IL “DIARIO” IN TRINCEA DI MUSSOLINI
di Alessandro Frigerio -
Scritto tra il settembre 1915 e il febbraio 1917 – e pubblicato a puntate su “Il Popolo d’Italia” –, il Diario di guerra di Benito Mussolini è ancora oggi un’efficace e vivida testimonianza di ciò che rappresentò il primo conflitto mondiale per una parte dell’interventismo italiano. Oggetto di numerose ristampe durante il Ventennio, nel secondo dopoguerra il Diario fu a lungo trascurato dagli studiosi, che lo condannarono a una sorta di damnatio memoriae negandogli dignità documentale. Un vero peccato, perché già Antonio Gramsci aveva definito “interessanti” queste pagine mussoliniane, soprattutto per il loro taglio nazional-popolare. Non un pamphlet quindi, ma una testimonianza importante e tra le più intense della memorialistica di guerra italiana, sia per capacità descrittiva della vita quotidiana dei soldati sia per l’efficacia nel rendere la visione delle vicende belliche con gli occhi dell’interventismo rivoluzionario.
Mussolini prese parte al conflitto come soldato semplice alla non più tenera età di 32 anni, combattendo sui fronti dell’Isonzo, in Carnia e poi sul Carso, senza però trovarsi mai coinvolto nelle offensive più sanguinose. Nel corso di quell’anno e mezzo inviò quindici corrispondenze – pubblicate tra dicembre 1915 e gennaio 1916, quindi a maggio e luglio 1916, infine a febbraio 1917 – da cui traspare un’immagine dell’esercito italiano funzionale alla battaglia politico-giornalistica da lui avviata pochi mesi prima. E cioè quella di un popolo in armi inteso nella sua accezione più ampia: contadini, operai, impiegati e intellettuali fianco a fianco, per combattere gli Imperi Centrali ma con lo scopo finale di rigenerare la vecchia Italia giolittiana. Il tutto descritto con un’enfasi e un lirismo decisamente meno marcati – oseremmo dire anche con una certa sobrietà – rispetto a quanto avrebbe poi esibito come Duce del fascismo. Del resto, la prospettiva con cui accingersi oggi alla lettura di queste pagine dev’essere necessariamente quella pre-fascista: si possono anche individuare tra le righe i germi degli sviluppi successivi ma occorre tenere sempre presente che in quegli anni Mussolini era un interventista di sinistra, visto perciò con un certo sospetto negli ambienti militari. Non a caso fu rifiutato al corso di allievo ufficiale nel novembre 1915, nonostante disponesse di tutte le qualifiche necessarie. Tenuto sotto osservazione dallo stato maggiore, oggetto di polemiche da parte della stampa neutralista – che lo definiva un imboscato o poco più –, Mussolini era però ammirato dai suoi commilitoni per il suo patriottismo schietto e popolare. Un consenso messo in evidenza dall’autore – non senza una punta di compiacimento – citando i soldati con nome e cognome, quasi a volerli chiamare a testimoni del proprio carisma e delle proprie imprese.
Nel Diario di guerra il lettore di oggi apprezzerà, tra le appassionate e acute descrizioni mussoliniane, soprattutto quelle sulla vita in trincea, dove i peggiori nemici, scriveva, erano i pidocchi e la pioggia; i tentativi di analizzare il carattere dei soldati italiani in funzione della loro provenienza regionale; la macabra desolazione dei campi di battaglia dopo i bombardamenti; la descrizione del morale dei combattenti nelle diverse situazioni (perché il “morale” «è il coefficiente fondamentale della vittoria, preminente in confronto dell’elemento tecnico o meccanico»); il gergo militaresco e i testi delle canzoni più in voga, quasi a voler fornire gli elementi per un’analisi lessicale e antropologica della vita in trincea.
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Di seguito offriamo ai nostri lettori il capitolo intitolato Come si vive e si muore nelle linee del fuoco.
***
Lunedì, 27 settembre 1915
Da ieri mattina non abbiamo in corpo che un sorso freddo di caffè. Piove sempre. Da due giorni, ininterrottamente. Stanotte non ho chiuso occhio. Mi trovavo sotto la tenda con un tal Jannazzone, un contadino del Beneventano, il quale, inzuppato fradicio, come me, e un po’ febbricitante, gemeva:
«Madonna mia bella l Madonna mia bella!».
«Basta, basta, Jannazzone!», gli ho detto.
«Non credete in Dio, voi?».
Non ho risposto.
Io, invece, ingannavo il tempo, le dodici ore interminabili della notte, rimemorando le poesie imparate nel bel tempo felice e lontano della mia giovinezza. Effetto delle circostanze climateriche, la poesia che mi è tornata alla memoria è La caduta del Parini. Strofa a strofa sono giunto sino ai versi:
Ed il cappello e il vano / Baston dispersi nella via, raccoglie.
Poi non mi sono ricordato più.
Cambiamo posizione. Andiamo in fondo valle alle sorgenti dello Slatenik, un torrente che sbocca nell’Isonzo, nella conca di Plezzo. Nei ripari che gli austriaci hanno abbandonato, troviamo un po’ più di comfort. In questa zona sono ancora visibili i segni della travolgente avanzata degli italiani.
Sul terreno tormentato e sconvolto sono disseminati, in disordine, bossoli di proiettili d’ogni calibro, giberne, scarpe, zaini, pacchi di cartucce, fucili, cassette di legno sventrate, tronchi d’alberi abbattuti, reticolati di ferro travolti, scatolette di carne vuote con diciture tedesche e ungheresi, fazzoletti, teli da tenda. Qua e là sono degli austriaci morti e malamente sepolti. Tra gli altri un ufficiale.
La posta: pacchi e lettere, ma per me e per tutti i richiamati dell”84, niente ancora. Soffia un vento impetuoso e freddo. Distendiamo sui cespugli, al sole, le nostre mantelline e coperte, inzuppate di acqua.
Mercoledì, 29 settembre 1915
Due giorni e due notti di pioggia. Tempesta.
Veniva dal Monte Nero. Sono, siamo fradici sino alle ossa. I bersaglieri preferiscono il fuoco all’acqua. Fuoco di piombo, si capisce. Ma stamani, sole. Il Rombon ci appare bianco di neve. Il sole tepido fa dimenticare le giornate piovose. Lo Slatenik, ingrossato, urla in fondo al vallone. Si distribuisce la posta. Finalmente, dopo quindici giorni, c’è qualche cosa anche per me. Nel trincerone che occupiamo si può accendere il fuoco. Ogni tenda ha il suo. Qui, l’unico pericolo – oltre a quello delle cannonate e delle pallottole vagabonde – è dato dai macigni che rotolano dal Vrsig. Di quando in quando si sente gridare: «Sasso! Sasso!». Guai a chi non lo evita a tempo!
L’[undicesimo] bersaglieri è stato rudemente provato, ma il «morale» dei soldati è eccellente. Anche i poilus dell”84 stanno cambiando psicologia. Diventano soldati. Sembrano già lontanissimi i primi giorni, quando bastava il rombo del cannone, il fischio di una pallottola o la vista di qualche cadavere per emozionarli. Distribuzione di alcuni indumenti invernali. Sono ottimi.
Giovedì, 30 settembre 1915
Ho portato, poiché li desiderava, alcuni numeri arretrati del Popolo al mio capitano [Mozzoni]. Niente in lui del militare di professione. Era aiutante in prima; ha preferito riassumere il comando della compagnia. Uomo che conosce gli uomini, soldato che conosce i soldati. I bersaglieri gli vogliono molto bene. Non ha bisogno di ricorrere a misure disciplinari per ottenere che ognuno adempia il proprio dovere. Mi offre biscotti e tre pacchetti di sigarette. È con lui il tenente Morrigoni, romano, simpaticissimo e fortunato. È giunto, dal dodicesimo, un cadetto destinato al comando del primo plotone della nostra compagnia: Fanelli, di Bari. Giornata tranquilla.
Venerdì, 1° ottobre 1915
Piove. Il mio capitano, in un rapporto indirizzato al colonnello, fa vivi elogi del mio spirito militare e della mia resistenza alle prime e più gravi fatiche della guerra.
Verso sera, intenso fuoco di fucileria e di mitragliatrici alle falde dello Jaworcek. Che gli altri battaglioni abbiano impegnato un combattimento?
Sabato, 2 ottobre 1915
Sono giunti altri ufficiali. I cadetti Barbieri e Raggi. Ora i quadri della nostra compagnia sono al completo.
Gli austriaci bombardano con granate incendiarie il villaggio di Cezzoga.
Domenica, 3 ottobre 1915
Il piantone della fureria, Lamberti, mi reca un biglietto del capitano, che dice:
«Sarebbe mio desiderio che ai bersaglieri della compagnia fosse espresso nel modo più sentito alla loro anima semplice e buona, il mio vivo compiacimento per la fusione già stabilitasi fra i vecchi e i giovani bersaglieri; ciò che dimostra quale spirito di cameratismo animi il loro cuore. La serena giocondità, il sentimento di disciplina, la disinvolta resistenza ai disagi cui sono sottoposti, vengono da me così apprezzati, tanto da sentirmene fieramente orgoglioso. Tutto ciò è indice di alto sentimento del dovere e dà affidamento della più salda compagine qualora a nuovi cimenti si possa essere chiamati. Al bersagliere Mussolini affido l’incarico di scrivere un ordine del giorno di compagnia che in una sintesi concettosa e bersaglieresca esprima tali miei apprezzamenti, con l’esortazione a perseverare, e con la visione di quegli ideali fulgidissimi di Patria e di famiglia, che costituiranno a suo tempo il premio più sensibile per il sacrosanto dovere compiuto».
Io mi domando: ma non è già questo un ordine del giorno bellissimo? Che cosa posso dire, io, di meglio e di più? Tuttavia, obbedisco. Fra anziani e richiamati, si cominciano a stabilire rapporti di amicizia. Nel primo plotone, di richiamati non ci sono che io. Tutti gli altri sono anziani che si trovano al reggimento dal principio della guerra. Spesso mi raccontano episodi interessantissimi. L’avanzata su Plezzo, le azioni sul Vrsig. I caporali hanno riunito le squadre e leggono l’ordine del giorno.
Lunedì, 4 ottobre 1915
Cielo stellato sino a mezzanotte. Stamane nevica. Ci esercitiamo al lancio di bombe.
Martedì, 5 ottobre 1915
Stanotte sono stato quattro ore di vedetta. Pioveva.
Mercoledì, 6 ottobre 1915
«Zaino in spalla!».
È giunto l’ordine di raggiungere sullo Jaworcek gli altri battaglioni. Ci mettiamo in marcia. Il capitano ci precede. Porta lo zaino e la caramella. Sosta al Comando del reggimento. Discorso del colonnello, seguito dalla lettura di un lungo elenco di bersaglieri della settima proposti per una ricompensa al valor militare. «Bersaglieri della settima, al colonnello dell’[undicesimo], hurrà!».
«Hurrà!».
Pulizia al fucile. Distribuzione di scarpe. Durante queste operazioni, faccio la conoscenza di un sergente degli alpini, di Monza, ferventissimo interventista, entusiasta della nostra guerra.
Giunge l’ottava compagnia. Qualcuno mi annuncia che il caporale Buscema è rimasto ferito da una cannonata, il 26 settembre. Il colonnello ripete il discorso ai bersaglieri dell’ottava. Crepuscolo. Si parte.
Giovedì, 7 ottobre 1915
La marcia di stanotte fra tenebre fittissime, per una mulattiera scoscesa e fangosa, entro un bosco, è stata dura.
Parecchie volte i plotoni hanno perduto il collegamento. Alcuni bersaglieri sono caduti e non hanno potuto proseguire. Anch’io, come tutti, sono caduto varie volte, ma l’unico danneggiato è l’orologio che porto al polso. Non va più. Dieci ore di marcia. Siamo giunti alle due del mattino. Per fortuna c’erano, in alto, le stelle. Non pioveva. Ci siamo rintanati fra i macigni nell’attesa dell’alba.
Venerdì, 8 ottobre 1915
Sveglia alle cinque. Ci spostiamo verso l’alto di un altro centinaio di metri. Ci troviamo sotto una delle pareti ripidissime dello Jaworcek. Dalla cima le vedette austriache sparano continuamente. Mi metto a lavorare accanitamente di vanghetta e piccone, per farmi un buon riparo. Petrella mi aiuta. Ritrovo il tenente Fava, che mi presenta al capitano della sua compagnia, Jannone. Gli amici degli altri battaglioni, appena saputo del nostro arrivo, mi vengono a cercare. Rivedo il caporal maggiore Bocconi, barbuto e un po’ dimagrito, il caporal maggiore Strada, ex-vigile milanese, sempre pieno d’entusiasmo; il caporale Corradini che mi racconta la straordinaria avventura toccatagli. Doveva andare di guardia, con una squadra, al quarto boschetto. Giunto a un passaggio obbligato e scoperto, sul quale gli austriaci rotolavano continuamente sassi e macigni, il Corradini, volendo appunto evitare un macigno, mise un piede in fallo e rotolò giù, in fondo al burrone. Una notte intera rimase laggiù, nel fango, sotto la pioggia, ritenendosi ormai perduto.
«Fu il pensiero della mia piccina, che mi diede il coraggio», egli mi dice. «A giorno fatto, risalii il pendio del monte. Nella caduta avevo perduto tutto: zaino, fucile, mantellina. Giunsi a un piccolo posto di fanteria. La vedetta mi intimò l’“alt”». Quando il caporale del piccolo posto mi ebbe riconosciuto come appartenente all’esercito italiano, mi lasciò passare. Potei riguadagnare, sano e salvo, la mia compagnia».
Ecco Rampoldi, ex-cuoco del Casanova. Lo chiamavano Rampoldo, Rampoldino.
Ritrovo ancora vivi e in gamba i milanesi Spada, Frigerio, Sandri. Viene anche a trovarmi, per conoscermi, il caporale Giustino Sciarra, di Isernia. Ha una curiosa barbetta a punta, rossigna. Cordialità, simpatia, auguri. Si parla di un’avanzata imminente.
Sabato, 9 ottobre 1915
Dormito profondamente tredici ore. La stanchezza è passata. C’è un ferito dell’ottava compagnia che viene portato in barella. Una pallottola lo ha colpito mentre sì scaldava al fuoco. Canticchia e fuma. Gli scelti tiratori austriaci sparano sempre. Un forte gruppo di ferraresi viene alla mia tenda e mi prega di porgere un saluto collettivo da mandarsi a un giornale di Bologna. Fatto.
Corvée di riattamento alla mulattiera. Il caporale milanese Bascialla, ch’è stato stanotte di guardia ai posti più avanzati, mi narra un episodio singolare. Si è trovato, in un riparo, accanto a un bersagliere che pareva dormisse. Egli ha provato a chiamarlo. A richiamarlo. A scuoterlo. Non rispondeva. Non si moveva. Era morto. Il Bascialla ha passato tutta la notte accanto al cadavere.
Ore quindici. Raffica di artiglieria austriaca. Crepitio di proiettili. Schianto di rami. Turbine di schegge. Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è abbattuto sul mio riparo. Ci sono due feriti nella mia compagnia. Passa un morto del trentanovesimo battaglione. Un altro morto degli alpini. Il bombardamento è finito. È durato un’ora. I bersaglieri escono dai ripari. Si canta. Lunga conversazione col capitano Bono della quarta compagnia. Argomento: i colpi di scena balcanici.
Il capitano Bono è un ingegno versatile e di vasta cultura.
Non dimenticherò il tremito della sua voce, quando, me presente, essendogli giunto uno di quei moduli speciali coi quali si chiedono ai reparti notizie di militari, dovette scrivere la parola morto!
Sera di calma. Qualche fucilata solitaria delle vedette fischia di quando in quando nella boscaglia.
Domenica, 10 ottobre 1915
Mattinata meravigliosa di sole. Orizzonte limpidissimo. Si ordina la statistica dei caricatori. Ogni soldato deve averne ventotto. Ore dieci. Uno shrapnel è passato fischiando sulle nostre teste. In alto. Non trascorrono cinque minuti, che un secondo shrapnel scoppia con immenso fragore a tre metri di distanza del mio «ricovero», a un metro appena dalla tenda del mio capitano. Ero in piedi. Ho sentito una ventata violenta, seguita da un grandinare di schegge. Esco. Qualcuno rantola. Si grida: «Portaferiti! Portaferiti!».
Sotto al mio ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi. Un grosso macigno è letteralmente innaffiato di sangue. Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.
«Le barelle! Le barelle!».
I feriti sono molti e bisogna chiedere le barelle alle altre compagnie del battaglione. Ci sono anche dei morti: due. Uno è Janarelli, l’attendente del tenente Morrigoni. Una palletta dì shrapnel gli è entrata dal petto e gli è uscita dalla schiena. Gliel’hanno trovata fra la pelle e il farsetto a maglia.
«Tenente, mi abbracci!», ha detto Janarelli. «Per me è finita!».
Vedo il tenente Morrigoni, cogli occhi luccicanti di lacrime. «Era tanto bravo e tanto buono!».
Lo Janarelli sembra dormire. Solo attorno alla bocca c’è una grossa tosa di sangue. L’altro è un richiamato dell’84. Una scheggia gli ha spezzato il cranio.
Una riga rossa gli divide a metà la faccia. I feriti sono nove, dei quali tre gravissimi e due disperati.
«Zappatori, in rango colle vanghette».
Gli zappatori si riuniscono coi loro strumenti. Adagiano i morti su barelle fatte con rami d’albero e sacchi e se ne vanno. Qui non si può fare un cimitero. Bisogna seppellire i caduti qua e là, nelle posizioni più riparate. L’emozione della compagnia è stata fugacissima. Ora si riprende il chiacchierio. Si fischierella. Si canta.
Quando lo spettacolo della morte diventa abitudinario, non fa più impressione. Oggi, per la prima volta, ho corso pericolo di vita. Non ci penso.
Dopo un mese mi lavo e mi pettino. Schampoing al marsala.
Passa il tenente Francisco della quindicesima compagnia, il quale mi racconta: «Ieri sera gli austriaci hanno inscenato una dimostrazione antitaliana. Hanno cantato in coro il loro inno nazionale. Poi hanno gridato: “Kicchirichi, kicchirichi!”. Hanno aggiunto: “Bersaglieri dell’undicesimo, vi aspettiamo!”. Alla fine, una voce di ufficiale ha urlato al megafono: ” Italiani farabutti, lasciateci le nostre terre!”».
Lunedì, 11 ottobre 1915
Meravigliosa mattinata di sole. Il secondo, il terzo, il quarto plotone della mia compagnia, levano le tende e si spostano per essere defilati dai tiri degli shrapnels. Noi restiamo al nostro posto. Passa un morto della tredicesima. Bombardamento di un’ora a shrapnel. Conversazione col capitano Bono.
La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po’ monotona. Ecco l’orario delle mie giornate. Alla mattina non c’è sveglia. Ognuno dorme quanto vuole. Di giorno non si fa nulla. Si può andare, con rischio e pericolo di essere colpiti dall’implacabile «Cecchino», a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce; quando tuona il cannone, si contano i colpi. La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: di liquido, ci danno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa: di solido, un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne. Pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo, non è questione. Gli austriaci, tempo fa, hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.
C’è un’ora, nella giornata, che i bersaglieri attendono sempre con impazienza e con ansia: l’ora della posta, che comincia a giungere regolarmente. Ci pensa Jacobone, per il reggimento. Nostro «postino» è il calabrese Suraci. Quando si grida «posta !», tutti escono dai ripari e si affollano attorno al distributore. Nessuno pensa più alle fucilate e agli shrapnels.
Ho scritto una lettera per Jannazzone e una per Marcanico. Non si negano questi favori a uomini che possono morire da un momento all’altro. La fidanzata di Marcanico si chiama Genoveffa Paris. Questo nome mi porta, chissà perché, al tempo dei «reali di Francia».
Martedì, 12 ottobre 1915
Pulizia al fucile. Sole pallido. Poi, non c’è nulla da fare. Passano i soliti feriti. C’è il bersagliere Donadonibus che si spidocchia al sole. «Cavalleria, a destra! Cavalleria, a sinistra!», grida e ride, di un riso che sembra quello di un uomo completamente felice. Pioggia e pidocchi; ecco i veri nemici del soldato italiano: il cannone vien dopo. Uno dei feriti dello shrapnel è morto prima di arrivare all’infermeria reggimentale.
Altra notizia triste: la fucilata di una vedetta ha colpito a morte tal Mambrini, mantovano, mentre stava lavorando a fortificare il suo riparo.
La guerra di posizione esige una forza e una resistenza morale e fisica grandissime: si muore senza combattere!
Mercoledì, 13 ottobre 1915
Stanotte, sulle ventitre, improvviso e intensissimo fuoco di fucileria e di mitragliatrici ai nostri avamposti. Siamo balzati dai nostri ripari. Un quarto d’ora di fuoco e poi quiete sino all’alba. Mattinata grigia. Vado di corvée colla mia squadra e mi carico di un sacco di pane. Passa un morto del trentanovesimo battaglione, colpito da fucilata e da sassata. Si diffonde, tra le squadre, la notizia che presto ci sarà l’«azione». La notizia non deprime, ma solleva gli animi. È la prolungata inazione che snerva il soldato italiano. Meglio, infi-nitamente meglio, «al» fuoco, che «sotto» al fuoco. I bersaglieri sono desiderosi di vendicare i compagni caduti a tradimento.
Vicino a me si canta. È un inno bersaglieresco:
Piume, baciatemi
Le guance ardenti
………………
Piume, riditemi
Di gioia i canti;
E ripetetemi:
Avanti! Avanti!