 (sito online).
[107] Sezioni Provinciali per l’Alimentazione (SEPRAL), Sezione II, Profughi, b. 12 bis 49/4, fasc. Mons. Radossi. Vescovo di Pola. Sussidi ai profughi, lettera di mons. Raffaele Radossi, 6 febbraio 1947.[108] Mons. Alojzije Stepinac (1898-1960; Beato). Arcivescovo di Zagabria (1937). Cardinale (1953). Cf anche: P.L. Guiducci, Dossier Stepinac. Alojzije Stepinac (1898-1960). Un arcivescovo tra ustaše, cetnici, nazisti, fascisti e comunisti, Albatros, Roma 2018.
[109] Cf al riguardo anche: L. Stepinac, Lettere dal martirio quotidiano, Proget Edizioni, Albignasego (PD) 2009.
[110] Redazione, Foiba di Jazovka, orrore in Croazia: tra i corpi riesumati donne, bambini e suore, in: ‘Il Tempo’, 27 luglio 2020.
[111] Giovanni Battista Montini (1897-1978; Santo). Venne eletto Papa (Paolo VI) nel 1963. Il suo pontificato durò fino alla morte.
[112] Su questa e altre vicende cf anche: A. Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti (1963-1989), Einaudi, Torino 2000.
[113] Su questo aspetto cf M. Micich, Il lungo esodo dall’Istria, Fiume e Zara (1943-1958), in: G. Stelli, M. Micich, P.L. Guiducci, E. Loria, ‘Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico Orientale’, Aracne, Roma 2023, pp.126-156.
[114] Mons. Ferdinando Baldelli (1886-1963).
[115] Mons. Giovanni Battista Montini (1897-1978; Santo). Sostituto alla Segreteria di Stato vaticana (1937). Arcivescovo di Milano (1954). Cardinale (1958). Eletto Papa nel 1963. Il suo pontificato durò fino alla morte.
[116] S. Galimberti, Santin un vescovo solidale, op. cit..
[117] Don Pietro Damiani (1910-1997). Cf: AA.VV., Pietro Damiani. Un padre per gli esuli istriani, fiumani e dalmati, a cura delle classi 3a A e 4a A del Liceo Scientifico Musicale ‘G. Marconi’ di Pesaro, Sestante Edizioni, Bergamo 2013. P. Cuccitto, Dall’Istria a Pesaro. L’esodo, l’Opera Padre Damiani e il comitato per la Venezia Giulia e Zara di Pesaro, Società pesarese di studi storici, Pesaro 2023.
[118] Don Abramo Freschi (1913-1996). Divenne poi vescovo.
[119] Don Emerico Ceci (1911-1980).
[120] Padre Flaminio Rocchi (1913-2003). Cf: F. Rocchi L’Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, Roma 1971. Ristampato da Difesa Adriatica Editrice, ANVGD, Roma 1990.
[121] Tra diverse pubblicazioni cf anche: E. Miletto, L’esodo giuliano-dalmata: itinerari tra ricerca e memoria, in: AA.VV., ‘Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento’, a cura di E. Miletto, Edizioni Seb 27, Torino 2012. R. Spazzali, Assistenza di Stato, in: Id., ‘Pola città perduta’, Ares-IRCI, Trieste 2022, p.185ss..
[122] R. Spazzali, L’assistenza silenziosa della Croce Rossa Italiana, in: Id., ‘Pola città perduta’, Ares-IRCI, Trieste 2022, p. 511ss..
[123] Don Giacomo (Jakob) Ukmar (1878-1971; Servo di Dio). Cf anche: A. Rebula, , Jakob Ukmar, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992.
[124] Opicina è un quartiere del comune di Trieste situato sull’altopiano del Carso.
[125] Ferroviere austriaco presso la linea Vienna-Trieste.
[126] Dopo questa esperienza, fondò in seguito giornali e riviste cattoliche.
[127] San Giuseppe della Chiusa,già San Giuseppe, (Ricmanje in sloveno) è una frazione del comune di San Dorligo della Valle – Dolina (TS), nel Friuli Venezia Giulia. L’appellativo “della Chiusa” proviene dalla vicina Chiusa (Ključ).
[128] Nel 1906, un frate croato decise di celebrare in rito glagolitico nella chiesa di San Francesco di Cherso, isola prettamente italiana di storia e cultura. I fedeli, davanti a questa celebrazione, che appariva loro come un abuso nazionalistico, abbandonarono in massa l’edificio religioso, lasciando da solo il frate croato. Fatti analoghi avvennero pure in altre chiese.
[129] Il suo insegnamento democratico non rispettava di frequente le rigide direttive austriache.
[130] HDAP, f. KK KPH Buzet, b. 1, Quaderno dei verbali del Comitato distrettuale PCC di Pinguente, 1947; Verbale del 17 luglio 1947.
[131] Don Stefan Cek (1913-1983). Nativo di Krašica. Ordinato sacerdote nel 1937.
[132] Erano stati cresimati anche sette ragazzi e ragazze arrivati per ultimi a causa dei blocchi stradali.
[133] L’11.11.1951 venne aggredito mons. Giorgio Bruni (1900-1962), parroco e preposito capitolare di Capodistria. Aveva ricevuto mandato dalla Santa Sede di cresimare un numero significativo di adolescenti. Le violenze fisiche, ricevute da una cinquantina di miliziani di Tito, avvennero in aperta campagna mentre il sacerdote si dirigeva verso Carcause.
[134] Don Stefan Cek (1913-1983). Nativo di Krašica. Ordinato sacerdote nel 1937.
[135] Erano stati cresimati anche sette ragazzi e ragazze arrivati per ultimi a causa dei blocchi stradali.
[136] La prima tomba di don Miroslav, quindi, fu presso il cimitero di Sanvincenti, davanti all’entrata principale della piccola chiesa dedicata a san Vincenzo martire, l’antica parrocchiale.
[137] Benedetto XVI (Joseph Aloisius Ratzinger; 1927-2022). Il suo pontificato durò dal 2005 al 2013.
[138] Slavko Sankovic (deceduto nel 1993). Abitava nel vicino villaggio di Brgudca.
[139] Cf anche: F. Veraja, Miroslav Bulešić, Izdaje, Biskupija Porečka i Pulska, Poreč 2013. (trad. F. Veraja, Miroslav Bulešić, pubblicato dalla Diocesi di Parenzo e Pola, Parenzo 2013).
[140] Mons. Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963; Santo). Visitatore apostolico in Bulgaria (1925) con nomina vescovile. Delegato apostolico in Turchia e in Grecia (1934) con nomina ad arcivescovo. Fu anche amministratore apostolico di sede vacante del vicariato apostolico di Istanbul. Nunzio apostolico a Parigi (1944). Creato cardinale e nominato patriarca di Venezia (1953). Eletto Papa (Giovanni XXIII) nel 1958. Il suo pontificato durò fino alla morte.
[141] Pacem in Terris, Lettera Enciclica di Giovanni XXIII sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà, 11 aprile 1963.
[142] “Il trattamento delle minoranze”.
[143] F. Kralj, Ukmarjevega življenska pot, in Ukmarjev simpozij v Rimu, Celje 2006, p. 15.
[144] La congregazione trae origine dalla Pia Unione delle Serve Infime dei Sacri Cuori. Tale istituzione fu fondata a Lanciano il 6 marzo 1880 da don Lorenzo Lisio, con l’aiuto di Maria Domenica Rosati. La Pia Unione ebbe l’approvazione di mons. Francesco M. Petrarca, arcivescovo di Lanciano (15 giugno 1882). Nel 1886 due religiose della Pia Unione, Rosa Rosati e Rosa D’Ovidio, si stabilirono a Roma e vi fondarono una filiale. Con l’assenso di Leone XIII (1888) la comunità romana venne staccata dalla congregazione di Lanciano (in seguito soppressa), e fu posta alle dipendenze del card. vicario Lucido M. Parocchi. Quest’ultimo, diede alle suore nuovi regolamenti (1898).
[145] Suor Tarsilla Osti (1895-1958; Venerabile). Nata a Pola. M. Taroni, Venerabile Suor Tarsilla Osti, Casa Generalizia Suore dei Sacri Cuori, Roma 2017.
[146] Redazione, Tra cinque giorni Pola sarà slava, in: ‘Il Corriere di Novara’, Organo del Partito Liberale Italiano, 5 febbraio 1947. Alcune frasi sono state evidenziate in grassetto per la loro significatività (ndr).
[147] Archivio Casa Generalizia delle Suore Missionarie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria (Roma).
[148] Con riferimento a questo Istituto cf anche: R. Alvarez, A. D’Orange, C. Vassort, Padre Luigi Scrosoppi e le Suore della Provvidenza, Editions Fleurus, Paris 1994.
[149] Friuli Venezia Giulia.
[150] Redazione, Le suore della Provvidenza portarono dall’Istria le spoglie del “Giglio di Pola”, in: ‘Messaggero Veneto’, 12 febbraio 2019.
[151] Per un quadro d’insieme cf anche: G. Rumici, Fratelli d’Istria. 1945/2000, Mursia, Milano 2001.
[152] Cf anche L. Manzutto, Le Suore della Provvidenza. Sempre benefiche e generose nella loro vasta opera in Istria, in: ‘L’ Arena di Pola’, martedì 26 agosto 1958, p. 3.
[153] L. Manzutto, Le Suore della Provvidenza in Istria. 1910-1960: nel 50° anniversario di fondazione dell’Asilo Infantile “S. Gaetano” di Umago d’Istria, Sorelle della Divina Provvidenza, Trieste 1969.
[154] Mons. Domenico Corelli (1912-2009).
[155] Mons. Munzani (cit.) venne indicato come l’arcivescovo “itinerante”, per l’attività pastorale nei campi profughi sparsi in Italia, sempre vicino agli esuli giuliano-dalmati di cui volle condividere il destino. Cf anche: M. Zerboni, Pietro Doimo Munzani. L’ultimo arcivescovo italiano di Zara ricordato a 60 anni dall’esodo (1947-2007), Italo Svevo, Roma 2006.
[156] A Lussino i miliziani di Tito soppressero l’insegnamento della religione cattolica nel locale istituto nautico, e allontanarono le suore dall’ospedale (aggravarono così una situazione assistenziale già difficile). Decisero poi di chiudere l’accesso diretto dal nosocomio alla chiesa. (nda).
[157] Mons. Domenico Corelli, Persecuzione e cacciata in esilio. Mons. Domenico Corelli racconta i suoi nove mesi di carcere nel 1948, in: ‘Comunità Chersina’, Foglio dei Chersini e dei loro amici, aprile 2010, n. 83, supplemento n. 12.
[158] I miliziani di Tito si erano chiamati partizani. Questo termine rimase in uso nelle terre occupate anche dopo la formazione dell’esercito regolare jugoslavo. Nel 1948, infatti, a tre anni dalla fine del conflitto, i partigiani non c’erano più. Il dattilografo era in definitiva un membro della polizia militare.
[159] D. Corelli, Persecuzione e cacciata in esilio…, op. cit..
[160] D. Corelli, Persecuzione e cacciata in esilio…, op. cit..
[161] Mons. Munzani era nato a Zara.
[162] Si tratta della Diocesi di Concordia-Pordenone (ndr).
[163] D. Corelli, Persecuzione e cacciata in esilio…, op. cit.. Il Comune di San Vito al Tagliamento si trova nella provincia di Pordenone.
[164] Contenute nel libro: P. Zovatto, Preti perseguitati in Istria 1945-1956. Storia di una secolarizzazione, luglio editore, Trieste 2017, pp. 308-323.
[165] P. Tarcisio Tamburini sj fu il rettore del seminario di Fiume.
[166] Prof. Piero Delbello (nato nel 1961). Direttore dell’Istituto Regionale per la Cultura istriano-fiumano-dalmata dal 1992.
[167] Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata, Tesori. Memorie ritrovate, memorie conservate, a cura di P. Delbello, Edizioni Mosetti, Trieste 2022, pp. 187-193.
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Per saperne di più
C.C. Cipriani, In fide et caritate. Sacerdoti zaratini prima e dopo la seconda guerra mondiale, in: AA.VV., ‘Per Rita Tolomeo, scritti di amici sulla Dalmazia e l’Europa centro-orientale’, a cura di E. Capuzzo, B. Crevato-Selvaggi, F. Guida, I, Società Dalmata di Storia Patria, La Musa Talìa Editrice, Lido di Venezia 2014. M. Dassovich, M. Codan, L. Drioli, Don R. Gerichievich, Padre A.S. Gomiero, G. Gorlato, Sopravvissuti alle deportazioni in Jugoslavia, Istituto Regionale per la Cultura Istriana, Unione degli Istriani, Fachin Editore, Trieste 1997. P. Delbello, C.R.P. Centro Raccolta Profughi. Per una storia dei campi profughi istriani, fiumani e dalmati (1945/1970), I.R.C.I. e Gruppo Giovani dell’Unione degli Istriani, Trieste 2004. S.E. Di Grazia, La valigia per Trieste, Pazzini, Rimini 2010. L. Formicola, Foibe, le vittime cattoliche e i criminali impuniti, in: ‘La Nuova Bussola Quotidiana’ (sito online), 10 febbraio 2022. S. Galimberti, Santin un vescovo solidale. Testimonianze dall’archivio privato, MGS Press, Trieste 2000. A.S. Gomiero, Frati nella morsa della persecuzione titina. Cronistoria della prigionia tra la fine degli anni 1947 e 1949 nelle carceri e nei campi di concentramento di Croazia e Slovenia dopo la dura condanna a Pola, L’ Arena di Pola, Gorizia 1991, p. 36. M. Guerra, Foibe, i martiri cattolici della persecuzione titina, in: ‘La Nuova Bussola Quotidiana’ (sito online), 11 febbraio 2017. P. L. Guiducci, La questione religiosa nel secondo dopoguerra. Le persecuzioni del clero e dei religiosi in Istria e nell’area balcanica, in: ‘Fiume’, rivista di studi adriatici (nuova serie), 43, novembre-dicembre 2020 numeri 11-12; gennaio 2021 numero 1, pagine 75-98. P.L. Guiducci, Politiche jugoslave e la Chiesa perseguitata nel secondo dopoguerra. Le criticità in Istria, in Croazia e Bosnia-Erzegovina, in: G. Stelli, M. Micich, P.L. Guiducci, E. Loria, ‘Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico Orientale’, Aracne, Roma 2023, pp. 179-233. P.L. Guiducci, Tito e la Chiesa. Le persecuzioni in Istria e nei Balcani, in: ‘Storia in Network’ (sito online), 2 ottobre 2021. J. Kragelj, Io prigioniero nelle prigioni dell’ex Jugoslavia, Paoline, Milano 1994. A. Luminoso, Orrori in Istria. Memorie di un parroco esiliato da Dignano, in: ‘Il Gazzettino’, Edizione di Pordenone, 4 ottobre 2008. O. Moscarda Oblak, Il ‘potere popolare’ in Istria 1945-1953, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno 2016. E. Malnati (ultimo segretario di mons. Santin), Antonio Santin, un vescovo tra profezia e tradizione (1933-1975), Mgs Press, Trieste 2001. Id., Il vescovo Antonio Santin e la tutela dei diritti umani nella Venezia Giulia, Luglio Editore, Trieste 2020. A. Pannullo, Crimini titini: i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, in: ‘Il Secolo d’Italia’, 10 febbraio 2015. P. Parentin, Incontri con l’Istria, la sua storia, la sua gente, Unione degli Istriani, Tipo-Lito Stella, Trieste 1998. R. Ponis, In odium fidei. Sacerdoti in Istria. Passione e calvario, Unione degli Istriani, Zenit, Trieste 2000. Redazione, I sacerdoti, frati e suore vittime dei comunisti titini, in: Centro Studi Giuseppe Federici, sito online, 9 febbraio 2021. A. Santin, Trieste 1943-1945. Scritti, discorsi, appunti, lettere presentate, Del Bianco, Colloredo di Monte Albano 1963. R. Toncetti, Tra gli orrori della guerra in Istria, a cura di M. Jelinić, per l’edizione italiana W. Arzaretti, Parrocchia di San Biagio, Dignano d’Istria 2008. T. Vuksic, I martiri ritrovati. I partigiani di Tito, il regime comunista e la persecuzione dei cattolici nella Bosnia Erzegovina dal 1941 al 1952, in: ‘Nuova Storia Contemporanea’, vol. 12, fasc. 1, 2008, pp. 45-64. P. Zovatto, Preti perseguitati in Istria 1945-1956. Storia di una secolarizzazione, luglioeditore, Trieste 2017 (con il contributo della Unione degli Istriani).
Ringraziamenti
Mons. Ettore Malnati, già segretario personale del vescovo Antonio Santin. Dott. Giovanni Luca, Direttore Ufficio Beni Culturali – Diocesi di Trieste. Suor Marlize Gisela Müller, Archivista Suore Missionarie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Col. Carlo Cetteo Cipriani, Società Dalmata di Storia Patria (Roma). Suor Maria Luisa Nicastro, Segretaria Generale Figlie di Maria Ausiliatrice. Suor Irena Novak, Figlie di Maria Ausiliatrice, Esperta anche sulle vicende riguardanti Split (1947), Fiume (1947) e Abbazia (1942). Prof. Giovanni Stelli, Presidente della Società di Studi Fiumani – Archivio Museo Storico di Fiume a Roma, e Direttore di ‘Fiume. Rivista di Studi Adriatici’. Dott. Marino Micich, Direttore dell’ Archivio Museo Storico di Fiume – Società di Studi Fiumani. Dott. Emiliano Loria, Caporedattore della rivista di studi adriatici ‘Fiume’, consigliere della Società di Studi Fiumani e conservatore dell’Archivio Museo Storico di Fiume a Roma. Sig.a Stefania Buran e Sr. Elisabetta Butnaru, Archivio delle Suore della Provvidenza di Udine. Mons. Franc Maršič sdb, Rettore Seminario Sloveno di Roma.
ALLEGATO 1
Suore della Provvidenza – in Istria – Pola
Esodi Pola – 21 gennaio 1947
“Comitato di Assistenza per l’Esodo – Pola
Certificato di profugo
Le sottonotate persone, in conseguenza degli eventi politici internazionali (assegnazione della città di Pola e dell’lstria alla Jugoslavia) sono costretti ad allontanarsi dalla loro residenza abituale”.
1. Cosma Agnese – Madre Adelma – n. certificato Profugo 6502
2. Cossarini Carmela – Madre Saula – n. certificato Profugo 6518
3. Dellantonio Lucia – Madre Celidata – n. certificato Profugo 6535
4. Eccher Pierina – Madre Carmen – n. certificato Profugo 6510
5. Gaiardo Angela – Madre Livia- n. certificato Profugo 6545
6. Gasparotto Clotilde – Madre Silvana – n. certificato Profugo 6533
7. Gherbaz Maria – Sorella Rufina – n. certificato Profugo 6508
8. Iuri Maria Teresa – Madre Flaminia – n. certificato Profugo 6505
9. Magotti Lucia – Madre Francesca – n. certificato Profugo 6515
10. Malusà Domenica – Madre Cleofe – n. certificato Profugo 6526
11. Mauro Noemi – Madre Riccardina – n. certificato Profugo 6501
12. Tonidandel Giuseppina – Madre Dionisia – n. certificato Profugo 6524
13. Veronesi Amedea – Madre Leni – n. certificato Profugo 6540
14. Zeni Elvira – Madre Enoe – n. certificato Profugo 6542.