IL COMPLESSO DI SAN NAZZARO DELLA COSTA A NOVARA
di Alessandro Lomaglio -
Situato su una modesta altura da cui domina la città, il complesso monastico è un piccolo tesoro che affonda le sue radici nel XII secolo. Da sempre al centro delle vicende storiche cittadine, all’interno della chiesa in stile gotico-francescano conserva un pregevole tramezzo affrescato del XV-XVI secolo, caratteristico delle chiese padane dell’epoca.♦
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San Nazzaro della Costa: cenni storici
La chiesa di San Nazzaro della Costa con annesso convento, dedicata ai Santi Nazzaro e Celso, il cui culto si diffuse nel territorio padano verso la fine del IV secolo, sorge su una modesta altura, circondata da alberi e prati, nella zona nord est di Novara, nell’antico borgo di Sant’Agabio. E’ denominata chiesa di San Nazzaro della Costa per il poggio o costa su cui fu costruita.
Nell’alto medioevo i due santi furono molto venerati, dopo il ritrovamento dei loro corpi attribuito ad un evento miracoloso, che ebbe per protagonista Ambrogio, arcivescovo di Milano.
La Legenda aurea del beato Jacopo da Voragine, vissuto nel XIII secolo, narra che Nazzaro era figlio di un ricco ebreo e di una nobile cristiana, che era stata battezzata dall’apostolo Pietro. Il giovane abbracciò la religione cristiana certamente per grazia divina, ma anche sotto l’influenza della madre. Ricevette il battesimo da Lino, discepolo di Pietro e suo successore.
Per sfuggire alle persecuzioni di Nerone, imperatore dal 54 al 68, Nazzaro fuggì da Roma e, dopo aver peregrinato per circa una decina d’anni, riparò a Milano, dove, essendo venuto a conoscenza che due santi uomini, Gervaso e Protaso, erano stati incarcerati, andò a trovarli. La visita non ebbe esito felice, perché Nazzaro fu catturato e, dopo essere stato fustigato dalle guardie, fu costretto a lasciare immediatamente Milano.
Durante una notte del suo peregrinare, la madre, morta da qualche tempo, gli apparve in sogno e lo esortò a recarsi in Gallia, dove incontrò un giovane, di nome Celso. Dopo averlo convertito al cristianesimo, lo battezzò e lo portò con sé a predicare e a convertire alla nuova religione le popolazioni ancora pagane.
Il prefetto della regione, appresa la presenza nel territorio dei due cristiani, li fece catturare, ma la moglie lo convinse a liberarli. Il funzionario accolse la richiesta della donna, ma bandì i due dalla regione e vietò loro di predicare. Appena liberati, si diressero a Treviri, dove continuarono a svolgere la loro missione e per questo furono fatti prigionieri dai soldati romani. Riuscirono a fuggire e a riparare di nuovo a Milano, dove questa volta non si salvarono, perché furono arrestati e condotti in località “Dei tre Muri”, dove vennero decapitati.
Nella stessa notte apparvero in sogno ad un cristiano, di nome Cerasio, che li implorò perché guarissero la figlia, gravemente ammalata. Il miracolo si compì e Cerasio, per ringraziamento, avendo appreso dagli stessi il luogo dove erano interrati i loro corpi, li recuperò e li seppellì di nascosto nella sua abitazione.
Molti anni dopo, nel 393, l’arcivescovo di Milano Ambrogio, venuto a conoscenza, per ispirazione divina, del luogo di sepoltura dei due martiri, li fece esumare e tumulare nella chiesa dei Santi Apostoli, che in seguito fu denominata chiesa di San Nazzaro Maggiore.
Il loro culto si diffuse rapidamente anche nel territorio novarese, forse per i legami di amicizia tra l’arcivescovo Ambrogio e il vescovo Gaudenzio, e, in seguito, per intercessione di Teodolinda, regina dei Longobardi, convertitasi all’inizio del VII secolo al cristianesimo. I due martiri divennero oggetto di una grande devozione da parte delle popolazioni longobarde, che ad essi dedicarono molte chiese ed oratori. Che il culto dei due martiri fosse antico e molto diffuso nel contado novarese è testimoniato da un documento del 931, che attesta l’esistenza di una chiesa, ad essi dedicata, nel borgo San Gaudenzio.
Al complesso monastico di San Nazzaro della Costa si accede salendo dallo spiazzo ai piedi del colle mediante un’agevole scalinata oppure percorrendo il vialetto asfaltato sulla destra, anche in macchina, tra due file di cipressi che porta alla chiesa, davanti alla quale nel 1400 fu disposto un vasto sagrato, che i frati usarono per accogliere il popolo e per predicare. Per il loro modo di vivere e per la vicinanza alla gente raggiunsero molta popolarità tra i Novaresi. Ne è prova la costruzione nella chiesa di alcune cappelle, peraltro abbellite da importanti cicli pittorici, dove membri di nobili famiglie della città si fecero seppellire.
Ai piedi del colle, all’inizio della scalinata, è posta una statua in bronzo di San Francesco in atteggiamento laudante, opera dello scultore milanese Giuseppe Enrini.
Antecedentemente alla ristrutturazione degli edifici sulla collinetta, dove ora si trova la chiesa, esisteva solo un piccolo oratorio, forse in stile romanico, dove officiavano alcuni cappellani, che lo avevano scelto per propria residenza, di cui attualmente non rimane più traccia. Mancano tra l’altro documenti storici che attestino la fondazione della chiesa di San Nazzaro della Costa.
Il primo documento, dove viene nominata, è un elenco risalente al 1124, nel quale il vescovo Litifredo, dopo aver riportato le chiese di Novara, tra cui San Nazzaro, dispose di dispensare i cappellani a recarsi in cattedrale, prima del mattutino, secondo un’antica tradizione, nelle quattro feste liturgiche principali: il Natale, l’Epifania, la Resurrezione e la Pentecoste, a causa dei disagi che la partecipazione ad esse poteva comportare.
I cappellani, che officiavano a San Nazzaro, erano titolari di cospicui redditi, ma per motivi di sicurezza, essendo il luogo isolato e fuori le mura, nella seconda metà del XII secolo decisero di abbandonarlo e di trasferirsi altrove, continuando a goderne i benefici.
Durante la loro residenza i cappellani parteciparono a diversi atti, di cui si richiamano i seguenti:
- la vendita di un pezzo di terra fatta nl 1171 da un cambiavalute ad un prete di San Nazzaro;
- una sentenza pronunciata nel 1189 contro un chierico di San Nazzaro dai Consoli di Giustizia di Novara, che fu condannato a restituire il terreno ad un tale, che vantava un pignoramento su di esso oppure a versargli una somma di pari importo;
- una investitura avvenuta nel 1190 di un terreno, situato nei pressi della stessa chiesa, a favore di un laico, obbligato di pagare ai cappellani un moggio di segale all’anno;
- la dichiarazione resa da un chierico di San Nazzaro nel 1227, con la quale confessò di avere agevolato un tale, che lo aveva raggirato con un inganno. Per quanto compiuto provava dolore e se ne pentiva, giurando che in futuro non avrebbe più prestato aiuto;
- la decisione su una lite scoppiata nel 1227 tra due chierici di San Nazzaro, perché entrambi asserivano di aver diritto alla prebenda da parte di un tale che la possedeva.
Il monastero di San Pietro di Cavaglio Inferiore o Cavaglietto
Nel 1256 fecero la comparsa nella storia di San Nazzaro della Costa le suore del monastero di San Pietro di Cavaglio Inferiore, dal 1300 denominato Cavaglietto. A seguito della riforma del convento le religiose passarono dall’ordine di Cluny al secondo Ordine di San Francesco, detto delle Damianite e fu loro assegnato il complesso di San Nazzaro.
L’investitura fu eseguita il 17 agosto 1256 dal vescovo di Novara, Sigebaldo Cavallazzi, che, in obbedienza alle lettere apostoliche di Urbano IV, tenendo in mano un anello, consegnò alle suore di Cavaglio con tutti i beni e le rendite la chiesa di San Nazzaro, dopo che i cappellani l’avevano abbandonata per motivi di sicurezza.
Da quel momento le vicende dei due istituti religiosi molto complesse per il sovrapporsi di diversi motivi, anche di carattere personale, si intrecciarono, per cui appare opportuno farne cenno.
La storia dell’antico monastero di San Pietro di Cavaglio Inferiore inizia con la donazione all’Abbazia di Cluny di un’omonima chiesa, che si trovava a Castelletto.
Il 6 marzo 1083 il conte Guido II di Biandrate, durante la sosta nel castello di Olengo, poco distante da Novara, donò diversi beni esistenti a Castelletto all’abbazia borgognona, che eresse il Priorato di San Pietro con annessa chiesa. Poco tempo dopo Guido II morì.
Circa dieci anni dopo, nel 1092, il notaio Della Otta e sua moglie donarono all’Abbazia di Cluny un’altra chiesa, anch’essa dedicata a San Pietro, che si trovava nel fortilizio detto Castellazzo per la sua vetustà, a circa un chilometro da Cavaglio Inferiore e l’anno successivo donarono le case attigue ed altri beni, che possedevano in quella stessa località.
L’Abbazia di Cluny istituì un priorato femminile, alla cui badessa fu riconosciuto il diritto di riscuotere i dazi feudali, quali il carreggio e l’albergario, e di esercitare la giurisdizione. Le religiose rimasero in quella sede fino al 1233, cioè per circa centotrenta anni. Ma a seguito della riforma del convento, che i superiori avevano ritenuto necessario disporre per il modo licenzioso e i costumi rilassati da parte di poche religiose indocili, esse furono costrette a passare dall’ordine di Cluny a quello delle Damianite, dette poi Clarisse da Santa Chiara, che davano “maggiore affidamento di serietà e di pietà”. Il monastero cadde in rovina per l’abbandono e i ruderi sono oggi incorporati in una cascina privata, detta Cascina Monastero.
All’inizio le suore del priorato condussero una vita irreprensibile, osservando la regola dell’ordine cluniacense e gli altri obblighi sotto la direzione del priore del medesimo convento e la giurisdizione di Cluny. Ma in seguito il clima sereno e tranquillo della vita monastica cominciò a turbarsi, perché le suore rallentarono gli esercizi spirituali e trascurarono gli adempimenti connessi ai loro doveri. Il nuovo modo di comportarsi portò alla decadenza del monastero sia sotto l’aspetto spirituale che temporale, tanto che non fecero eseguite nemmeno le riparazioni necessarie alla manutenzione degli edifici, che caddero in rovina. Esse furono tacciate per il tenore licenzioso di vivere di essere nere non solo per il colore dell’abito, ma anche per la loro coscienza. Il vescovo di Novara, Odemario Buzio (1235-1250), venuto a conoscenza di quanto accadeva nel convento di Cavaglio Inferiore, informò il papa Innocenzo IV, al quale faceva capo l’ordine cluniacense, a differenza di altri conventi, che, pur appartenendo al medesimo ordine, non avevano accettato la riforma cluniacense e continuavano ad essere sottoposti al vescovo del posto.
Il pontefice non lasciò cadere nel dimenticatoio la denuncia del vescovo novarese e incaricò il legato apostolico, cardinale Ottaviano di Santa Maria Lata, di nominare due nunzi, che furono l’abate del monastero di San Bartolomeo di Vallombrosa, che era adiacente a San Nazzaro della Costa presso la fons Botonis, nella zona dell’attuale cimitero cittadino, e il prevosto di Santa Croce degli Umiliati, esistente nel borgo della Cittadella, nella zona meridionale dell’ospedale civile. Gli inquisitori si recarono a Cavaglio Inferiore e notificarono alla badessa e alle monache residenti l’incarico pontificio di dover procedere alla visita del convento per accertare i fatti denunciati e di esaminare se riformarlo, anche facendo ricorso a religiose di altri ordini.
Il priore di San Pietro, Guglielmo, che aveva giurisdizione sul monastero femminile, avvertito della visita e della eventuale riforma del monastero, fece proprie le proteste delle suore ed espresse con fermezza che, se la riforma andava fatta, doveva avvenire solo con monache dell’ordine di Cluny. Nello stesso tempo, assicurò i delegati, che le monache di Cavaglio erano disposte a correggersi ed emendarsi.
La causa per la riforma del convento iniziò davanti all’arcidiacono della cattedrale di Novara e delegato pontificio, Ruffino di Toenengo, al quale il priore di San Pietro Guglielmo espresse le sue rimostranze, sostenendo che le dicerie sulle monache erano false e presentò a tal fine le prove a conferma del suo assunto.
La perorazione restò senza esito e le prove non furono ammesse dall’arcidiacono Ruffino, che, preso atto della situazione, intimò a lui e al chierico Guido Resta, procuratore di Margherita, conversa del monastero di San Pietro, di comparire entro otto giorni in canonica, presso la sua abitazione, per essere interrogati, previo giuramento, sugli episodi denunciati e sulla eventuale riforma.
I religiosi non si presentarono; anzi interposero appello direttamente alla Santa Sede. L’iter giudiziario del procedimento, di cui si ignora l’esito, coinvolse numerosi soggetti, tra cui tutte le monache, tranne una.
In un primo tempo fu sospeso, ma riprese a seguito di due lettere del vescovo Sigebaldo, il quale con la prima richiamò al pontefice la promessa di assegnargli il convento di Cavaglio Inferiore, che gli aveva fatto, quando, per sfuggire i pericoli minacciati da Federico II, lo aveva accompagnato a Lione, e con la seconda riassunse al cardinale di Ostia quanto aveva scritto al papa.
Il 27 settembre 1253 il papa, fedele alla promessa, cedette al vescovo il convento e la chiesa di Cavaglio, suggerendogli di affidarlo alle suore di San Pietro. Analoga conferma il vescovo la ricevette dal cardinale di Ostia, il quale gli comunicò di procedere alla riforma del convento col passaggio delle suore dall’ordine cluniacense a quello delle Damianite. In questo contesto dispose di trasferire dal convento francescano di Piacenza la badessa Cecilia, sorella di Alberto di Rocca Sarzana e consanguinea del pontefice, confermandole il medesimo incarico.
Il 18 novembre del 1253 il vescovo Sigebaldo in una sala inferiore del suo palazzo cedette a Bernardo di Benincasa, procuratore e sindaco della badessa Cecilia e delle sorores minores appartenenti all’ordo Sancti Damiani, il monastero di San Pietro di Cavaglio Inferiore con tutti i beni e i redditi, tranne quelli spettanti al vescovo. L’investitura avvenne con la consegna al chierico Benincasa di una carta, che il vescovo teneva in mano, come è riportato nel relativo documento. Dall’atto si deduce che le suore francescane erano presenti a Novara prima della morte di Santa Chiara, avvenuta nel mese di agosto del 1253.
Alessandro IV, successore di Innocenzo III, emanò in data 15 maggio 1255, il Breve apostolico, col quale approvò la riforma e assegnò il convento di Cavaglio Inferiore alle suore divenute Clarisse. Poiché queste manifestarono l’intenzione di restaurare gli edifici, il pontefice riconobbe ad esse la facoltà di concedere quaranta giorni d’indulgenza a chi avesse effettuato offerte allo scopo di eseguire i lavori di ristrutturazione.
Nel Breve la badessa Cecilia e le consorelle furono lodate dal nuovo pontefice per la vita esemplare che conducevano e per le iniziative che avevano intraprese e confermò la riforma del convento.
Il periodo di tranquillità fu di breve durata, perché nello stesso anno 1255 le suore residenti nel convento litigarono tra loro, scambiandosi insulti violenti, che degenerarono in liti e percosse.
Il pontefice, per calmare gli animi e far tornare la pace, promise alle religiose che sarebbero state assolte dalla scomunica, in cui erano incorse per i gravi e scandalosi fatti di cui erano state protagoniste, a condizione che avessero evitato di andare vagando e avessero fatto ritorno nella loro sede.
L’esecuzione della decisione fu affidata al cardinale Giovanni Orsini, che delegò un frate confessore dell’ordine dei Minori, scelto dal Padre Provinciale di Milano, con la raccomandazione di dare soddisfazione alle monache che avevano subito gli insulti.
Alessandro IV il 25 luglio 1255 ordinò alla badessa e alle suore presenti e future di osservare in perpetuo la regola del secondo ordine di San Francesco e di praticare l’accoglienza, ricevendo in convento tutte le persone che si convertivano liberamente e desideravano vivere in modo cristiano. Riconobbe ad esse tutti i diritti e la facoltà di ricevere donazioni ed eredità. Inoltre, dispose che le monache, che avevano preso i voti, non potevano lasciare il convento, ma non dovevano essere trattenute contro la loro volontà. In caso di interdetto potevano celebrare gli uffici divini a porte chiuse e senza il suono delle campane, a meno che non fossero state esse stesse causa della censura.
Intanto si profilava un altro problema. Il monastero di Cavaglio era situato in una regione molto lontana da Novara, per cui le monache vivevano in uno stato di pericolo per le molestie derivanti dai vagabondi e dalle soldatesche che spadroneggiavano nella regione. Erano gli anni in cui le fazioni dei Sanguigni e dei Rotondi si combattevano in modo violento. Li divideva ogni cosa, tranne il reciproco odio. I contendenti si resero protagonisti di atroci e nefandi misfatti. Il monastero di Cavaglio era molto povero e mancava anche delle cose essenziali per vivere.
Considerato che la chiesa di San Nazzaro della Costa era stata abbandonata nel 1256 dai quattro cappellani che fino ad allora vi avevano avuto dimora, sembrò al pontefice una soluzione accettabile di cedere l’edificio, tramite il vescovo Sigebaldo, alle Clarisse di Cavaglio Inferiore, affinché potessero avere una sede più sicura. Il vescovo, in forza dell’ordine apostolico ricevuto, il 17 agosto 1256 nella curia di Novara con un anello che teneva in mano, investì la badessa Cecilia della chiesa e del convento di San Nazzaro con i suoi redditi, ad eccezione di quelli che spettavano ai canonici della cattedrale, cui incombeva l’obbligo di recarsi alla chiesa in processione, alla vigilia della festa di San Nazzaro, per il canto dei vespri e di farvi ritorno il giorno successivo per la messa solenne, nel rispetto di un’antica tradizione.
Lo stesso giorno avvenne l’immissione in possesso del complesso monastico con la consegna alla badessa della fune della campana da parte del vescovo, che non mancò di minacciare di scomunica chiunque avesse recato molestie alle religiose.
In seguito, alcune suore si trasferirono dal convento di San Pietro di Cavaglio a San Nazzaro, mentre la badessa Cecilia dimorò alternativamente presso l’una o l’altra struttura.
Anche nella nuova sede le monache risedettero per un breve periodo, perché le lotte tra le opposte fazioni la resero poco sicura, per cui esse furono autorizzate dal vescovo Sigebaldo, a trasferirsi in città nel convento di San Domenico, in seguito detto di Sant’Agnese, dove avrebbero potuto risiedere tranquillamente.
Ma anche questa soluzione non fu duratura, in quanto presto tra le suore sorsero violente discordie, che indussero la badessa Cecilia e sei consorelle a riparare presso la vecchia sede di Cavaglio Inferiore.
Dal momento del trasferimento la storia delle suore di San Pietro di Cavaglio Inferiore non riguarderà più San Nazzaro della Costa, in quanto, con l’arrivo a Novara di San Bernardino da Siena, la struttura diverrà la sede dei Minori Osservanti, che procederanno ad ampliarla e a ristrutturarla, facendo del complesso degli edifici una testimonianza concreta di esaltazione di vita semplice e cristiana.
San Nazzaro della Costa
Il 29 marzo 1257, il vescovo di Novara, Sigebaldo Cavallazzi, investì del convento di San Nazzaro della Costa la badessa Cecilia, che con le consorelle, dopo la riforma del convento di San Pietro di Cavaglio, passò dall’ordine cluniacense a quello delle Damianite, e fu trasferita nella struttura monastica di Novara.
La permanenza delle religiose nella nuova sede fu di breve durata, perché, a causa delle lotte civili che insanguinavano Novara in quel periodo, tra il 1257 e il 1260, il vescovo, per assicurare ad esse un luogo tranquillo, le fece trasferire, l’8 ottobre 1262, all’interno della cerchia muraria, presso il convento di San Domenico, che era stato ceduto dai canonici Lateranensi di Santa Croce di Mortara. Anche questa soluzione non fu duratura a causa delle discordie sorte tra le religiose, che indussero la badessa e altre sei consorelle a far ritorno al vecchio monastero di Cavaglio Inferiore.
ll Cardinale di San Nicolò, protettore dell’Ordine di San Francesco, messo al corrente dello sconcertante episodio, delegò con ampi poteri nel 1263 i nunzi padre Angelo da Milano e padre Giovanni da Novara dell’Ordine dei Minori della Provincia di Milano, affinché accertassero quanto accaduto e procedessero alla istituzione di un solo monastero sotto la direzione di un’unica badessa.
I delegati notificarono alla badessa Cecilia e alle sei monache di presentarsi a Novara, presso il convento di San Domenico. Esse ignorarono l’ordine e si appellarono direttamente alla Santa Sede. Allora il Cardinale nominò altri due inquisitori, i frati Umberto da Centura e Baldassarre da Brescia, per indurre le monache ribelli a rispettare gli ordini in forza del voto di obbedienza. I due nunzi si recarono a Cavaglio, ma non furono ricevuti dalle suore, che addirittura chiusero la porta in faccia ad essi. Poi, tramite un converso, restituirono con disprezzo i cordoni dell’abito, volendo significare che abbandonavano l’ordine francescano per rientrare nell’ordine cluniacense. Minacciarono inoltre che non avrebbero mai più ricevuto altri inquisitori francescani.
La questione si inasprì, anche per l’ingerenza dei monaci cluniacensi, che risiedevano nel vicino monastero di San Pietro di Castelletto, perché il loro priore era fermamente intenzionato a recuperare la giurisdizione sul convento, di cui prima della riforma era investito.
All’inizio del XIV secolo il dissidio si ricompose e l e le monache si riappacificarono e non si opposero a rientrare nell’Ordine di San Francesco.
I monaci neri non desistettero dalla loro posizione e nel 1306 portarono via dal convento di Cavaglietto tutti i beni mobili che potevano essere trasportati, considerandoli di loro proprietà.
Le Damianite conservarono il governo sul monastero di San Nazzaro fino a quando l’edificio fu ceduto a Bernardino da Siena, frate minore degli Osservanti, che fu presente a Novara nel 1440. I Minori, appena insediati nel complesso, iniziarono i lavori di ampliamento e di ristrutturazione secondo il modulo francescano, in modo che il convento diventasse la dimora stabile e idonea alle necessità dei frati, che ancora oggi vi risiedono, tranne il periodo del dominio di Napoleone, quando con l’editto governativo del 1810 dispose la soppressione dei conventi e delle congregazioni religiose.
Si tramanda che lo stesso San Bernardino si sia occupato della ristrutturazione del convento, ma altri sostengono, forse con più aderenza alla verità storica, che egli abbia affidato l’esecuzione dei lavori al discepolo fra Giovanni da Capistrano, che è stato raffigurato anche in un affresco che si trova a Ponzana, dove non risulta ancora beatificato, in quanto privo dell’aureola.
I Minori Osservanti dimorarono a San Nazzaro fino al 26 giugno 1626, quando furono costretti a cedere la chiesa e gli edifici del complesso ai frati di più stretta Osservanza, detti Riformati, e a riparare nel convento anch’esso francescano, di Trecate. I Riformati, che allora fecero la comparsa in città, profittando che quel giorno gli Osservanti erano assenti per partecipare in città alla processione del Corpus Domini, si fecero aprire la porta dall’unico frate restato a custodire la struttura e si impadronirono artatamente dell’edificio.
I Riformati basarono la legittimità della loro azione sulle lettere apostoliche di Urbano VIII, secondo le quali il pontefice aveva assegnato ad essi la chiesa e il convento di San Nazzaro. Vi dimorarono in pace sino all’editto del 1810, quando tutti i conventi, come accennato, furono soppressi.
La cronaca narra una cerimonia che riguarda i canonici della cattedrale, che avevano l’obbligo di recarsi il giorno della festa di San Nazzaro alla messa solenne in carrozza fino ai piedi del poggio e poi, cantando, di portarsi in processione fino al sagrato, dove venivano accolti dai cappellani. A questi, dopo l’abbandono della sede, subentrarono le Clarisse, trasferite dal convento di Cavaglio. Al termine degli uffici religiosi, le suore offrivano ai canonici nel refettorio dolci e vino. La consuetudine fu interrotta dopo che la refezione fu limitata a poche ciliegie in un piattino, anziché dei soliti dolci, biscottini e vino bianco. Questo comportamento indusse il 10 luglio1746 il padre guardiano, fra Serafino da Novara, a presentare le scuse al Capitolo della cattedrale, ma l’antica cerimonia, che risaliva al XIII secolo, non fu più ripristinata.
Nel 1805 furono aggregati al convento di San Nazzaro altre istituzioni religiose, ma nel 1810, in forza del più volte richiamato editto governativo, il monastero e la chiesa furono soppressi e destinati, rispettivamente, a cascinale e a fienile. Gli edifici furono in seguito ceduti a privati, ad eccezione di un pezzo dell’orto, che fu ceduto alla Municipalità di Novara per la costruzione del cimitero cittadino.
In almeno due occasioni il sagrato servì da piattaforma per le artiglierie piazzate contro la città. Il primo episodio accadde nel 1705, allorché le milizie tedesche e sabaude sotto la guida del Principe Eugenio di Savoia e del Duca Vittorio Amedeo, già pronte a bombardare Novara, presidiata dai soldati spagnoli, furono convinte dal vescovo Giovan Battista Visconti, promotore di una missione di pace, ad astenersi dall’iniziare il bombardamento. Il secondo episodio, analogo all’altro, si verificò il 23 marzo 1848, quando il vescovo Filippo Gentile ottenne dagli austriaci cessassero di cessare di sparare sulla città, evitando ad essa ulteriori danni e perdite di vite umane.
Nel 1928, il complesso monastico fu riscattato dalla Provincia dei Padri Cappuccini di Alessandria, che tuttora vi risiedono. Essi fecero eseguire lavori di restauro, che, oltre a restituire alla chiesa un aspetto molto dignitoso, portarono alla scoperta degli affreschi, che costituiscono un ornamento artistico importante del XV-XVI secolo nell’arte novarese.
Nel 1798 avvenne che le Clarisse furono trasferite in città, presso il convento di Santa Chiara, perché il Consiglio Municipale chiese al vescovo Melano il rilascio degli edifici di San Nazzaro, per accasermare le truppe francesi, scese in Italia. L’anno seguente l’esercito francese fu cacciato da Novara dalle milizie austro-russe, ma l’anno successivo i Francesi vi fecero ritorno sotto la guida di Napoleone, il quale, come accennato, nel 1810 fece sopprimere tutte le corporazioni religiose. Per notizia, l’antico convento di San Pietro di Cavaglietto era stato soppresso nel 1805.
Una tradizione, che riguarda il convento di San Nazzaro, oggi non più in uso, era connessa all’arrivo a Novara del nuovo vescovo. Prima di entrare in città, egli sostava a San Nazzaro. Successivamente, in carrozza o in lettiga si recava alla chiesa di Sant’Agabio, che sorgeva fuori le mura presso l’omonima porta, detta anche porta Milano. Sul sagrato veniva accolto dal parroco, che lo aspergeva con l’acqua benedetta e lo incensava. Entrato nella chiesa, si raccoglieva in preghiera e, al termine, sedeva su un faldistorio e riceveva il saluto dei rappresentanti della Municipalità. In seguito, aiutato dai propri domestici, vestiva i paramenti per la cerimonia della investitura. Inoltre, indossava la cappa e per ultimo calzava il galero. Dopo la vestizione con l’aiuto dei suoi famigli, si avviava in città attraverso porta Sant’Agabio e, dopo averla oltrepassata, si genufletteva in segno di rispetto per la diocesi che avrebbe guidato. Da Porta Sant’Agabio si portava alla basilica di San Gaudenzio, primo vescovo e patrone della città, e da lì in processione con tutto il clero procedeva fino al duomo. Questa suggestiva cerimonia cessò, quando fu demolita la chiesa di Sant’Agabio per costruirne una nuova.
I Francescani a Novara
I Francescani furono i primi tra gli ordini mendicanti, che intorno al 1230 si insediarono a Novara soprattutto ad opera di fra Giovanni Cazzulino di Vigevano. Nel 1226 fondarono il convento di San Luca, fuori le mura, nella zona meridionale della città, alle spalle del castello, quando San Francesco era ancora in vita, che morì poco dopo nello stesso anno. Era usanza che i frati minori facevano coincidere la fondazione dei loro conventi, quando il Santo d’Assisi era ancora in vita.
E’ storicamente accertato che a Novara il frate minore Olrico da Milano nel 1233 costruì una chiesa con annesso convento, dedicata a Sant’Antonio da Padova, su un terreno donato da Gisla de Rado, dove si stabilirono le suore di Sant’Antonio Abate, che però continuarono a celebrare la festa del Santo anche dopo il passaggio nel 1370 all’ordine cistercense. Poiché in francescani non si insediarono nella nuova struttura, è verosimile ritenere che essi ne possedevano un’altra in città o nelle vicinanze delle mura.
Gli ordini mendicanti trovarono un terreno fertile a Novara, dove erano da tempo presenti gli Umiliati, che, come i frati minori, predicavano la povertà e praticavano l’assistenza e la carità.
Nel 1440 giunse a Novara Bernardino da Siena, il predicatore ispirato, che fece esplodere un incontenibile entusiasmo per la regola francescana. Fu la voce moralizzatrice della chiesa, che influenzò la società del tempo con la forza della persuasione: Fu un predicatore formidabile e affascinante, che usò il linguaggio dei contadini toscani, mediante il quale raggiunse il massimo della credibilità. Assistere alle sue prediche era un privilegio perché non significava soltanto ascoltarlo, ma partecipare ad una preghiera collettiva. Egli sapeva toccare con efficacia i cuori degli ascoltatori mediante una esposizione chiara e semplice, ma le sue prediche furono anche uno strumento di repressione. Non furono pochi i nobili e i ricchi, che oltre alla gente comune, furono attratti dalle sue parole e invogliati a fare donazioni e testamenti a favore dell’ordine francescano, che apportarono all’Ordine notevoli benefici economici. Fu un fenomeno sorprendente che consentì di abbellire le chiese e i conventi, prima molto sobri e austeri. Bernardino inoltre suscitò una speciale e profonda devozione per Cristo crocifisso, rilanciando la venerazione di San Francesco. E’ famoso per il suo cristogramma che al centro di un sole radiante su una tavoletta porta la scritta JSH, da cui non si separava mai. Predicò la povertà e la semplicità. Rifiutò per tre volte la nomina a vescovo e donò ai bisognosi in elemosina le offerte che riceva. Bisogna anche ricordare che per ben tre volte rifiutò la nomina a vescovo in segno di infinita modestia e umiltà.
L’ordine dei Frati Minori dell’Osservanza fu fondato da Paolo Trinci nel 1368 e auspicava un ritorno alle rigorose abitudini primitive dei francescani.
San Bernardino, ma alcuni studiosi sostengono che fu il suo discepolo Giovanni da Capestrano, restaurò ed ampliò il convento di San Nazzaro, i cui lavori terminarono nel 1444, anno della sua morte. Per il suo influsso furono costruite numerose chiese ed oratori anche nel contado novarese.
Nel complesso di San Nazzaro della Costa, divenuto centro dell’esperienza religiosa francescana a Novara, dimorarono il beato Pagano Tornielli di Barengo, che morì di peste ad Assisi, i beati Tommaso Caccia di Novara, raffigurato in un affresco della chiesa, Matteo Noli, appartenente ad una nobile famiglia novarese poi scomparsa, Gaudenzio da Omegna. Di Novara furono anche le tre Beate dell’Ordine delle Clarisse: Chiara –Margherita Dei Tornielli, Lucida e Concordia, ricordate con una lapide in San Gaudenzio, insieme con Francesca Caterina De Clarinis da Varallo. Morirono nel convento di Sant’Agnese. Un eminente francescano fu il beato Pacifico da Cerano, che, orfano dei genitori, fu accolto nel monastero benedettino di San Lorenzo ma appena giovanetto, optò per l’ordine dei Minori ed entrò nel convento di San Nazzaro della Costa. Dopo gli studi presso la Sorbona a Parigi, dove conseguì il dottorato, tornò in Italia e divenne famoso per la sua oratoria, predicando soprattutto in Lombardia e in Piemonte. Inviato da Sisto IV in Sardegna, morì a Sassari nel 1482, ma il corpo, per suo desiderio, fu traslato a Cerano, dove tuttora riposa.
Gli Osservanti risiedettero nel convento di San Nazzaro fino al 1626, allorché in forza delle lettere apostoliche di Urbano VIII, dovettero cedere la struttura ai minori di più stretta osservanza, detti Riformati, i quali però se ne impadronirono, ricorrendo ad un sotterfugio. I Minori Osservanti furono così costretti a riparare nel loro convento di Trecate, mentre i Riformati rimasero a San Nazzaro fino al 1810, quando per il noto editto del Regno d’Italia il convento fu soppresso.
I Novaresi non restarono indifferenti di fronte all’iniziativa dei Riformati per impadronirsi degli edifici monastici e ne disapprovarono apertamente le modalità.
All’inizio del XVI secolo, giunse a Novara una nuova famiglia francescana composta da suore, denominate Cappuccine, che si stabilirono nel convento di Santa Maria della Misericordia in località Bicocca, che era stato fondato nel 1563.
La terza principale famiglia dell’Ordine dei Minori fu quella dei Cappuccini (Ordo fratrum capucinorum), che si costituì nella Marca d’Ancona nel 1528 sotto la guida di Matteo da Bascio, che si prefiggeva di vivere in povertà e di predicare la penitenza.
Una quarantina d’anni dopo il loro arrivo a Novara, le suore cappuccine si trasferirono in città, in una sede situata nel recinto dell’attuale Ospedale Maggiore, alle quali si aggregarono nel 1621 le suore della Visitazione, anch’esse cappuccine. In seguito, fu loro assegnato un nuovo convento situato tra Corso Mazzini e via Perrone, dove attualmente si trova l’Università.
Oggi, per la contrazione delle vocazioni delle strutture francescane, che una volta punteggiavano Novara, è rimasto solo il convento di San Nazzaro della Costa, i cui frati si distinguono sul territorio per la loro attività di pace, per il fervore della preghiera, per l’accoglienza e per le opere di solidarietà verso i più deboli e sfortunati, dando col loro comportamento e la preghiera un esempio concreto per superare le ambiguità del mondo contemporaneo.
Il complesso monastico di San Nazzaro della Costa: l’architettura e gli affreschi
La fisionomia attuale della chiesa e del convento di San Nazzaro della Costa è sostanzialmente quella voluta da Bernardino da Siena, che ampliò e ristrutturò l’antico edificio, adattandolo alle esigenze dei frati minori, che avevano sostituito nel complesso le ex suore Cluniacensi, divenute Damianite.
La tipologia francescana delle chiese, secondo il “modulo bernardiniano”, non prevedeva la separazione degli spazi tra uomini e donne, ma la costruzione di una parete-diaframma, detta tramezzo, eretta fino al soffitto, che separava la chiesa conventuale dei religiosi, dove era posto l’altare, da quella secolare riservata ai fedeli. Un esempio pervenuto intatto è quello di Santa Maria delle Grazie di Varallo Sesia. Inoltre, nell’area conventuale erano previsti due vasti ambienti quadrati intercomunicanti con volte a crociera costolonate, il presbiterio anteriore, e il coro posteriore, più piccolo e più basso dell’altro, situato nell’area absidale.
La chiesa era costituita da una modesta aula, simile ad un capannone, secondo il severo modello di vita e d’immagine francescano, arredata con semplici altari di legno e pochi ornamenti.
Era il periodo della piena espansione degli ordini mendicanti e dei predicatori itineranti, che esortavano la gente a condurre un tenore di vita religiosa più puro e spingevano la chiesa ad essere meno sfarzosa, più attenta verso la spiritualità e più prodiga verso i bisognosi. La passione e l’entusiasmo di San Bernardino, definito “fenomeno indomito, di dolorosa concentrazione”, produssero nel novarese un partecipe e convinto rinnovamento, che portò alla costruzione e ristrutturazione di chiese, conventi e oratori. Si trattava in genere di ambienti piccoli e di antichi oratori situati fuori città, poco distanti dalla cerchia muraria, in luoghi isolati, per consentire la meditazione e la preghiera e nello stesso tempo poter raggiungere facilmente le piazze e le chiese dove predicare ed effettuare la questua.
A queste esigenze rispondeva San Nazzaro della Costa, che verso la metà del XV secolo fu ceduto dal vescovo Bartolomeo Visconti ai frati Minori Osservanti, i quali provvidero subito a ristrutturare il complesso e successivamente ad abbellirlo con ornamenti ed affreschi, allorché con le donazioni dei privati potettero disporre di denaro. I tramezzi e le pareti della navata e delle cappelle, prima spoglie, furono abbelliti con affreschi, molto rilevanti sotto il profilo artistico. Quelli di San Nazzaro della Costa sono considerati i monumenti pittorici più rilevanti dell’arte quattrocentesca a Novara.
L’impianto iconografico delle pareti-diaframma, il cui programma fu imposto e accettato da artisti di fama e di notevole personalità, si fondava sulla Crocifissione dipinta al centro della parete d’ingresso della chiesa conventuale e da una ventina di quadri o capitoli disposti a cornice intorno ad essa. Le pitture dovevano esprimere l’intensità del messaggio religioso, che determinasse un impatto sulla spiritualità del tempo.
Il Concilio Tridentino emanò nuovi canoni liturgici e impose la demolizione dei tramezzi, che modificarono profondamente l’aspetto originario delle chiese, anche se, specialmente in Lombardia e nelle regioni limitrofe, alcuni di essi si salvarono.
Sul lato sinistro della chiesa di San Nazzaro furono costruite tre cappelle, alle quali nel 1470 se ne aggiunsero altre tre sul lato destro, caratterizzate da volte cordonate o a costoloni e da archi a tutto sesto. Fu creato, secondo il modulo bernardiniano, un vasto presbiterio e un coro, più piccolo dell’altro, entrambi a forma quadrata, e il convento fu dotato di chiostri.
L’architettura gotico-francescana della facciata è attestata dall’impostazione planimetrica, giunta fino a noi. In epoca rinascimentale furono eseguiti su di essa altri interventi con l’apertura di due alte finestre, strette e rettangolari, in sostituzione di quelle precedenti, piccole e ogivali.
Ma l’impronta artistica più importante della chiesa è rappresentata dalla parete affrescata, che riproduce l’iconografia francescana del 1400. Le figure, secondo il modello lombardo, sono più raffinate rispetto a quelle eseguite in altre regioni.
Rilevante è il maestoso affresco della Crocifissione nel catino absidale, che richiama il motivo predominante della devozione di San Francesco per la croce secondo una prescrizione secolare. L’affresco della Crocifissione nella chiesa di San Nazzaro vuole essere un ammonimento per tutti i credenti e un invito costante a meditare sul fatto centrale del cristianesimo, come una professione di fede.
Lungo la navata sono tuttora visibili degli affreschi, alcuni dei quali purtroppo poco leggibili, con santi e beati appartenenti all’ordine dei Minori.
La chiesa è un’unica e ampia aula. Prima dei restauri era a tre navate, strutturata su tre campate, distinte da grandi archi a sesto acuto. Non ha il transetto ed è coperta dal tetto con travi a vista.
Il complesso è di notevole importanza storica e artistica, che purtroppo nel corso dei secoli ha subito atti di vandalismo e furti, specialmente nel periodo napoleonico, quando il convento fu adibito a cascinale e la chiesa a fienile.
La produzione pittorica a Novara e nel contado, nella seconda metà del Quattrocento, ebbe una impronta tardogotica lombarda, testimoniata da opere e documenti più numerosi per gli edifici fuori città. Sono scarsi invece quelli vicino alla cerchia muraria, perché molti di essi furono distrutti dagli Spagnoli insieme con la demolizione degli edifici da parte de gli Spagnoli nel 1553, per fare di Novara una piazzaforte.
Partendo dal lato destro, sulla controfacciata è posto un quadro della Madonna in trono col Bambino benedicente e un cavaliere in ginocchio, che forse raffigura il committente dell’opera, non individuabile, perché l’affresco è purtroppo in pessime condizioni.
La prima cappella a destra ha un impianto pittorico molto elegante, impreziosito da una cornice in cotto con fregi ed altri motivi ornamentali con figure deformate su fondo giallo. Sull’arco sono riprodotte figure di profeti, incorniciati in pregevoli tondi. Sul soprarco si notano a stento, per la pessima conservazione, due affreschi: a sinistra la Discesa di Cristo nel Limbo e a destra l’Ascensione in cielo di Gesù fra gli apostoli. Sono dipinti in stile rinascimentale, come suggerisce la veste aderente alle gambe dell’angelo e per le pieghe fitte del panneggio, nonché per la luminosa tonalità delle tinte pastello. Le parti inferiori sono completamente mancanti, mentre quelle restanti sono vistosamente screpolate e logore. Le due scene raffigurate sono divise da una imponente colonna a forma di candeliere. Si ritiene che in origine la cappella dovesse avere funzioni sepolcrali di una nobile famiglia novarese.
La seconda cappella a destra, dopo i restauri del 1987 mostra dopo i restauri sulla parte sovrastante all’arco a sesto acuto una Annunciazione di notevole rilievo artistico. E’ senza dubbio un’opera pregevole, attribuita ai pittori della schiera degli Zenale, eseguita forse alla fine del XV secolo. Alcuni studiosi ritengono che tutto il complesso pittorico di estrema raffinatezza possa essere attribuito ad un unico artista. L’affresco, il cui fondo non è dipinto, presenta una composizione essenziale, dove il colore bianco è diffuso e dona alla scena un aspetto immacolato. L’Arcangelo è vestito con panni a pieghe ampie di bell’effetto e la Vergine, accuratamente pettinata e riccamente vestita, ma dimessa e composta, è umilmente in ginocchio davanti ad un leggio, nel cui sportello sono allineati dei libri, mentre nella nicchia sottostante è riposto un cestino con gomitoli di lana. Intorno vola la colomba dello Spirito Santo. Completa l’arredo una sedia di legno impagliata, oggetto modesto, come è possibile trovare nell’abitazione di poveri contadini. Forse l’artista ha voluto in questo modo fare riferimento alla povertà francescana. Sono oggetti quotidiani di gusto lombardo, che denotano la semplicità dell’ambiente. Nell’angusta cappella è posto piccolo altare e sul muro posteriore e al centro in alto in un tondo è dipinta la figura di Cristo. Sulla parete sinistra sono raffigurati diversi episodi della vita di San Girolamo che costituiscono un ciclo pittorico di alta qualità. La facciata di una chiesa, dipinta alle spalle del santo che medica la ferita ad un leone, è descritta con timpano, rosone e lesene in modo nitido e preciso. Nel sottarco sono raffigurate diverse figure di santi, caratterizzati dai diversi atteggiamenti: uno legge, un altro scrive, un altro invece fa la punta al calamo. Nella fascia superiore sono dipinte figure di devoti, mentre sulla parete di fondo doveva esserci un quadro della Madonna col Bambino a cui si rivolge il committente vestito con la sua armatura. A destra sono raffigurati altri episodi della vita di San Girolamo. Nel sottarco sono dipinti i Padri della chiesa, indicati con i propri nomi, San Gregorio, San Geronimo, Sant’Agostino, e Sant’Ambrogio e i quattro evangelisti. Sono stati inseriti in nicchie decorate, che poggiano su colonne rastremate, e sono raffigurati in modo nitido intenti ad una differente operazione, come accennato.
La terza cappella a destra è introdotta da un arco smussato, al di sopra del quale sono raffigurati, in stile cinquecentesco, due angeli. Al centro è dipinto lo stemma della famiglia Nibbia di Novara, titolare del giuspatronato sulla cappella. E’ un ambiente piuttosto disadorno, dotato di un piccolo altare dedicato al Sacro Cuore. La volta è a spicchi senza costoloni. Attraverso una porticina a sinistra, bassa e stretta, si entra in un angusto locale, che mostra sul muro di fronte all’ingresso un affresco, conservato in discrete condizioni, con la scena del Compianto su Cristo morto, risalente alla prima metà del XV secolo o all’inizio di quello successivo, ma la data e il nome dell’artista sono riportati. La scena richiama le mura di Gerusalemme e, sullo sfondo, a destra, il Golgota con la croce piantata sulla sommità e un sepolcro bianco. In primo piano è dipinta la figura di Gesù deposto, abbandonato in grembo a Maria, che poggia la fronte sul volto del figlio e lo contempla con gli occhi semichiusi e con un amore intenso, colmo di dolore. Assistono al dramma, in posizione defilata, forse per non disturbare la sofferenza della madre, le pie donne e, più indietro, poco discosti, Giuseppe d’Arimatea, il ricco membro del Sinedrio, che chiese a Pilato il corpo di Gesù per seppellirlo nel suo sepolcro, e Niccodemo, il fariseo toccato dalla parola e dai miracoli di Gesù con in mano la pinza e il martello, usati per schiodare il Salvatore dalla croce. Accanto è presente San Giovanni evangelista, che mostra la corona di spine. In basso è dipinta la Maddalena, che accarezza i piedi di Gesù e, leggermente discosto, è raffigurato un gruppo di due donne e una giovanetta. La scena è totalmente incentrata sulle figure di Gesù e della madre, china sul corpo del figlio morto, a cui amorevolmente regge il capo. In questa composizione sembra che l’artista si sia ispirato alla pittura di Giotto, come farebbe pensare la posizione china e di spalle di alcune figure. Costituisce una testimonianza di qualità elevata; delicata e luminosa è la tonalità dei colori pastello tipica caratteristica della pittura quattrocentesca lombarda, come pure le pieghe degli abiti delle figure, che compongono la scena.
Sul lato sinistro della navata, si aprono le tre cappelle che per prime furono costruite nel 1444, vivente ancora San Bernardino da Siena. Presentano richiami gotici con archi a sesto acuto e volte dipinte, di cui sono istoriati soltanto i costoloni delle prime due.
La prima cappella a sinistra è priva di altare. La volta è a costoloni piatti, su cui sono riprodotti degli angeli oranti racchiusi in graziose edicole e sulla parete di fondo è dipinto Cristo deposto dalla croce. I frammenti rimasti sono in pessime condizioni, perché, quando la chiesa fu ridotta a cascina, la cappella fu utilizzata come locale per la produzione di formaggi, per cui le pareti furono totalmente annerite dal fumo.
La seconda cappella è decorata con motivi floreali e figure di vescovi racchiusi in tondi, mentre sulla facciata si notano a stento i resti di affreschi non più leggibili.
Nella terza cappella è posto sul lato destro un altare ligneo di stile barocco, che probabilmente doveva essere quello del presbiterio, quando la liturgia, prima del Concilio Vaticano II, prevedeva che il sacerdote celebrasse con le spalle rivolte ai fedeli. Sulla parete di fronte c’è un affresco molto deteriorato, nel quale a stento si riesce a intuire che si tratta di San Francesco inginocchiato nell’atto di ricevere le stigmate, un richiamo pittorico frequente nelle chiese francescane. La volta, come quelle delle altre, è a costoloni non dipinti, diversamente da quelli delle prime due, come già detto.
Lungo la navata a sinistra sul primo pilastro dell’arco è raffigurato il beato Tommaso Caccia con la scritta: THOMASIUS DE CAGNOLIS PINXIT A.D. […], ma la data non è più leggibile. Il beato tiene in mano un libro aperto con la scritta: BEATUS THOMAS DE CACIIS.
Sul secondo pilastro, sempre a sinistra, un affresco raffigura due personaggi, identificati mediante le scritte poste sulle loro teste: a sinistra SANCTUS ANTONIUS DE PADUA e a destra BEATUS FRATER ALBERTUS DE SARTHIANO. Sulla cornice del dipinto verso sinistra riporta la scritta: JOHES ANTONIUS DE MERLIS PINXIT e, leggermente più in basso, a sinistra la data: 1474. La produzione del pittore novarese Merli si caratterizza per la naturale disposizione dei personaggi, che si distinguono da quelli piatti e in prevalenza grafici di altri pittori a lui contemporanei.
Sul terzo pilastro sono raffigurati il beato Michele da Milano e la committente, che inginocchiata ai suoi piedi, prega con le mani giunte. Si tratta di una donna di condizioni modeste, forse di una terziaria per l’abito scuro che indossa e per il velo bianco sulla testa. Sulla cornice appare la scritta: BEATUS MICHAEL DE MEDIOLANO. Il dipinto è un ex voto per l’ottenuta guarigione, come suggerisce la scritta: QUESTA DONA E LIBERATE DEL FLUSSO PER LI MERITI DEL B.M.
L’iconografia descritta testimonia la venerazione che i Novaresi nutrivano verso i francescani.
L’ampia zona del presbiterio è introdotta da un grande arco trionfale, diviso dalla navata da un tramezzo con affreschi del 1400, assai interessanti, anche se deteriorati in molte parti, specialmente intorno alla curva dell’arco. La parte centrale invece fu abbattuta e attraverso la sua apertura è visibile in bella mostra il maestoso affresco della Crocifissione, che occupa la parete di fondo dell’abside, risalente poco oltre la metà del XV secolo ad opera di un artista lombardo. La volta dei due ambienti, presbiterio e coro, è a crociera con i costoloni dipinti come corone di alloro. Le vele della volta del presbiterio sono impreziosite da stelle dorate, che rappresentano il cielo. In ciascuna vela sono dipinti i simboli dei quattro evangelisti, che formano il tetramorfo che simboleggia la verità della Crocifissione di cui gli apostoli furono testimoni, mentre nel punto d’incontro dei costoloni è riprodotto un sole radiante. Sulla parete dell’abside, a destra, è ricavata una piccola nicchia, destinata a tabernacolo, intorno alla quale volano angeli adoranti.
Il presbiterio riceve la luce dalle ampie finestre rettangolari, che si aprono sui muri laterali.
Sui due piloni laterali, sono raffigurati due cavalieri, a sinistra San Nazzaro e a destra San Celso, i martiri cristiani cui è dedicata la chiesa.
La scena della Crocifissione, che i frati minori Osservanti fecero affrescare verso la fine del XV secolo, colpisce il visitatore sin dal momento in cui entra in chiesa quasi ad ammonirlo. E’ grandiosa ed effonde un’atmosfera di pietà e di devozione per il culto della croce, che sin dall’inizio caratterizzò il movimento francescano sulla scia del suo Santo Fondatore, come ha evidenziato lo stesso artista ponendo ai piedi della croce, sul lato destro, tre figure di santi appartenenti all’Ordine: San Francesco, Sant’Antonio e San Bernardino da Siena col suo inseparabile trigramma. Al centro è la figura di Cristo sulla croce, che risalta sul fondo scuro. Ha le braccia aperte sulla croce, che sembrano voler stringere l’umanità che ha salvata col suo sacrificio. Schiere di angeli volano intorno e raccolgono in coppe il sangue che sgorga dalle ferite del corpo del Signore con le vesti svolazzanti, secondo lo stile tardo gotico, cui l’autore si ispira. Ai piedi della croce è raffigurata la Maddalena. Verso il basso l’opera è totalmente cancellata, per cui non è possibile una lettura.
La scena nel suo complesso è emblematica e suscita una profonda e intensa commozione. Gesù sembra rassegnato sulla croce, perché già conosceva la sua sorte e il modo di come sarebbe terminata la sua vita di uomo secondo la volontà del Padre, mentre gli angeli partecipano, piangendo, al dramma che si è consumato. Il volto del Signore è segnato da una espressione di dolore, eppure dall’alto della croce è lui che domina con le sue sofferenze tutta la scena, mentre altri personaggi prendono parte emotivamente a quanto è accaduto. E’ una rappresentazione drammatica e grandiosa e, nello stesso tempo, toccante, che riesce a trasmettere all’osservatore uno stato di immenso dolore e di sentita partecipazione.
L’opera è attribuita all’arte di Bonifacio Bembo, un pittore attivo nella seconda metà del XV secolo, che si rifece ad espressioni tardogotiche, anche se aperte ad altri influssi pittorici.
All’esterno, la chiesa presenta un’ampia facciata con la copertura cuneiforme a due spioventi, decorata con pilastri verticali ripetuti ritmicamente. La porta d’ingresso è sormontata da un arco, che forma una lunetta semicircolare, ai cui lati erano dipinti due affreschi, che l’incuria del tempo e degli uomini ha cancellato. Si tramanda che l’affresco sul lato destro, datato 1445, rappresentasse San Bernardino da Siena, e quello di sinistra Sant’Odilone. Due finestre, strette e lunghe, terminanti ad archi a tutto sesto a doppia chiera, di cui quella esterna incassata, si dipartono in modo leggermente asimmetrico rispetto agli stipiti della porta. In alto, al centro, si apre un oculo, che con le finestre dà luce all’interno della navata. Lungo la linea degli spioventi, decorati con archetti incrociati in cotto, sono inseriti i beccatelli che sostengono i capi delle travi del tetto. La facciata, piuttosto larga, è comprensiva dei muri delle cappelle laterali.
Un piccolo campanile a vela con una sola campana si eleva leggermente dal tetto, molto modesto, come è nella tradizione francescana.
A destra della chiesa, recintato da una inferriata, si trova un piccolo chiostro, al cui interno è situata la statua in bronzo di Santa Chiara, opera dello scultore novarese Tandardino.
Dal questo chiostro, dopo aver attraversato un porticato con archi a sesto acuto, si passa al secondo chiostro, più vasto dell’altro, con grosse colonne su tre lati, mentre sul lato, attiguo alla chiesa, le grosse colonne sono sostituite da esili colonnine in pietra, ingentilite da capitelli. Al di sopra del porticato si aprono le finestre, racchiuse in cornici in cotto, che danno luce al presbiterio.
Sulla porta, che immette in un altro chiostro, c’è un affresco rovinato e poco leggibile, che forse rappresenta San Francesco nel momento in cui riceve le stigmate, un richiamo ricorrente negli edifici francescani.
Da qui si passa nel refettorio, un ambiente abbastanza vasto, che fa supporre uno folto numero di frati presenti nel convento. Ha volte a crociera e archi a sesto acuto, sorretti da pilastri coperti da coppi. Le pareti sono bianche e intorno ad esse sono disposti sedili a panca con schienali in legno. L’ambiente, come si addice alla tradizione francescana, è modesto e severo. Sulla parete, che separa il refettorio dalla cucina, è parzialmente leggibile un affresco, che in origine si estendeva probabilmente sull’intera lunghezza del muro, che sembra riprodurre la scena dell’ultima cena o delle Nozze di Cana, come suggeriscono le tre figure con le teste aureolate, assai rovinato, per l’apertura di una porta nella parte centrale del muro.
L’atmosfera, che si respira, sembra venire da un passato lontano, quando i rapporti tra gli uomini erano ingenui e riservati, quando la modestia era innata e la leziosità bandita.
Il complesso monastico di San Nazzaro della Costa: il tramezzo affrescato
I tramezzi costituivano una caratteristica delle chiese francescane costruite tra il XV e la metà del XVI secolo. Queste pareti-diaframma erano erette fino al soffitto, davanti al presbiterio, in modo da separare la chiesa dei fedeli o secolare da quella conventuale. In origine erano spoglie e disadorne, mancando ai francescani, che erano poveri e vivevano soltanto di elemosine, le risorse economiche per abbellirle. In seguito, allorché l’ordine cominciò a ricevere legati e donazioni, le pareti furono affrescate. Le immagini di questi cicli iconografici di grande sviluppo furono utilizzate quali strumenti di catechesi, per trasmettere visivamente episodi della vita e della passione di Gesù, dall’annunciazione fino alla morte e all’ascensione al cielo e, in qualche caso anche scene bibliche.
Tra il XIV e il XV secolo si contavano una trentina di tramezzi affrescati nella pianura padana. Ne sono rimasti meno di dieci e non tutti integri.
Tra i tramezzi dipinti nelle chiese del territorio padano, a partire dalla fine del XV secolo, oltre a quello, molto deteriorato, di San Nazzaro della Costa, vanno ricordati quelli di Santa Maria delle Grazie di Varallo Sesia, opera grandiosa di Gaudenzio Ferrari, di San Bernardino d’Ivrea, di Erba, della Val Camonica, di Caravaggio. Altri sono andati completamente distrutti, come il tramezzo di Sant’Angelo di Milano e quello di San Giacomo di Pavia.
Gli affreschi di San Nazzaro della Costa risalgono al periodo compreso tra il 1470 e il 1530, dopo che nel complesso monastico si insediarono i frati Minori Osservanti, in sostituzione delle Clarisse, che furono trasferite in città, nel monastero di San Domenico, per motivi di sicurezza.
Le scene narrano episodi della vita di Gesù dall’Annunciazione alla crocifissione sul Golgota, divisi in capitoli o quadri in numero prestabilito, forse una ventina.
I restauri eseguiti a San Nazzaro, alla fine del secolo scorso, hanno recuperato quanto ancora restava del ciclo pittorico del tramezzo, un’opera di raffinata qualità. Le scene con gli episodi della vita di Gesù erano disposte su cinque registri, di cui l’ultimo è andato completamente distrutto.
Mancano del tutto i quadri che affrescavano la parte centrale del tramezzo, dove era dipinta Crocifissione, analoga a quella raffigurata oggi sulla parete absidale.
Una studiosa del gotico-lombardo sostiene che San Nazzaro della Costa fu cronologicamente uno dei primi esempi di tramezzi affrescati nel territorio padano occidentale.
In origine i quadri del tramezzo dovevano essere una ventina, compresa l’Annunciazione dipinta nel triangolo sotto i due spioventi del tetto, e la crocifissione, che occupava lo spazio di almeno quattro capitoli. I restanti quadri erano disposti intorno alla Crocifissione come una cornice.
Gli ordini mendicanti, che avevano abbandonato gli insediamenti rurali e la solitudine del monastero, si stabilirono nelle città, dove potevano svolgere meglio i servizi apostolici e rivolgersi per la questua ad una platea più vasta. Volevano dimostrare un diverso tipo di rapporto con i fedeli e un nuovo modo di svolgere la loro missione, vivendo accanto al popolo. Col loro esempio di vita seppero reclutare i giovani maggiormente preparati per avviarli alla missione di predicatori itineranti. Offrirono una diversa testimonianza di vita, ispirata ai principi evangelici, tra la gente, senza essere chiusi nella solitudine di una cella. Inoltre, cominciarono ad essere destinatari di donazioni che consentirono ad essi di abbellire le loro chiese, all’inizio disadorne e modeste.
L’arrivo a Novara dei frati minori è attestato dal 1233 ed è collegato al legame con Sant’Antonio da Padova, presente per breve tempo nella città, dove per il suo intervento furono costruiti due conventi, quello di San Luca fuori le mura, adiacente al castello nella zona meridionale di Novara e quello di Sant’Antonio nel borgo San Gaudenzio. Il convento di San Nazzaro invece attraversò un periodo in cui le sue vicende si intrecciarono con quelle delle monache di San Pietro di Cavaglio Inferiore, che da Cluniacensi divennero Clarisse a seguito della riforma del convento e si insediarono a San Nazzaro della Costa, dove iniziarono a far restaurare la chiesa e successivamente il convento. In seguito, la struttura passò ai minori Osservanti sotto la guida di San Bernardino da Siena, che continuò nei lavori di restauro dell’intero complesso monastico, che terminarono nel 1444, anno della morte del Santo di Siena.
Sulla base di fonti archivistiche locali è stato accertato, attraverso alcune pergamene, che sin dal 931 a Novara esisteva una chiesa dedicata a San Nazzaro, in un sito non riferibile a quello della chiesa di San Nazzaro della Costa, perché si trovava nel borgo San Gaudenzio, a testimonianza del culto verso il Santo martire.
Una pergamena del 1076 tratta la cessione fatta dai coniugi Oddemario ed Elisanna della quarta parte del giuspatronato che i due vantavano sulla chiesa esistente nella regione dell’Agogna e di un manso, a favore del monastero di San Salvatore presso Pavia, fondato dall’imperatrice Adelaide, vedova di Lotario II, che in seconde nozze sposò l’imperatore Ottone I, dalla cui unione nacque Ottone II, anche lui imperatore.
Le vicende di questi personaggi interessano da vicino la storia della diocesi di Novara, perché essi protessero la chiesa novarese contro i soprusi di Berengario II e di sua moglie Villa, che spodestarono dalla Riviera di Orta i vescovi novaresi.
Un’altra pergamena del 1124 attesta la presenza a San Nazzaro della Costa di chierici, che risiedevano in quattro modesti edifici, disposti a quadrato intorno alla chiesa. Al centro delle costruzioni, recintate da mura, si trovavano il cortile, il pozzo e l’orto. I cappellani abbandonarono la sede intorno al XIII secolo, perché era isolata e non garantiva alcuna sicurezza.
Nel 1256 la chiesa di San Nazzaro fu ceduta alle Clarisse di San Pietro di Cavaglietto, che sette anni dopo furono trasferite in città presso il convento di San Domenico, ma continuarono a restare per circa due secoli proprietarie della chiesa.
Gli Osservanti, dopo il loro insediamento nel complesso, apportarono sostanziali modifiche secondo il modulo francescano e ampliarono il convento, la cui fisionomia architettonica è più o meno quello pervenuta fino a noi.
Successivamente, procedettero all’abbellimento della chiesa, decorandola con affreschi, che costituiscono un documento artistico molto importante, anche in rapporto all’epoca in cui furono eseguiti.
Alcuni affreschi del tramezzo di San Nazzaro della Costa sono attribuiti a Cristoforo Moretti, un pittore di origine cremonese, vissuto nella seconda metà del XV secolo. Legato alla tradizione tardogotico-lombarda, si distinse per un gusto più sobrio e ingenuo rispetto agli artisti del suo tempo. Fu presente a Novara perché, avendo diffamato la duchessa Bianca Maria, fu bandito da Milano.
In particolare, il racconto, che si snoda sul tramezzo di San Nazzaro, inizia dalla sommità della chiesa, nel triangolo formato dagli spioventi del tetto e raffigura la scena dell’Annunciazione. Essa assume grande importanza, perché rappresenta l’inizio della salvezza dell’umanità. Le figure della Vergine e dell’Arcangelo Gabriele sono in posizione simmetrica, l’una di fronte all’altra, mentre sullo sfondo si profila una struttura merlata con bifore in archi ogivali. Dietro le mura si intravede un giardino, che simboleggia la verginità di Maria. L’Arcamgelo porta sul capo una coroncina di fiori, motivo che si ritrova anche in altri quadri. I modesti oggetti disposti nell’ambiente sono inquadrati in una veduta magistrale, che dà un senso profondo di rappresentazione grafica quasi illusionistica.
Seguono le sei scene del secondo registro già ricordate: la Visitazione, la Natività, la Circoncisione, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione di Gesù al Tempio e la Fuga in Egitto, mentre ai lati sono dipinte due figure forse di profeti. In particolare, nel quadro della Circoncisione i paesaggi sono immaginari, diversamente da quelli affrescati in altre scene del tramezzo.
Nel terzo registro sono parzialmente leggibili due quadri a sinistra, la Strage degli Innocenti e Gesù tra i Dottori, e due a destra, l’Ingresso di Gesù a Gerusalemme e l’Ultima Cena. In questo quadro gli apostoli sono seduti in cerchio intorno ad un tavolo. Sulla bianca tovaglia è dipinta una natura morta con l‘agnello sacrificale posto su un vassoio, accanto al quale è disegnato un coltello minuziosamente rifinito.
Chiude il racconto degli affreschi riportati alla luce, anche questi parziali, in quarto registro la scena della Lavanda dei piedi a sinistra, e, a destra, quella di Gesù davanti a Erode o a Pilato, ma non si riesce a distinguere chi dei due. Tali scene, oltre ad essere diffusamente deteriorate, presentano vaste screpolature per la caduta degli intonaci.
L’ultimo registro fu completamente distrutto per far posto sui piloni dell’arcone del presbiterio alla raffigurazione dei due santi martiri, ai quali è dedicata la chiesa: San Nazzaro a sinistra e San Celso a destra.
I tramezzi, oltre a costituire un abbellimento ornamentale della chiesa, mostravano attraverso le immagini episodi della vita di Gesù o della Bibbia e accendevano la fantasia dei fedeli, come era accaduto, agli inizi del secondo millennio, con i bassorilievi scolpiti sulle facciate delle cattedrali, bianche per il marmo o la pietra.
Le scene rappresentano brani delle scritture, interpretati dall’artista secondo la propria sensibilità e le proprie conoscenze, per ricreare un modo di pregare meditativo, legato alla tradizione francescana.