LA FRANCIA, IL SAHEL E L’OPERAZIONE BARKHANE

di Massimo Iacopi -

 

Il cambio di passo messo in atto da Parigi con l’operazione Barkhane ha prodotto risultati significativi nel campo militare e nel progetto di stabilizzazione del Sahel. Le prospettive, per certi aspetti incoraggianti, non autorizzano però un futuro di certezze.

L’eliminazione di Abdelmalek Droukdel e di quattro dei suoi luogotenenti, il 3 giugno dello scorso anno (2020) ai confini tra Mali e Algeria ha rappresentato una buona novella per la Francia e i suoi alleati africani. Il cabilo Droukdel era infatti il capo dell’AQMI (Al Quaeda nel Maghreb Islamico) per l’Africa del Nord e il Sahel. Il gruppo terroristico era stato individuato grazie a fonti elettroniche americane, probabilmente frutto di un’informazione iniziale trasmessa dall’Algeria. Per Algeri, infatti, Droukdel era uno dei principali nemici da abbattere. Lui e i suoi uomini sono stati eliminati da commandos francesi al termine di una azione ardita e molto complessa.
A tale riguardo, nel mese di giugno, un rappresentante del governo francese – il ministro della Difesa Florence Parly – aveva affermato in Senato che l’intervento nel Sahel concretizzato dall’Operazione Barkhane “era sulla buona strada, ma che era ancora presto per cantare vittoria”. In tale occasione il ministro aveva esposto all’assemblea i tre assi di sviluppo della strategia francese nell’area: generare attrito sulle formazioni armate che operano nell’area (eliminando ogni mese centinaia di guerriglieri); sahelizzazione delle forze (attraverso la mobilitazione degli eserciti africani); internazionalizzazione del dispositivo di intervento, facendo appello ai partner dell’Unione Europea. Il rinforzo dell’operazione Barkhane, con 5.100 uomini, e un saggio cambiamento di tattica, ha consentito di recuperare in reattività. Le forze operanti, riattivando la tradizione della nomadizzazione di lunga durata nella condotta delle operazioni, hanno potuto così riacquisire l’iniziativa.
In occasione di un breve vertice avvenuto il 30 giugno 2020 a Nouakchott, dove si sono riuniti il presidente francese con i vertici dei paesi del G-5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad), Macron, nel commentare positivamente i successi conseguiti, ha dichiarato la volontà della Francia di “non voler restare in eterno nel Sahel”. Da questa affermazione teorica a parlare di ritiro però la differenza è notevole. Diversi osservatori sono convinti che i risultati conseguiti, sebbene decisamente incoraggianti, siano con ogni probabilità insufficienti. I francesi, dal canto loro, hanno immediatamente precisato di non “avere la vocazione a lasciare subito il Sahel, perché la presenza in loco risulta ancora indispensabile per i Saheliani”.

Di fatto la Francia su questo terreno è andata incontro a diverse delusioni. I rinforzi europei non arrivano, se non con il contagocce e più in termini di materiale che di uomini. Questo appoggio risulta nondimeno utile, ma decisamente al di sotto di ciò che Parigi si attende. Se i colpi sferrati contro il nemico sono reali, essi hanno però una portata limitata. I gruppi armati cambiano di settore d’azione, disperdendosi lungo le linee dei traffici della zona sahelo-sahariana, assolutamente di difficile controllo. Approfittano inoltre della solidarietà derivante dai legami familiari per reclutare giovani nell’ambito di popolazioni quasi abbandonate dagli Stati centrali e spesso lacerate da rivalità etniche ancestrali. L’islam radicale collega e legittima queste rivolte dai contorni non ben definiti e fluttuanti.
In questo ribollire di conflitti, i soldati francesi costituiscono un peso relativo. L’appoggio degli “amici africani” non risulta all’altezza delle necessità. Ad eccezione del Ciad, dotato di un solido esercito, gli alleati della Francia non sono in grado di assicurare nemmeno le loro responsabilità istituzionali. Nel Mali, il dialogo aperto nel febbraio dello scorso anno, sotto l’occhio vigile dell’Algeria e con la diffidenza di Parigi, dal presidente Ibrahim Bubacar Keità con due capi jihadisti – il tuareg Iyad Ag-Ghali e il peul Amadou Koufa – non ha prodotto risultati significativi. L’atteggiamento, opaco di Algeri e dello stesso presidente del Mali rendono complicato questo riavvicinamento, anche se ufficialmente la Francia “plaude a ogni passo realizzato verso una maggiore stabilità”. Insomma, una situazione politica di stallo, senza prospettive immediate.

Nei fatti l’operazione Barkhane ha consentito di stabilizzare la regione, ma l’opzione militare evidenzia, da sola, i suoi limiti. Essa doveva consentire ai responsabili civili di lanciare una agenda politica: sotto questo aspetto si è ben lontani dall’aver conseguito progressi.
Nonostante gli sforzi della Francia e dell’UE per formare e responsabilizzare le classi dirigenti e militari locali, i risultati complessivi sono del tutto deludenti. Spirito di clan e corruzione, coniugati con un esercizio caricaturale della democrazia, rovinano le speranze per una gestione più sana della politica locale.
Affermazioni ufficiali come “le forze locali fanno progressi, ma rimangono fragili e soggette a importanti insuccessi” fotografano eufemisticamente una situazione non soddisfacente. In parole povere: non si è in grado di garantire la successione dell’operazione militare in corso. I massacri di guarnigioni e le sanguinose imboscate producono centinaia di vittime, mentre le conseguenti brutali rappresaglie creano ulteriori incertezze nelle popolazioni. A Bamako, Niamey e Uagadugu la paura e l’impazienza contribuiscono ad alimentare un sentimento antifrancese crescente, proprio alle spalle del contingente impegnato sul campo.