In libreria: Fine della leggenda nera
La peggiore nemica della Storia è la Storia fatta sulla base di pregiudizi, di fonti inattendibili, di una disinformazione capace di evidenziare alcuni aspetti tacendone altri, modellandola sulla base di una visione dell’oggi che trascura elementi ben più significativi all’epoca dei fatti. Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, si è preso la briga di smascherare una delle numerose false Storie che la pigrizia intellettuale e alcuni interessi di parte hanno voluto che si diffondesse acriticamente. «Per decenni, in pubblicazioni di vario tipo, si è voluto insistere sul fatto che determinati criminali di guerra fossero riusciti a sfuggire alla giustizia per il decisivo intervento della Santa Sede», creando così una sorta di “leggenda nera” fatta di coperture fornite da Papa Pio XII, da diocesi e da associazioni ecclesiali che – secondo la vulgata – negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, e di fronte alle immense difficoltà causate dalla ricostruzione, dalle vendette pubbliche e private contro i vinti, dal rimpatrio dei soldati e dai trasferimenti di intere popolazioni a seguito degli accordi di pace, dedicarono le loro migliori energie a sottrarre alla giustizia i peggiori criminali nazisti.
Guiducci ha realizzato un eccezionale lavoro di sintesi teso non tanto a combattere polemicamente questa visione, quanto a mettere in fila, sotto il puro profilo storiografico, le inesattezze, le esagerazioni e i veri e propri svarioni – spesso organizzati ad arte per compiacere editori in cerca di facili successi e lettori smaniosi di scoop – che ricorrono nella saggistica sull’argomento. Ad esempio la famigerata Operazione Odessa per il trasferimento dei nazisti in Sudamerica o la “via dei monasteri” che avrebbe dato accoglienza ai fuggitivi: i riscontri che vogliono la cabina di regia in Vaticano sono in realtà esagerati – inserendosi in un ben più modesto (per forze e disponibilità) disegno umanitario svolto dalla Chiesa – se non addirittura del tutto privi di fondamento. Scopriamo così che molti criminali di guerra nazisti riuscirono a far perdere le loro tracce grazie alla Spagna franchista, altri trovarono invece rifugio in Svizzera sfruttando conoscenze all’interno delle istituzioni della confederazione elvetica, mentre un significativo supporto venne fornito loro dall’Austria e dalle popolazioni dell’Alto Adige, che ne coprirono il transito o ne agevolarono il reinserimento nella vita sociale.
Con una narrazione chiara e a tratti didascalica, tesa a contestualizzare al meglio le vicende, Guiducci cita documenti recentemente desecretati per chiarire i veri rapporti tra la Chiesa croata e il governo degli ustascia di Pavelic (in altra parte della rivista trovate un approfondimento che ha per oggetto la figura dell’arcivescovo Stepinac), chiama in causa l’opera di depistaggio svolta dal ministero degli esteri della Repubblica federale tedesca fino ad anni relativamente recenti, ad esempio in merito al nascondiglio di Eichmann. Ma non solo. Rivela come i curriculum degli scienziati tedeschi accolti negli Stati Uniti – oltre a von Braun, anche alcuni medici che effettuarono esperimenti nei campi di concentramento – siano stati edulcorati per aggirare la norma che vietava di ospitare ex iscritti al partito nazionalsocialista. Altri ex nazisti furono poi inseriti nei ranghi della CIA, mentre ulteriore accoglienza fu garantita dai Paesi del Medio Oriente. Insomma, «al contrario di quanto viene ancora riportato in taluni scritti, la Santa Sede non intese mai svolgere un compito di rilascio di carte di identità o di passaporti, né volle sostituire con la propria potestas quella delle forze dell’ordine del tempo». Piuttosto, si ha come l’impressione, concludendo la lettura di questo volume, che la “leggenda nera” sia servita a coprire altre responsabilità o a nascondere i numerosi scheletri negli armadi dell’immediato dopoguerra: dal reclutamento di ex nazisti negli Stati Uniti alle uccisioni sommarie nei Paesi europei, dalla tragedia dei profughi tedeschi alle omissioni praticate dai governi per opportunità politica durante la Guerra fredda.
Pier Luigi Guiducci, Oltre la leggenda nera. Il Vaticano e la fuga dei criminali nazisti – Mursia, Milano 2015, pp. 420, euro 22,00
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V. Grienti e C. Saita, Linkati alla storia. La narrazione biografica e il ruolo delle comunicazioni sociali - Euno Edizioni, pp. 160, euro 12,00
Perché nell’era digitale fatta di computer senza fili, tablet e smartphone intelligenti il binomio storia e web non è anacronistico? Quali sono le motivazioni di fondo che spingono milioni di utenti a digitare sui principali motori di ricerca per capire e rileggere le biografie di uomini e donne che hanno determinato il corso degli eventi? Un sociologo e un giornalista indagano sul fenomeno della crescita d’interesse verso la storia e le biografie nell’era dei social network, del multitasking e della realtà aumentata. Ne emerge un quadro nuovo e originale.
“Linkarsi alla storia” attraverso le biografie dei personaggi del Novecento è un modo per capire i contesti culturali e politici e a interrogararsi su quelle vite che si sono spese per il bene comune.
Giovanni Palatucci, Rosario Livatino, Edith Stein, Adriano Olivetti, Ryszard Kapuscinski, Karol Wojtyla, Gianna Beretta Molla, don Lorenzo Milani, Alcide De Gasperi, Giorgio La Pira, Emmanuel Lévinas, Paul Claudel e tanti altri sono solo alcuni di questi testimoni le cui vite vengono ripercorse nel saggio Linkati alla storia. La narrazione biografica e il ruolo delle comunicazioni sociali.
Fare memoria rileggendo la storia diventa così la porta d’ingresso per “entrare in contatto”, per “farsi prossimi”, appunto per “linkarsi” con quanti hanno dato un contributo altissimo alla società.
“Scorrendo le loro biografie si scopre come narrazione biografica e nuovi mezzi di comunicazione sociale hanno una funzione quasi terapeutica – spiega il giornalista Vincenzo Grienti -: quella di coinvolgere il lettore on line e off line nelle esistenze di chi, con coraggio e umiltà ha donato alla comunità quei grandi valori di giustizia, di solidarietà, di carità e di bene comune che restano intramontabili”.
Basta percorrere le città, sia grandi che piccole, per comprendere, aggiunge Claudio Saita, sociologo e docente dell’Università di Catania, “che c’è desiderio di cambiamento e di speranza per una svolta pacifica e seria a favore delle categorie sociali più povere ed emarginate. In fondo il compito di ogni cittadino e di ogni persona impegnata nella politica, nella magistratura, nella scuola, nel mondo dello sport, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali, nella società civile e nelle organizzazioni di volontariato, dovrebbe essere proprio quello di impegnarsi per il bene comune”.
H. Afflerbach, L’arte della resa. Storia della capitolazione – il Mulino, Bologna 2015, pp. 296, euro 25,00
«Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace, e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l’assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici, che il Signore tuo Dio ti avrà dato» Deuteronomio 20, 10-14.
Quando le madri spartane salutavano i figli che partivano per la guerra li ammonivano di tornare o con lo scudo o sopra lo scudo: o vittoriosi o morti. Arrendersi era considerato disonorevole. Come si poteva concepire di perdere una guerra o una battaglia e sopravvivere? L’«arte della resa» si è tuttavia evoluta nel corso della storia, dall’età della pietra, allorché i conflitti terminavano con la strage dei vinti, a oggi seguendo il progressivo affermarsi di una regolamentazione della vittoria e della sconfitta che ha gradatamente civilizzato la guerra, soprattutto con la Rivoluzione francese e poi con lo sviluppo di una cultura umanitaria dopo il 1945. Nei modi di vincere e di perdere si rispecchia insomma il processo di civilizzazione della nostra società.
J. Pirjevec, Tito e i suoi compagni – Einaudi, Torino 2015, pp. 626, euro 42,00
Despota o ribelle? Nonostante trentacinque anni di dittatura, non si può considerare Tito come un tiranno alla stregua di Stalin: al contrario, proprio perché si era ribellato al terrore staliniano, istituendo in Jugoslavia un socialismo «autogestito» dal volto umano, Tito è rimasto nella memoria di molti suoi «sudditi» come un uomo a cui essere grati. La Jugoslavia che lasciò alla sua morte era decisamente diversa da quella del 1945: era passata dal regime centralizzato staliniano al «socialismo di mercato», conoscendo una rapida industrializzazione, grazie a cui le masse popolari godettero di una costante crescita della qualità della vita, anche se dovuta in gran parte ad aiuti esterni. Per quanto il potere fosse nelle mani del Partito, il sistema autogestito permetteva ai cittadini di esercitare qualche influenza sulla vita politica. L’opposizione era proibita, ma la vita intellettuale non era soggetta a censura preventiva e le frontiere erano davvero aperte al passaggio delle persone e delle idee. Senza Tito, non ci sarebbe stata la frattura con Stalin. A suo favore vi è pure la sua epica ribellione a Hitler e a Mussolini che assicurò ai popoli jugoslavi la vittoria sui nazifascisti. Inoltre, a partire dagli anni Cinquanta, riuscí a sottrarsi al canto delle sirene dell’Occidente, mettendosi a capo dei Paesi «non allineati». Non va però ignorato il fallimento del regime di Tito, incapace di conservarsi senza la sua forza di coesione, e di sviluppare l’esperimento dell’autogestione in una democrazia moderna e pluralista.
R. Atkinson, Una guerra al tramonto (1944-1945). Dallo sbarco in Normandia alla vittoria degli alleati in Europa – Mondadori, Milano 2015, pp. 732, euro 35,00
Mentre la pallida luce dell’alba si diffondeva sulla Manica, un corpo d’invasione composto da centotrentamila unità si apprestava a sbarcare sulle coste della Normandia. Era il 6 giugno 1944, il D-Day, “il giorno più lungo”, che avrebbe cambiato il corso della seconda guerra mondiale e della storia del Novecento. “È suonata l’ora per la quale siamo nati” proclamava il “New York Times”, l’ora che lasciava intravedere l’inizio della fine della Germania nazista. Ma per i soldati stivati nei mezzi da sbarco, paralizzati dal freddo e dalla paura, che a migliaia sarebbero caduti sulle spiagge presto divenute celebri di Omaha e Utah, l’assalto alla Fortezza Europa era solo all’inizio. Sarebbe trascorso un altro anno prima che nella Berlino circondata dall’Armata rossa il cadavere di Hitler bruciasse in uno squallido cortile. Un anno di combattimenti atroci, di battaglie epocali e di luoghi destinati a rimanere per sempre nella memoria e nella coscienza dell’Occidente: il porto di Cherbourg, la valle del Rodano, i boschi delle Ardenne, le lanche del Reno, la foresta di Hürtgen. La strada verso il cuore del Terzo Reich sarebbe stata ancora lunga e lastricata di incomprensioni, dissidi strategici, rivalità personali oltreché di innumerevoli vite spezzate. Un lungo cammino che avrebbe confermato, ancora una volta, che la guerra non è mai lineare, ma è un’impresa caotica, disordinata, fatta di errori e di slanci, di successi e di rovesci.
J. Le Goff, L’Europa raccontata da Jacques Le Goff – Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 140, euro 9,00
Possiamo educare i più giovani all’Europa e ai suoi valori di pace e multiculturalità?
«Scaviamo all’interno dell’Europa. Da ogni periodo della storia noi europei moderni abbiamo ricevuto qualcosa in eredità. Trasformiamoci in archeologi dell’Europa, scavando prima il sottosuolo e poi tra i libri, le iscrizioni, gli archivi, i musei e, sulla superficie, andiamo alla ricerca dei monumenti, delle abitazioni, degli oggetti che testimoniano tecniche e stili di epoche differenti.»
Jacques Le Goff ripercorre tappa dopo tappa l’eccitante sfida dell’Europa, il più piccolo dei continenti, che ha conquistato mezzo mondo, ha innescato la miccia di tante rivoluzioni, ha trasformato il pianeta.
O. Figes, Crimea. L’ultima crociata – Einaudi, Torino 2015, pp. 532, euro 35,00
La guerra di Crimea ha dominato la metà del XIX secolo, provocando la morte di almeno 800 000 persone e ridisegnando la mappa dell’Europa. Iniziata come una guerra di religione, fu determinata dalla convinzione dello zar Nicola I che quella guerra doveva essere una crociata, l’adempimento del destino della Russia a governare tutti i cristiani ortodossi e a controllare i Luoghi Santi. Fu anche una guerra basata sull’odio e sull’ipocrisia, segnata in particolare dall’ondata di russofobia che travolse buona parte dell’Europa. Figes descrive la guerra come un’ultima crociata, nella quale la religione ebbe un ruolo fondamentale, tanto da farla diventare la prima «guerra totale» della storia. Nessuno ha contato i morti tra la popolazione civile: vittime dei cannoni o della fame nelle città assediate; etnie devastate dalle malattie diffuse dagli eserciti; intere comunità spazzate via durante i massacri e le campagne di pulizia etnica nel Caucaso, nei Balcani e in Crimea. L’autore utilizza materiali di prima mano (lettere dei soldati, diari, documenti provenienti dagli archivi russi ecc.), tratta gli eventi bellici da una prospettiva che dà vita a nuove interpretazioni, riuscendo a trasmettere quella partecipazione umana che può emergere solo dall’impiego di testimonianze molto diverse.
F. Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della prima guerra mondiale – Mondadori, Milano 2015, pp. 610, euro 29,00
Questo non è un libro sull’Italia alla vigilia della Prima guerra mondiale, ma un’indagine su cosa la gente comune ha fatto per rimanerne fuori. Attraverso le vicende, spesso violente, occorse dall’agosto 1914 al maggio 1915 in oltre cinquanta città e in molte decine di paesi, si è, per la prima volta, portato alla luce la prassi del neutralismo in Italia, vale a dire l’altra faccia di quella strisciante guerra civile che di solito vede come protagonista l’interventismo. Emerge dal viaggio nelle piazze neutraliste una realtà a geometria variabile, per tempi, modi e caratteristiche sociali, ma sempre espressione di una più o meno ribelle o rassegnata “eccedenza” rispetto alla grande politica. Nei mesi in cui si gioca il destino del Paese, il neutralismo fa emergere un disagio che è un intellegibile, per quanto scomposto, segnale di dolente dissociazione popolare (l’affollata ritualità religiosa pro pace, la rilevante presenza pubblica delle donne, la vivace partecipazione dei soldati, l’incremento di azioni attribuite alla “teppa”). Che il segnale non abbia trovato una adeguata sintesi politica a livello nazionale nulla toglie alla forza, anche disperata, di quel movimento a cui, a cent’anni dagli avvenimenti, va restituito il giusto posto nella storia d’Italia.
G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità – il Mulino, Bologna 2015, pp-248, euro 16,00
«Il pensiero magico continua tenacemente a presentarsi come visione obliqua e perturbante del mondo, e come una possibile risposta al tentativo di indirizzare la realtà affidandone la guida all’uomo.»
Dall’epoca delle pitture rupestri paleolitiche l’umanità convive con riti, formule e pratiche magiche. Contenitore millenario delle illusioni e delle paure della nostra specie, la magia accompagna anche la cultura classica, dove affianca le origini della filosofia e della scienza, e le forme più alte della poesia e del pensiero, da Omero, ai tragici, ai medici e a Platone. Il libro ci guida alla scoperta di questo versante occulto dell’antichità, partendo dalle forme universali del pensiero magico per arrivare a una antropologia della magia nel mondo antico: legamenti, incantesimi, magie d’amore, negromanzia, ma anche modi di intendere e controllare il reale.
Andrea Carandini, Paesaggio di idee. Tre anni con Isaiah Berlin – Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 382, euro 19,00
Esiste una strada poco battuta nel lungo processo di costruzione europea. Imboccarla ci farebbe uscire dal vicolo cieco in cui le nostre società e i nostri Paesi sono fermi, mentre i confusi rumori e le angosce del mondo globale ci assediano e ci fanno paura. L’archeologo Andrea Carandini, presidente del FAI, ci guida alla riscoperta di questa via europea alla serenità e forse anche alla felicità, dissotterrando una tradizione culturale ancora viva e pulsante, quella del grande illuminismo romantico di Isaiah Berlin, il cui pensiero introduce alla imperfezione migliorabile, apprezzando finalmente la molteplicità della vita e la tolleranza. Con questa guida autorevole, ripercorriamo la tradizione europea tra ’700 e ’800, per ritrovare le idee che oggi servono, se vogliamo risorgere. Non si tratta solo di riformare una liberal-democrazia decadente quale è quella italiana, quanto di appassionare giovani e meno giovani all’uso consapevole della ragione non conformista, perché solo coltivando i sogni della ragione saremo in grado di non generare mostri, o almeno di non averne paura.