IL CONSIGLIERE SPIRITUALE DI CADORNA

Il padre barnabita Giovanni Semeria, cappellano presso il Comando supremo, fu un acuto osservatore delle vicende belliche italiane durante la prima guerra mondiale: nelle sue Memorie, oltre a prendere le difese del “suo” generale, tratteggia con  penna felice e pungente eventi, personaggi e situazioni vissute in prima persona durante il conflitto.

semeria-okMemorie di guerra, del padre barnabita Giovanni Semeria (1867-1931), cappellano militare presso il Comando Supremo italiano, è il titolo che si aggiunge questo mese alla collana “Grande Guerra” in formato e-book, lanciata da Storia in Network in collaborazione con Amazon. Come nelle uscite precedenti lo spirito dell’iniziativa resta invariato: riportare all’attenzione dei lettori, in occasione del centenario della Prima guerra mondiale, volumi di grande pregio ma ingiustamente dimenticati dai grandi circuiti editoriali. Saggi, memoriali e romanzi per rivivere le vicende belliche e i retroscena del conflitto attraverso gli occhi di chi ne fu testimone e talvolta protagonista.
La parte più interessante di queste
Memorie è quella dedicata al comandante in capo del nostro esercito, Luigi Cadorna, con particolare riguardo alle vicende della rotta di Caporetto nel 1917. Sono pagine estremamente stimolanti perché non riportano le impressioni di un semplice testimone oculare, ma di un amico e consigliere spirituale di Cadorna. Tanto amico e tanto consigliere che, dopo Caporetto, alcuni sollevarono il sospetto che gli errori e i tentennamenti del Capo di Stato maggiore fossero dovuti proprio all’eccessiva influenza di Semeria, il cui parere si sarebbe esteso anche alle cose militari. Fino ad azzardare il paragone con un altro celebre “consigliere spirituale”: Rasputin.
Ma è tutto il personaggio Semeria a rendere queste pagine una lettura piacevole e appassionante ancora oggi. Perché Semeria ha una penna felice e pungente, capace di pennellare eventi e personaggi con pochi tratti efficaci. Su Caporetto ha le idee chiare: se non ci fosse stato il cedimento russo a seguito del colpo di Stato bolscevico gli Imperi centrali non avrebbero potuto distrarre così tante forze sul nostro fronte. Quanto invece ai “siluramenti” dei generali messi in atto da Cadorna, e ai quali si imputò uno dei motivi della rotta, Semeria spiega che a giovarsene furono proprio i comandanti che portarono alla vittoria, cioè «quelli a cui i metodi un po’ draconiani di ringiovanimento dell’esercito adottati dal Cadorna avevano accelerato provvidamente la carriera». E poi il ritratto di D’Annunzio, trasformato in un uomo nuovo (e migliore, secondo Semeria) dagli eventi bellici: «Adesso la [sua] morale eroica, la morale della forza, o piuttosto della virtus (nel maschio senso latino) soverchia la morale del piacere». E ancora Fiume, dove Semeria si reca per farsi un’idea sull’italianità o meno della città. E poi le tensioni sociali nelle terre irredente, dove raccoglie il lamento degli italiani accusati di collaborazionismo. Insomma, un ventaglio di posizioni più o meno condivisibili, ma sempre molto nette e tranchant. Che contribuirono alla straordinaria popolarità del padre barnabita tra soldati e ufficiali. E al successo di queste sue Memorie.
L’edizione proposta, ripresa dall’edizione pubblicata da Ambrosiana Editoriale negli anni’ 20, è stata integrata da una serie di note che consentono al lettore di seguire più agevolmente i riferimenti a episodi e personaggi. Il volume può essere acquistato cliccando sull’immagine di copertina qui sopra.
In esclusiva per i nostri lettori offriamo un estratto in cui Semeria descrive la figura di Cadorna nelle fasi iniziali della guerra, il suo atteggiamento nei confronti dei regolamenti militari e un gustoso episodio legato al “battesimo del fuoco” dell’autore.

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Luigi Cadorna

Luigi Cadorna

Il momento della nostra entrata in guerra
Luigi Cadorna non senza riluttanza e certo senza aver brigato né punto né poco per la sua nomina, entrò nell’alto seggio militare, reso vacante con la morte del Pollio, pochi giorni prima dello scoppio della guerra europea. Tutta la sua tradizione e la sua formazione era antiaustriaca e poco tedesca. Suo padre aveva combattuto contro l’Austria nel 1866, e proprio in quel settore che doveva poi essere il settore della nostra 3a Armata. In quella scuola il figlio era cresciuto. Per suo conto guardava a Napoleone come a modello, non a Moltke. Non oserei dire che fosse francofilo, perché era soprattutto ed esclusivamente italofilo. Quand’ebbe dal Governo il compito di sopraintendere, come Generale d’Armata, alla nostra difesa occidentale, fece seriamente il dovere suo. Scrisse allora lettere che furono poco opportunamente rievocate sui giornali alla fine del 1919 per provare non si sa che cosa… per mettere in mala luce presso la Francia il Cadorna… quando quelle lettere provano solo come il Cadorna intendesse rigidamente e seriamente il suo dovere di militare estraneo alla politica. La patria gli aveva affidato uno dei suoi fianchi, ed egli reclamava a tutt’uomo la difesa di quel fianco.
Non appena scoppiata la guerra nel Luglio 1914, il Cadorna null’altro sapendo se non che eravamo alleati degl’Imperi centrali, prima ancor d’aver ordini dal Governo e una certa visita d’un Generale tedesco, approntò cannoni da spedire alle Alpi occidentali. Al Generale tedesco che quasi gli dava ordini, rispose che ordini non riceveva se non dal suo Governo, di cui non gli erano ancora note le intenzioni. Quando il Gabinetto Salandra, con un misto di abilità e di ingenuità, dichiarò la neutralità italiana (assurda e impossibile, dati i nostri precedenti ben diversi dagli spagnuoli) il Cadorna vide l’assurdità politica dell’atto (a meno di intenderlo come situazione provvisoria). Intuì fatale la guerra con gli Imperi di cui disertavamo, o, via abbandonavamo la causa. E i cannoni avviati verso l’ovest non solo richiamò, ma spinse subito alle Alpi orientali. Il pericolo ormai era da quella parte. Non tremò e non pianse. Non deprecò la guerra, ma non spinse e non affrettò; questo bisogna ritenere ben fermo. Non spinse, perché scrupolosamente costituzionale, sapeva che la guerra la decidono i Governi e la fanno, l’eseguiscono i soldati. E non affrettò… anzi… perché nessuno vide meglio di lui la nostra impreparazione. Su questo punto ci sono stati dei dissensi: uomini di Governo hanno giurato in pubblico, prima e poi, che in quell’Agosto 1914 eravamo militarmente pronti. Essi avevano interesse a dir ciò, perché è molto grave per uomini di governo aver lasciato che la guerra (prevista come era fin dal 1913) cogliesse impreparato il loro paese. Cadorna e i suoi ufficiali del Comando Supremo hanno sempre parlato con molta semplicità delle deficienze enormi a cui avevano dovuto riparare un po’ alla meglio nei nove mesi della neutralità. Perciò essi, i componenti lo Stato Maggiore, furono per prendere il maggior tempo possibile. La furia di entrare fu del Sonnino, a cui pareva nei primi mesi del 1915 che la Russia camminasse a grandi giornate vittoriosamente su Vienna. A suo avviso l’Italia era alla vigilia d’un terribile isolamento, tra gli Imperi sconfitti e frementi contro di noi per il nostro tradimento (come essi lo chiamavano) e i Franco-Russo-Inglesi vittoriosi, già dimentichi del servizio reso loro con la nostra neutralità. Forte di questa paura il Sonnino spingeva alla guerra: conscio della nostra impreparazione, cercava di tirare in lungo, di guadagnar tempo il Cadorna. Un Promemoria Vergato dal Bencivenga nel Gennaio o Febbraio del 1915 (me ne parlò lui ripetutamente) è là a documentare questa non strana condizione di cose. Ma quando il 25 aprile fu annunziata la caduta di Przemysl, ultimo baluardo dell’Austria di fronte alla Russia invadente, nessun Promemoria cadorniano poté trattenere il Sonnino dal far quello che fece, dallo stipulare ciò che stipulò. Le lacune di quella stipulazione, ormai cento volte rilevate e rimproverate al Ministro degli Affari Esteri, nascono tutte e solo dalla falsa valutazione della situazione, in cui cadde il Sonnino. Parve a lui che gli alleati ormai vittoriosi ci facessero un gran favore ad accoglierci; in realtà noi, alla vigilia d’una defezione lenta ma inesorabile della Russia, rendevamo agli alleati un immenso servizio permettendo loro di continuare la difensiva.

Il principe sì, il poeta no
In tutti i campi si riproduce quel dualismo che Richard Wagner ha cantato così bene a proposito dell’arte; il dualismo della tradizione e dell’individualità, della pedanteria e della genialità. I mediocri vivono di pura e non ravvivata, dunque morta tradizione. Il loro assoluto è: si è fatto sempre così. I grandi vivono non di mania innovatrice, ma di vita che è novità, progresso, rinnovamento. Lo stesso dualismo potei riscontrare al principio della guerra nelle sfere militari: dove altri molti rappresentavano il venerabile, l’intangibile Regolamento, palladio dei mediocri, Luigi Cadorna la freschezza e la genialità.
Ne avemmo una prima vivace manifestazione a proposito di Gabriele D’Annunzio. Un bel giorno – sempre a principio della guerra – al poeta, che era, credo, Tenente di Cavalleria, nacque il ghiribizzo di fregiarsi il braccio dell’aquila d’oro, segno degli aviatori. In una bella lettera al Generale Cadorna la domanda era corredata dei suoi bravi motivi, e cioè i meriti aviatori ch’egli poteva avere come poeta e ora anche come tecnico. Sulla qual lettera, esibita a noi tutti a tavola per la sua singolarità, si accese subito una piccola discussione, avviata da un Generale su questo binario: qual preciso motivo regolamentare poteva trovarsi per concedere al D’Annunzio l’ambito distintivo? Perché, accentuava riscaldandosi il difensore del Regolamento, i Regolamenti militari vanno rispettati e da tutti; la loro bellezza è proprio qui, ch’essi sono e rimangono gli stessi per il contadino e per il principe. Alla quale tendenziosa sentenza scoppiò la mal trattenuta impazienza del Generale, scoppiò accompagnata da un pugno sul tavolo e da questo grido: «Per il principe sì, per il poeta no». Solo o quasi, nella venerabile congrega, il Cadorna aveva intuito che Gabriele D’Annunzio non si può, non si deve trattare, non vuol essere trattato alla stregua comune. Egli è ormai ed è riconosciuto da tutti per un irregolare o estraregolamentare, per un genio.
Il Ministero della Guerra rappresentò in quei primordi sovente il tenace attaccamento alle abitudini, e il Cadorna ebbe frasi quasi di rivoluzionario… Arrivò a dire un giorno: «Bisognerebbe bruciarli tutti i Regolamenti». In verità più di una volta le formalità regolamentari rappresentavano una serie di freni alla rapidità fatale e benefica della guerra. Inconsci d’una guerra che si svolgeva per loro fortuna e nostra disgrazia, a qualche migliaio di chilometri lontano da loro, gli Scribi e Farisei di Via XX Settembre avrebbero preteso che, con qualche leggera variante, si seguissero anche per le promozioni e gli avanzamenti le forme procedurali della pace: tra l’altro, il Generale Cadorna avrebbe dovuto intervenire a Roma nelle apposite Commissioni, lasciando i destini della guerra in mano dei Caporali. Sotto un certo rispetto la lotta tra Cadorna e il Governo centrale fu lotta tra la genialità e la pedanteria; sotto questo rispetto onora altamente il Cadorna.
Della sua genialità anche militare, erano sintomo e prova le sue simpatie. I mediocri amano i piccoli, i geniali amano i grandi Maestri. Cadorna in arte militare era per Napoleone. Un giorno a tavola, i giovani ufficiali cresciuti tutti, chi più chi meno, in una atmosfera di gran rispetto se non di simpatia per la scienza tedesca, parlavano del libro del Clausevitz sulla guerra. A chi tacciava il libro di oscurità – difetto comune alle produzioni anche veramente geniali dello spirito tedesco – altri rispondeva che la fatica del leggerlo era ampiamente compensata dal profitto, riassumendo il libro tutta la dottrina napoleonica sulla guerra. «Allora, interloquì sorridendo il Cadorna, (non ignaro di lingua tedesca) preferisco leggermi addirittura Napoleone».
In ogni problema anche generale, vorrei dire filosofico, ho dovuto ammirare la prontezza e luminosità del suo pensiero. Trovava la formula semplice e conclusiva. Un giorno, prima della guerra, facendo uno dei suoi soliti viaggi con la diletta Carla e la gentile Signora, giunse all’Aja dinanzi a uno strano e nuovo palazzo. Ne chiese ragione a un che passava. Gli fu risposto che era il Palazzo della Pace. Sbottò in una risata omerica… tanto al lucido suo spirito appariva chiara l’utopia del pacifismo!
In politica citava spesso Machiavelli distinguendo, come il Manzoni, dal mariuolo il pensatore. In arte gli piacevano i sommi: Dante e Manzoni. La forma delle sue lettere aveva del classico. Trovava certe sue frasi scultorie e si rallegrava di averle trovate… frasi di non indubbia violenza. Ho impresso quanto scrisse al Salandra a Roma nei primi mesi, e poi ancora, per le colossali spese della guerra: «Ricordi V. E. che nessun popolo ebbe mai a rimpiangere il danaro speso per difendere sé stesso, più d’uno ebbe a deplorare di non aver speso abbastanza a tempo». E al Ministro che ritardava la completa riabilitazione del Pecori-Giraldi più volte a voce promessa formalmente: «Ricordi V. E. che, mentre lo scorso maggio Governo e Parlamento tremavano imbelli di fronte al nemico, quest’uomo trovava nella sua fede coraggiosa la forza per arginare l’invasione straniera».

Gli spettri del passato. Propositi e anche fobie
Agli uomini superficiali la storia non insegna mai nulla – o perché non la sanno o perché non sanno applicarla. Luigi Cadorna aveva più che studiate, vissute tre nostre campagne che si riassumono nei nomi di Custoza, di Adua e di Tripoli. Non parliamo per ora che delle prime due. Delle quali la prima lo aveva colto giovinetto sì, ma già aperto a impressioni e riflessioni specie militari; e la seconda nella piena maturità della sua carriera. Date tristissime entrambe, che ci tolsero anche quel poco credito militare di cui godeva il vecchio Piemonte, di cui, grazie al vecchio Piemonte, aveva goduto a Solferino quella che potevasi già chiamare la giovane, la nuova Italia: date tristissime, perché liquidarono la fiducia militare dell’Italia in sé stessa, almeno la liquidarono nel cuore di molti. Poiché la nostra guerra del 1915 per la precisa impostazione datale dal Governo allora e nel periodo di preparazione si offriva come la continuazione della guerra del 1866 e compimento del programma allora troncato a metà o ai tre quarti, era naturale che il Cadorna traesse di là i suoi fondamentali propositi. Ora a Custoza il facile segreto della nostra strana disfatta fu oltre il resto, ma di più di ogni altra causa, la pluralità e la conseguente discordia del Comando. L’Italia nata allora dimenticava quel tenue e solidissimo principio greco, senza cui nessun organismo stabile e molto meno un organismo militare può aver vita prospera e duratura: «non è buona cosa il comando di molti». Non solo Re Vittorio, grazie alla sua indole esuberante, volle fare una sua politica militare personale, ma i poteri del Capo di Stato Maggiore furono ahimè! divisi tra il Lamarmora e il Cialdini. E fra i tre litiganti godette l’Austriaco, soffrì il Paese!
Concetto semplice e fondamentale del Re Vittorio Emanuele III e di Cadorna, iniziando la Campagna 1915-18, fu che quello spettacolo non dovesse più a nessun costo riprodursi. E il Re bastò col suo galantomismo perché Luigi Cadorna si sentisse ben più sicuro di Alfonso Lamarmora. Ma Luigi Cadorna dovette vegliare perché la unità del Comando salvaguardata dal Re non fosse lesa dai Generali. Adua era là per dire dove conducono le disubbidienze anche magnanime dei subalterni e la debolezza anche palliata di liberalismo dei Capi Supremi: Adua, l’onta militare suprema d’ Italia. Ciò spiega quella specie di gelosia con cui il Generale Cadorna vegliò a dominare solo la situazione militare; solo, non nel senso stupido e superbo del non chiedere o anche non accettare consigli, ma nel senso di non dividere la sua responsabilità e nel pretendere da ciascuno dei subalterni suoi l’energia di comando e la docilità di obbedienza propria del suo grado.
La storia futura dovrà convenire che questo giustissimo concetto della unità del Comando non solo fu difeso ma assicurato efficacemente dal Cadorna, cosi efficacemente che ne durò l’efficacia anche nei suoi successori. L’infelice tentativo di dare tre teste al Comando Supremo dopo Caporetto, abortì subito: e ritiratosi il Generale Giardino, il Generale Diaz esercitò i pieni poteri che aveva avuto il Cadorna. E fu questa una delle ragioni precipue della nostra vittoria.
Anche qui Cadorna si basava su Nicolò Machiavelli. Non ne ho qui le precise parole, quali il Generale citava spessissimo; ma il loro senso è che l’Italia moderna, post-romana, purtroppo non ha più conosciuto le fortunate ebbrezze della vittoria militare, e ciò non perché sia mancata ai suoi militi la virtù, ma perché da noi quelli che sanno non vogliono ubbidire e tutti credono di sapere. «Credono di sapere», sottolineava il Generale, e sorrideva lieto di quella frase così vera nella sostanza, scultoriamente sobria nella forma.

Giovanni Semeria

Giovanni Semeria

La prima bomba
Non voglio fare il Miles gloriosus. Non ho partecipato a nessuna battaglia nel vero senso della parola. Per i veri combattenti io sono stato un imboscato. Già eravamo tutti imboscati relativamente. Un proverbio francese dice: On est toujours le liberal de quelqu’un – si può dire che in guerra on était l’embusqué de quelqu’un – per il fante, che sparava in trincea, era imboscato l’artigliere che stava in batteria. Per l’artigliere era imboscato l’aviatore, che pure rischiava la pelle anche sollevandosi da terra a cielo sereno e sicuro. A guerra finita tutti sono eroi. Le scalfitture a poco a poco diventano ferite; i colpi di cannone sentiti alla distanza di qualche chilometro diventano palle scoppiate a qualche metro. Si comincia per inventare e si finisce per credere. E’ una auto-suggestione formidabile. Per ciò, in forza di questa legge psichica, i Mille di Garibaldi sono diventati 10.000, i 10.000 di Senofonte. E forse i 10.000 di Senofonte erano solo mille, i mille di Garibaldi. Io non voglio diventare vittima di questa auto-suggestione. Finché ho la testa a posto, narro qualcuno dei miei cattivi incontri. Niente di eroico. Gli appunti fugaci mostrano solo i pericoli che durante la guerra moderna sovrastano a tutti e da per tutto.
La prima bomba scoppiò a un centinaio di metri di distanza, mentre andavamo in cerca di una Sezione di aerostieri verso Planina. Erano le prime settimane della guerra. Grande la ingenuità topografica mia e del mio compagno, l’allora Tenente e poi Capitano Rinaldi, Dux viator, come lo battezzammo; che vorrebbe dire il Capitano girondolone. Era il fornitore dei Cappellani militari e dei preti soldati. Quando si pensa che fra gli uni e gli altri erano sotto le armi un 30 mila, si capirà che il fornire a tutti ostie e specialmente vino per le Messe non era facile impresa.
Quella mattina, bella, serena mattina di estate, partimmo presto da Udine su un camion diretti a una Sezione d’Aereostieri (Draken Ballon) che ci aspettava per la seconda volta. Già una prima visita era fallita per istrada. Stavolta Don Rinaldi si teneva sicuro del cammino. L’aveva studiato sulla carta. C’era come punto di riferimento una certa osteria di Venco. Fra quegli aereostieri c’era mezza nobiltà romana – bravi giovanotti noti a lui, e a me, tanto più fedeli alla Patria, quanto, per tradizione domestica ed individuale educazione, più fedeli a Dio. Fu una odissea. Oh la topografia! Quando i Tedeschi invasero – ahimè! – dopo Caporetto, Friuli e Veneto (in parte), accadde questo. Un gruppo di ufficiali fermò un auto nostro; al volante salì colla sua brava carta un sergente e girarono tre giorni senza chiedere mai nulla a nessuno, per piantare piccoli indicatori dappertutto. Avevano la carta e sapevano leggerla. Non facciamo confronti. La passione geografica manca al nostro italiano medio. Dopo due o tre anni di guerra, ufficiali del resto intelligenti non sapevano né il nome né la ubicazione dei villaggi in un raggio di otto o dieci chilometri. Girammo dunque quella mattina da Erode a Pilato chiedendo, provando, tornando sui nostri passi, e arrivammo alle 10,30 tra gli amici che ci aspettavano dalle sette. Erano ancora digiuni. Confessammo soldati ed ufficiali. Dissi Messa, parlai, ma intanto avevamo avuto il battesimo del fuoco.
Passando tra campi, dove sorgevano troppo visibili tende di nostri fanti, un rumore sinistro scosse me (e credo il mio compagno) da una contemplazione tra estetica e letargica nella quale mi ero immerso. Vedemmo poco lontano un fumo, polvere – levando gli occhi un aeroplano che si dileguava coll’andatura del malandrino che ha perpetrato un delitto. Realizzai allora la prima volta, che cosa volesse dire essere in zona di guerra. Realizzai il quotidie morimur dei nostri poveri e nobili soldati combattenti.