LA LIBIA DOPO GHEDDAFI: STORIA DI UNA GUERRA CIVILE
di Daniela Franceschi –
Dal febbraio 2011, quando la popolazione si rivoltò contro Muammar Gheddafi, lo scenario libico è precipitato in un conflitto reso confuso da contrasti tra gruppi tribali, milizie armate islamiche e centri di potere reduci dal vecchio regime
(per gentile concessione di www.storico.org) Il caos che regna oggi in Libia è stato variamente descritto come una lotta tra islamisti e fazioni laiche, tra giovani “rivoluzionari” e anziani tecnocrati tra i quali si nasconderebbero ex ufficiali di Gheddafi. In realtà la guerra civile in Libia è tutte queste cose insieme.
La complessità della guerra civile che si è instaurata nel territorio libico dopo la caduta del regime di Gheddafi può essere compresa solo attraverso un’analisi storico-politica attenta al contesto nazionale e internazionale.
Alla fine del febbraio 2011, la popolazione della Libia si rivoltò contro Muammar Gheddafi, dopo quattro decenni di dittatura. Gheddafi minacciò, come risposta, una brutale repressione.
Dopo le esitazioni iniziali, gli alleati della NATO hanno attaccato il regime nell’ambito di un mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ONU); la campagna militare aerea ha avuto una durata di sette mesi, portando alla fine della dittatura nel mese di ottobre. In agosto, Tripoli è caduta, e ad ottobre, Gheddafi è stato catturato e ucciso dalle forze ribelli.
Dopo la guerra, molti osservatori argomentavano che la Libia avrebbe avuto un percorso verso la stabilizzazione e la democrazia meno traumatico e problematico rispetto ad altri Paesi, inoltre le frange ribelli erano state in parte unificate, al contempo gli Stati vicini, Tunisia ed Egitto, guadavano con favore alla transizione della Libia verso la pace, infine Gheddafi era stato del tutto sconfitto. Il rischio che vi fosse una rivolta pro-regime, come era accaduto in Iraq dopo la sconfitta di Saddam Hussein, era giudicata improbabile.
Altri due elementi avevano un ruolo positivo: la dimensione territoriale di un quarto inferiore rispetto all’Iraq; una ricchezza nazionale quattro volte superiore a quella dell’Afghanistan.
I danni alle strutture economiche, comprese quelle petrolifere e del gas, erano stati limitati, consentendo, quindi, un continuum nei rapporti commerciali con l’Occidente.
Dato che la prospettiva per la Libia sembrava così positiva, la strategia internazionale per la stabilizzazione al termine del conflitto differiva, in un punto molto importante, da quella seguita in tutti i precedenti interventi militari della NATO: non furono schierate forze di pace o di stabilizzazione. In generale, la presenza internazionale in Libia sarebbe stata molto limitata, rispetto agli standard storici. Ad una piccola missione delle Nazioni Unite fu data la responsabilità per il coordinamento internazionale della stabilizzazione post-conflitto. Anche se molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti, inviarono del personale diplomatico per favorire la transizione dalla guerra alla pace, i Libici furono in gran parte abbandonati a se stessi.
La situazione da allora è stata tumultuosa e violenta. Anche se ci sono stati alcuni sviluppi positivi, tra cui il successo delle elezioni nel luglio 2012, questi sono stati offuscati dalla violenza montante che ha frustrato i tentativi per ristabilire il funzionamento delle istituzioni politiche. Gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), un affiliato di Al-Qaeda, hanno utilizzato il vuoto di sicurezza per stabilire un punto d’appoggio a livello nazionale.
La Libia, oggi, è quindi in una situazione molto precaria, così come appare precaria la situazione delle regioni del Sahel e del più ampio Maghreb, a causa dell’attività degli jihadisti in Mali, in Tunisia, in Algeria ed in Egitto.
Da un certo punto di vista, il periodo post-conflitto in Libia appare sempre più come una sfida complessa. Il clima politico negli Stati Uniti e in molti Paesi Alleati ha spinto verso un fraintendimento dell’esperienza libica.
Prima della Libia, gli interventi militari della NATO erano stati normalmente seguiti da operazioni post-conflitti di dimensioni rilevanti. Nel 1995, le forze della NATO erano state schierate in Bosnia per salvaguardare gli Accordi di Dayton, inoltre, subito dopo, era stato nominato un Alto Rappresentante con poteri esecutivi per intervenire nella politica bosniaca, assicurando l’applicazione nell’ambito civile degli Accordi appena stipulati.
Nel 1999, nel Kosovo, la NATO seguì la campagna aerea con lo spiegamento di forze di pace e, al contempo, le Nazioni Unite istituirono una grande struttura amministrativa civile per aiutare a gestire le molte sfide del dopoguerra.
Per diverse ragioni, in ogni modo, il ruolo internazionale in Libia è stato molto limitato, lasciando il peso maggiore della ricostruzione post-bellica sulle spalle dei soli Libici. La NATO ha adottato una strategia militare molto sbilanciata sulla guerra aerea, limitando il numero delle forze di terra, provenienti principalmente dall’Europa e da altri Paesi del Golfo. La guerra di precisione ha permesso di evitare un gran numero di morti civili, di mantenere bassi i costi e, infine, ha consentito che fossero i ribelli a conquistare la capitale. Il numero limitato di forze di terra, tuttavia, ha ridotto notevolmente il grado di controllo e di influenza che la NATO e i suoi partner avrebbero potuto esercitare nel dopo-Gheddafi.
In contrasto con le operazioni della NATO in Afghanistan e con le operazioni della coalizione USA in Iraq, l’impulso per l’intervento in Libia è venuto in gran parte da Francia e Gran Bretagna. Sebbene il Presidente Statunitense Obama avesse sostenuto l’operazione, sottolineò agli omologhi francesi e britannici che soltanto loro sarebbero stati tenuti a prendere l’iniziativa e a sopportarne il relativo costo. Gli Stati Uniti avrebbero sostenuto lo sforzo, ma fornendo solo quelle risorse giudicate “uniche”. Questa disposizione ha posto le basi per un ruolo più secondario degli Stati Uniti nel dopoguerra.
All’interno della NATO, l’operazione è stata controversa. La partecipazione degli alleati era molto bassa e sembrava essere in declino, nonostante l’approvazione politica da parte del Consiglio Nord Atlantico, il più alto corpo politico della NATO. Solo metà dell’Alleanza ha fornito aiuti militari e meno di un terzo ha contribuito alle operazioni. La Germania, uno degli alleati nella posizione migliore per contribuire all’intervento soprattutto nella fase post-conflitto, espresse forti obiezioni, astenendosi per protesta dal voto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni, e optando, in ultima analisi, per rimanere fuori dalle operazioni militari, anche se non ha cercato di fermarle, eventualmente offrendo un sostegno finanziario e diplomatico. Questa polemica ha ridotto le probabilità di un ruolo nel periodo post-conflitto per l’Alleanza.
È importante evidenziare come cominciassero, subito dopo l’inizio delle operazioni militari, dei contrasti nel Consiglio di Sicurezza sull’interpretazione del mandato delle Nazioni Unite da parte della NATO. Russia, Cina e Sudafrica hanno sostenuto che la NATO aveva superato il mandato della Risoluzione Numero 1973, attraversando la linea di demarcazione fra protezione della popolazione civile e cambio del regime; questi Paesi argomentavano che la Risoluzione prevedeva solo azioni per proteggere la società civile, mentre la NATO stava attivamente cercando di far cadere Gheddafi. È senza dubbio difficile credere che queste Nazioni fossero scioccate dalle operazioni della NATO, tuttavia questa discordia ha reso l’intervento in Libia, e di conseguenza anche in Siria, più difficile.
Dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan, l’interesse per gli sviluppi del post-conflitto era molto basso nella maggior parte delle capitali occidentali. L’Europa era nel mezzo di una crisi finanziaria e gli Stati Uniti ne stavano appena uscendo.
I cicli elettorali hanno sicuramente giocato un ruolo importante, e l’Amministrazione Obama era senza dubbio diffidente nei confronti di una situazione libica che poteva trasformarsi in un “pantano”, costituendo un bersaglio da parte dei Repubblicani, in particolare del Tea Party, durante l’anno delle elezioni presidenziali.
Da ricordare, inoltre, che le Autorità provvisorie libiche si erano opposte alla presenza di truppe straniere sul suolo nazionale. Durante la guerra, la leadership dei ribelli si era, per la maggior parte, opposta al dispiegamento di truppe di terra, chiedendo solo armi e supporto aereo. Molti leader ribelli erano profondamente preoccupati della loro legittimazione, che un dispiegamento di truppe straniere avrebbe messo a repentaglio. L’ultima cosa che volevano era di essere visti come zimbelli della NATO. A complicare le cose, la Risoluzione Numero 1973 escludeva specificamente una «forza di occupazione».
Quando i leader del Consiglio Nazionale di Transizione (NTC) contestarono la presenza di una forza di pace nel periodo del post-conflitto, le discussioni alla NATO terminarono.
Questi fattori, combinati con una calma inaspettata a Tripoli nell’immediato dopoguerra, ha comportato un limitato coinvolgimento internazionale nella ricostruzione post-conflitto in Libia.
Il 16 settembre 2011, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza Numero 2009 ha dato mandato alla Missione delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL), sotto la guida del rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Ian Martin. Il mandato aveva la finalità di «assistere e supportare» gli sforzi libici per stabilire la sicurezza, intraprendere un dialogo politico, estendere l’autorità dello Stato, promuovere e proteggere i diritti umani, riavviare l’economia, e coordinare lo sforzo internazionale.
L’UNSMIL non aveva, quindi, alcun mandato per impegnarsi direttamente nella politica libica, e con un personale di 200 unità – di cui molte per sostenere la missione stessa – si limitava a quello che poteva realizzare.
In linea con una politica di guerra finalizzata a fornire supporto solo su quelle aree dove avevano risorse speciali, gli Stati Uniti assunsero un ruolo particolare solo in alcuni compiti, come ad esempio il monitoraggio e la protezione delle armi di distruzione di massa di Gheddafi o dei sistemi di difesa antiaerea portatili (MANPADS), che erano ritenuti essere diverse migliaia. Come le Nazioni Unite, anche l’Unione Europea (UE) istituì solo una missione politica, piuttosto che le molto più robuste missioni civili-militari che aveva schierato, per esempio, in Kosovo e altrove, sotto la comune politica di difesa e di sicurezza. Francia, Gran Bretagna, Italia e altri Paesi costituirono anch’essi delle missioni. Parte di questo personale fu dispiegato per aiutare ad organizzare i caotici Ministeri Libici.
I compiti essenziali di stabilire la sicurezza, di ricostruire le Istituzioni Politiche, e di riavviare l’economia, tuttavia, sono stati lasciati quasi interamente ai leader della Libia, da cui ci si aspettava, inoltre, che pagassero il prezzo maggiore della ricostruzione, data la ricchezza petrolifera del Paese.
La Libia aveva bisogno – ed ha ancora bisogno – di una vasta revisione delle Istituzioni preposte alla sua sicurezza interna per divenire uno Stato moderno funzionante. Uno dei problemi più gravi della nuova Libia era rappresentato da gruppi armati e dalle brigate rivoluzionarie che avevano combattuto durante la guerra contro il regime e che stavano divenendo una delle principali fonti di insicurezza.
Le forze ribelli che avevano rovesciato Gheddafi erano altamente frammentate e l’idea di un unico «esercito ribelle» era puramente illusoria. L’esercito ribelle era composto in gran parte da ex membri del regime militare che avevano disertato dalla parte dei ribelli nei primi giorni della rivolta, e la loro adesione si era limitata in gran parte a Bengasi e ad altre aree orientali liberate dal regime all’inizio della guerra. In ogni caso, è stato bloccato ad Est per la maggior parte della guerra, non essendo in grado di sfondare il fronte della città di Brega, che si trova a Sud-Ovest di Bengasi, lungo la strada costiera principale che procede verso Tripoli ed altre grandi città del Paese.
I progressi militari che hanno portato alla caduta del regime furono il prodotto di rivolte più organiche esplose altrove nel Paese, specialmente a Misurata e sulle montagne di Nafusah, che si trovano nella parte occidentale, lungo il confine con la Tunisia. Quando la guerra finì, le brigate di queste diverse aree occuparono l’intero territorio nazionale. Questi gruppi non erano in contrasto tra loro, ma non potevano essere considerati uniti.
Le stime del numero totale di gruppi armati in Libia dopo la guerra sono variate in modo significativo. La maggior parte parla di poche centinaia, sebbene alcune valutazioni valutino la presenza di diverse centinaia in singole città, come Misurata.
Ciò che costituisce un gruppo armato è stato un problema per il dibattito e sono stati utilizzati termini diversi, tra cui milizia, brigata («khatiba»), o semplicemente gruppo armato.
Qualunque sia la terminologia scelta, tuttavia, è chiaro che erano diversi tipi di gruppi armati, con differenti storie, capacità ed intenzioni. Ad una estremità, le brigate dei ribelli che avevano combattuto durante la guerra. Queste brigate si differenziavano tra loro sia per le alleanze costruite su base tribale e regionale sia per le capacità e la posizione geografica.
Ci sono stati anche gruppi che non combattevano nelle forze ribelli, nel senso che non erano impegnati nella lotta contro il regime, ma si sono formati, invece, per affrontare i problemi di sicurezza locali sulla scia della guerra. Oltre a questi, bande criminali emerse durante la guerra o dopo, insieme con gruppi jihadisti, soprattutto nell’Est.
In molte regioni e città, i gruppi rivoluzionari si fusero in Consigli Militari durante o subito dopo la fine della guerra, controllando la sicurezza locale. L’autorità dei Consigli variava, tuttavia, a seconda della lealtà della truppa verso i comandanti con cui aveva combattuto.
Dopo la guerra, i Consigli hanno spesso agito come militari in essere, emettendo documenti di identificazione, stabilendo le procedure interne per mantenere la pace, la sicurezza, controllando gli arsenali, e rafforzando le loro strutture di comando e controllo.
Molti di questi gruppi erano abbastanza ben armati. Sebbene all’inizio della guerra vi sia stata una grave carenza di armi, con il progredire del conflitto i ribelli hanno ottenuto armi da supporter esterni e dalla cattura delle caserme del regime.
A posteriori era chiaro che alcuni di questi gruppi armati – in particolare gli jihadisti nel Nord – erano già una minaccia per la sicurezza interna, ma la maggior parte dei leader delle brigate non lo erano, infatti sostenevano le buone intenzioni della rivoluzione e avevano espresso la volontà di disarmare. Nonostante le schermaglie tra i vari gruppi, è possibile affermare che nei primi mesi dopo la guerra si fosse stabilita una certa calma nel Paese.
Disarmare e consolidare il controllo di questi gruppi armati è stata una priorità per il Governo «ad interim» di Abdul Raheem di Al-Keeb dal momento in cui ha prestato giuramento, il 24 novembre, ma la sfida si è dimostrata insormontabile. Anche se il disarmo dei gruppi ribelli è stato ampiamente riconosciuto come una priorità dalla Comunità Internazionale, così come dalle Autorità Libiche, l’UNSMIL aveva un ruolo troppo limitato da svolgere, non avendo, inoltre, alcun mandato di intervenire nella politica libica.
Un altro problema era che l’NTC non aveva delle forze militari affidabili, dovendo fare affidamento quasi interamente su incentivi finanziari e di altro tipo per convincere i gruppi armati a disarmare o ad entrare nelle fila dell’esercito e della polizia.
Subito dopo la guerra, è stata istituita la Commissione Interministeriale per i Combattenti (WAC) per la smobilitazione dei ribelli e la loro reintegrazione. La Commissione ricevette, entro il febbraio del 2012, più di 148.000 registrazioni. La capacità tecnica di gestire una simile mole di domande era estremamente bassa.
Il WAC si è lamentato di non aver ricevuto il finanziamento di cui aveva bisogno da Tripoli: questo era in parte dovuto al sospetto di favoritismo verso alcuni gruppi rispetto ad altri.
Come il WAC ha lottato per gestire le numerose domande di lavoro, il Ministero dell’Interno e il Ministero della Difesa hanno avviato programmi separati di registrazione, complicando il processo nazionale complessivo.
Entrambi i Ministeri erano costituiti in parte dai rivoluzionari e in parte da ex funzionari. Naturalmente, i vertici dei Ministeri erano in gran parte nelle mani dei rivoluzionari, ma questi nuovi leader spesso avevano poca o nessuna esperienza amministrativa e nessuna cognizione delle terribili sfide della riforma del settore della sicurezza. Inoltre, essi si preoccupavano soprattutto di garantire potere e benefici alla regione di appartenenza.
Il Ministero della Sicurezza ha continuato ad essere considerato con sospetto dalle brigate, a causa della precedente partecipazione all’apparato repressivo di Gheddafi.
Un tentativo del Ministero dell’Interno è stato quello di istituire il Comitato Supremo per la Sicurezza (SSC), che ha riunito molti gruppi rivoluzionari. Teoricamente, la creazione del SSC avrebbe dovuto integrare i rivoluzionari scettici per rinforzare o sostituire la già esistente polizia, entro i contorni di un nuovo Stato Libico.
Questo ha portato, in pochi mesi, sotto la sua competenza circa 100.000 rivoluzionari.
Poiché questi ribelli sono stati integrati come unità complete, tuttavia, e poiché lo Stato era intrinsecamente debole e incapace di disciplinarli, hanno continuato a operare in gran parte come forze indipendenti, proprio come avevano fatto prima.
Inoltre, l’incorporazione di alcune di queste brigate, come ad esempio il gruppo radicale islamico delle brigate dei martiri di Abu Salim della città orientale di Derna, che è andata sotto l’ombrello del SSC nel mese di giugno 2012, era di per sé già problematica.
Il Ministero della Difesa ha anche tentato un programma di registrazione nazionale, offrendo pagamenti una tantum per i ribelli che avessero partecipato. La registrazione è avvenuta senza la verifica dei requisiti, quindi molti gruppi hanno deciso di registrarsi più di una volta.
Il programma di registrazione è stato sospeso nell’aprile del 2012, a questo punto il Ministero della Difesa ha riconosciuto una organizzazione ribelle, le Forze Libiche di Difesa (LSF), il cui riconoscimento non implicava la garanzia della fedeltà delle truppe al Ministro della Difesa, Shuwayli, o al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale Mangoush.
Mentre il presunto assorbimento di tali gruppi nello Stato ha dato l’impressione di un progresso e di un crescente ordine, la realtà sottostante evidenziava come le milizie continuassero ad operare in base ai loro interessi. Inoltre portando tali gruppi nel SSC è stata rinforzata la loro legittimità e autorità, senza promuovere l’obiettivo di unificare le forze nazionali. L’SSC è stato considerato sempre più come un alleato delle forze politiche islamiste e, in alcuni casi, anche degli jihadisti.
In assenza di una forte e legittimata autorità centrale, con una popolazione pesantemente armata, un processo di smobilitazione e reintegrazione in fase di stallo, i conflitti interni hanno cominciato a proliferare in tutta la Nazione pochi mesi dopo la fine della guerra. La violenza ha assunto svariate forme, che sono andate dalle dispute tribali, come i violenti scontri tra i Tebu e le tribù arabe a Sebha, alle dispute territoriali e ai conflitti con presunti sostenitori del vecchio regime, infliggendo un duro colpo alla stabilizzazione politica del Paese. Altri scontri tribali si sono verificati a Zuwara nella parte occidentale, a Ghadamis lungo il confine con la Tunisia e a Zintan, lasciando molti morti e feriti. Le fiammate di violenza in Libia Occidentale e soprattutto del Sud nel corso del 2012 hanno provocato molte vittime, oltre alla paura e all’insicurezza causate da gruppi armati in lotta per la spartizione delle risorse.
È interessante osservare come questi conflitti abbiano aumentato il potere delle milizie alleate con le Forze Libiche di Difesa (LSF), e specialmente con quelle di Bengasi, che erano intervenute per sedare la rivolta a Sebha. Queste Forze avevano ottenuto prestigio, esperienza e risarcimenti per la loro cooperazione – il tutto a spese di Tripoli. Ciò che è emerso era una disposizione ad hoc, per la quale l’LSF avrebbe fornito al Governo una base provvisoria e con diversi gradi di efficacia. Le milizie dell’LSF hanno dimostrato di essere al servizio del Governo nell’affrontare i conflitti nel Sud del Paese, ma hanno anche preso parte a saccheggi di edifici governativi e ad attività criminali, come il contrabbando. Come il SSC, la loro autonomia era una fonte di insicurezza intrinseca e di violenza.
È opportuno soffermarsi anche sugli sviluppi prettamente politici della nuova Libia. È stato nell’Est che le forze di opposizione hanno costituito un corpo di coordinamento, il Consiglio Nazionale di Transizione (NTC). Il timone del NTC era in mano a tecnocrati e membri del regime che avevano disertato, la maggior parte di loro dall’apparato militare. Molti di loro avevano tentato, non riuscendovi, di introdurre delle riforme durante il regime di Gheddafi.
L’NTC ha rapidamente dichiarato la sua adesione all’idea di una Libia libera, democratica e unita, e sposato i principi della democrazia politica. Tuttavia, i veri power-broker durante la rivoluzione erano le brigate armate, molte delle quali erano legate ad una città o ad una regione.
Non molto tempo dopo la morte di Gheddafi, l’enorme varietà di gruppi e interessi nella società libica, a lungo repressi, hanno cominciato a trovare nuove forme di espressione. Il crollo dello Stato personalizzato e carismatico ha esacerbato la storica frammentazione del Paese.
Degna di nota in questo senso è stata l’ostilità tra le forze rivoluzionarie, in particolare le brigate armate, verso nulla e nessuno che potesse essere associato con il regime di Gheddafi.
Un secondo risultato immediato della rivoluzione è stato la tensione all’interno del NTC tra la leadership politica e la base rivoluzionaria. Erano definibili come politici i funzionari di alto rango del regime che avevano disertato, così come i membri dell’opposizione in esilio.
Molti leader delle brigate, che a loro parere avevano fatto il «lavoro sporco», si sono risentiti del carattere elitario del NTC. In terzo luogo, subito dopo la cacciata di Gheddafi, le forze liberal-nazionaliste hanno espresso preoccupazione per la presenza di gruppi islamici armati in Libia, e i loro possibili collegamenti transnazionali con altri Paesi in crisi (soprattutto Siria e Mali). Infine, il dopo-rivoluzione è stato caratterizzato dal continuo disaccordo riguardo a coloro che avevano partecipato attivamente e combattuto nella rivoluzione, e coloro che si erano uniti dopo la morte del dittatore.
La cacciata del nemico comune e l’implosione della Jamahiriyya, il Governo delle masse, ha radicalmente modificato la natura dell’Autorità Politica in tutto il Paese. La Jamahiriyya era così schiacciante e centralizzata che, quando è crollata, l’intero Stato è crollato con essa.
Sotto Gheddafi, non vi era una società civile. I partiti politici, i club civici, il commercio, i sindacati, tutte le innocue iniziative civili, quali le associazioni genitori-insegnanti, erano proibite. Data la mancanza di queste basilari organizzazioni della società civile, i Libici hanno trovato necessariamente nella famiglia e nella tribù di appartenenza l’interazione e il sostegno sociale.
Non sorprende, quindi, che nel vuoto di potere scaturito dalla morte di Gheddafi, figure locali – come capi tribù, capi delle milizie o membri di Comitati locali – abbiano ripristinato un senso di organizzazione e di autorità.
La Libia è il prodotto di una notevole serie di trasformazioni. In meno di un secolo, è passata da essere una provincia ottomana ad una colonia italiana, per poi divenire una Monarchia Costituzionale, e trasformarsi in uno Stato Socialista sui generis. Tuttavia, queste rotture nel sistema politico formale della Libia contengono al loro interno delle continuità che costituiscono un nucleo stabile e di lunga data per quanto concerne le relazioni Stato-società civile.
In primo luogo, il clientelismo e il favoritismo sono stati utilizzati da tutte le leadership, con l’eccezione del regime coloniale repressivo fascista, come un mezzo per neutralizzare il dissenso e mantenere il processo decisionale nelle mani della classe dirigente. La stabilizzazione dei regimi attraverso tali pratiche di cooptazione è stata notevolmente migliorata dai ricavi del petrolio, anche se il colpo di stato del 1969 e la rivoluzione del 2011 suggeriscono, inoltre, che la corruzione e le pratiche di sfruttamento promosse dalla disponibilità di queste risorse può essere letale per la sopravvivenza a lungo termine di un Governo.
In secondo luogo, il contesto sociale libico rimane segnato da relazioni e affinità basate su legami primordiali, soprattutto quelli della famiglia e della tribù. Questi legami hanno reso vani gli sforzi per costituire una Nazione integrata e forme più centralizzate di comunità politica – soprattutto una moderna struttura statale basata sulla concorrenza tra forze politiche programmatiche. D’altra parte, essi hanno fornito ai governati strumenti pratici necessari per costruire coalizioni di Governo durevoli. La tutela dei leader tribali o regionali ha effettivamente costituito una sorta di maggioranza popolare per i regimi non democratici che hanno governato la Libia fino al 2011.
Alla luce della frammentazione politica estrema che ha seguito il crollo del regime, era naturale aspettarsi che il Governo di transizione avrebbe cercato di ottenere una legittimità nazionale, cooptando gli svariati gruppi di interessi.
I rivoluzionari che avevano rovesciato la dittatura di Gheddafi nel 2011 sembravano determinati a superare decenni di repressione, di cooptazione e di distribuzione selettiva della ricchezza petrolifera. Di conseguenza, la transizione della Libia ha rapidamente generato un grande sconvolgimento nell’hardware politico, istituendo un sistema di rappresentanza, indicendo elezioni libere e riformando le Istituzioni dello Stato. Cambiare il software istituzionale, d’altra parte, era un’operazione destinata a durare molti anni.
Le pratiche politiche di esclusione del passato sono, tuttavia, riemerse. La concorrenza sempre più brutale, così come la lotta per il potere e per le risorse, hanno plasmato la transizione della Libia, condizionata da un contesto regionale in cui le tensioni con gli islamisti e la violenta repressione dell’opposizione politica si sono intensificate.
Allo stesso tempo, il panorama politico della Libia è indubbiamente più diversificato rispetto a qualsiasi altro Paese. Il nascere e il crollare delle coalizioni rivelano la profonda impronta delle controversie politiche emergenti – in cui estremisti rivoluzionari, islamici, élite moderate e gruppi tribali dominanti sono i principali protagonisti. L’essenza della Libia post-rivoluzionaria è quindi contemporaneamente sia un restringimento sia una diversificazione del campo di battaglia politico. Il punto cruciale della stabilità futura del Paese è rappresentato proprio dal modo in cui si formano e si consolidano le coalizioni di Governo.
Quando il regime di Gheddafi è caduto, gli osservatori si sono affrettati a sottolineare che lo Stato Libico avrebbe dovuto essere ricostruito da zero. Per decenni, la Libia è stata privata di vere Istituzioni Pubbliche Nazionali, e le poche strutture esistenti – in particolare le reti politiche che formavano la spina dorsale del regime di Gheddafi – si erano sbriciolate con la caduta della dittatura.
I rivoluzionari hanno ereditato i resti di una burocrazia meramente di facciata. Ciò che restava era un gruppo di burocrati senza Stato, in particolare nel settore giudiziario e della sicurezza; un’immensa sfida per la leadership del Governo di Transizione che desiderava ricostruire la legittimità e l’efficacia delle Istituzioni.
Durante la rivoluzione e nei dieci mesi che seguirono, l’NTC ha agito come il Governo de facto della Libia. L’NTC è stato guidato da Mahmoud Jibril, consigliere economico di Gheddafi fino alla diserzione nel 2011.
L’NTC si era posto l’obiettivo di fornire alla rivoluzione un volto politico, guidando il Paese nella transizione verso uno Stato libero e democratico.
In ogni modo, gli esperti burocrati e gli ex esiliati politici, che riempivano i ranghi del NTC, non erano in sintonia con la base rivoluzionaria, in particolare con le potenti brigate che accusavano l’NTC di elitarismo e mancanza di trasparenza.
La road-map politica di 20 mesi presentata dal NTC, tra cui le elezioni parlamentari e la stesura di una nuova Costituzione, ha costituito un ulteriore elemento nella lotta di potere tra le diverse fazioni che hanno dominato la classe politica post-rivoluzione. In sostanza, l’assetto politico che seguì il rovesciamento di Gheddafi fu progettato per prevenire una prematura acquisizione dello Stato nascente da parte delle diverse fazioni, ma allo stesso tempo introduceva delle divisioni nel suo stesso nucleo fondante, una chiara indicazione che la lotta per il potere doveva ancora iniziare. Il Congresso Nazionale Generale (GNC), eletto nel luglio 2012 con una affluenza alle urne del 62%, ha rappresentato per le élite un utile mezzo per stabilire una leadership politica.
Dei 200 seggi del GNC, solo 80 sono stati assegnati a liste di partito – il più grande era il NFA (National Forces Alliance) di Mahmoud Jibril con 39 seggi, mentre 17 seggi sono stati assegnati al JPC (Justice and Construction Party) schierato con i Fratelli Musulmani dopo le elezioni.
Altri partiti politici hanno ricevuto da uno a tre seggi. I restanti 120 seggi sono stati riservati a candidati indipendenti, per evitare il predominio della maggioranza nel Parlamento e promuovere l’inclusione politica. A causa della loro diversificata appartenenza e delle continue mutevoli alleanze, è impossibile valutare interamente gli interessi degli indipendenti.
Il Presidente del GNC fu scelto dai suoi membri ed era, di fatto, Capo dello Stato: egli aveva il controllo sulle spese statali e, a partire dal 5 agosto 2013, il mandato di prendere tutte le misure necessarie per stabilire la sicurezza e lo Stato di diritto.
È interessante notare come questo modello di inclusione democratica non abbia cambiato il modo in cui la politica era condotta in Libia. Il successo elettorale del NFA e del JCP derivava dall’ospitare il maggior numero di gruppi di interesse che potevano, attirando in tal modo il maggior numero di elettori possibile. Per entrambe le parti, le connessioni personali dei candidati dei partiti, le caratteristiche individuali e il carisma, le lealtà locali, tribali ed etniche hanno dimostrato di essere cruciali per attrarre voti.
Il NFA nasceva dal NTC. Era un conglomerato di 58 partiti politici, tutti con interessi acquisiti nello Stato Libico e determinati a respingere la minaccia dei progressi elettorali dei Fratelli Musulmani.
Con una prospettiva islamica liberale e moderata, e con molti politici esperti e figure rivoluzionarie tra le sue fila, il NFA riuscì ad attirare la maggioranza dei voti nel GNC, inizialmente a spese del JCP, il cui profilo era marcatamente più ideologico e meno pragmatico. Tuttavia, le affiliazioni all’interno di questa coalizione erano estremamente fluide, e solo le forti relazioni personali la tenevano unita.
Rispetto al NFA, il JCP, affiliato ai Fratelli Musulmani, aveva una eccezionale unità interna, il risultato degli anni che i Fratelli, alcuni dei quali Deputati e Ministri nel nuovo Governo, avevano trascorso insieme in carcere sotto il regime di Gheddafi o in esilio. Oltre a questo, il JCP aveva forgiato con successo alleanze con gli indipendenti islamisti all’interno del GNC. Molti di loro erano anziani Fratelli Musulmani che deliberatamente erano entrati nel GNC come indipendenti per rafforzare l’influenza dei Fratelli Musulmani nel Parlamento. Inoltre, il JCP aveva dimostrato la sua capacità di attrarre altri islamisti indipendenti e rivoluzionari intransigenti singolarmente, ottenendo un grande vantaggio nei confronti del NFA dominante.
Successivamente, il JCP ottenne uno dei suoi più grandi successi quando riuscì a introdurre la Legge di Isolamento Politico, che vietava la vita pubblica e politica agli ex funzionari di Governo, nel maggio 2013. I Fratelli Musulmani furono sostenuti in questa campagna dal CNP (Central Nation Party), salafita e federalista, dai rappresentanti delle roccaforti rivoluzionarie come Misurata, e dalle brigate armate rivoluzionarie.
Il sostegno trasversale a questa legge dovrebbe essere considerato parte integrante della strategia per rimuovere un rivale comune, il NFA, dal Governo – molti membri di questo partito svolgevano attività politica sotto Gheddafi – e ottenere un dominio su tutta la Libia.
La volatilità dei legami di fedeltà nel GNC ha impedito la formazione di una coalizione nell’altra arena: il Gabinetto guidato dal Primo Ministro Ali Zidan, che è stato inaugurato nel novembre del 2012. Come il GNC, la sua composizione rifletteva il nuovo equilibrio politico e geografico del Paese. I Ministeri più importanti – tra cui quello dell’Interno, della Difesa, della Giustizia e degli Affari Esteri – erano stati volutamente assegnati a indipendenti non allineati con i partiti politici, al fine di prevenire controversie.
Il Consiglio dei Ministri è stato costantemente debole in confronto al GNC, non avendo autonomia di bilancio, inoltre il Governo era completamente dipendente dalla buona volontà parlamentare e dalle reti di sostegno che poteva instaurare. Un «turnover» ministeriale estremamente elevato e lo spostamento delle coalizioni all’interno del GNC non hanno aiutato il Governo. Il Primo Ministro Zidan ridusse il Gabinetto ad un Comitato di Crisi, ufficialmente in risposta alla escalation di violenza nel Paese. Ciò potrebbe però anche essere spiegato come una tattica per consolidare il NFA di fronte alla crescente influenza dei Fratelli Musulmani nel GNC.
La scelta deliberata dell’inclusione come strategia guidata da interessi elettorali e di partito avrebbe potuto creare un elemento unificante nel contesto libico frammentato e polarizzato.
Entrambi i due maggiori partiti apparivano inclini a usare il clientelismo nei confronti dei gruppi da cui traevano sostegno.
Il sostegno alla rivoluzione è stato il denominatore comune della coalizione che prese il potere in Libia. In effetti, il credo rivoluzionario era abbastanza potente per forgiare alleanze insolite che condividevano l’obiettivo di completare la cacciata delle forze pro-Gheddafi. Il campo rivoluzionario includeva una variegata compagine: brigate che avevano combattuto nella guerra; i politici esperti del NTC; gruppi islamisti; le tribù anti-Gheddafi e le loro milizie; i federalisti della parte Est del Paese. Queste formazioni si contrapposero ai gruppi che erano rimasti a fianco del regime fino alla fine: tribù lealiste come i Warfalla e i Magarha, le élite politiche e commerciali che avevano legato il loro destino al regime.
Tuttavia, era solo questione di tempo prima che la debolezza intrinseca di questa nuova soluzione politica divenisse evidente. La coalizione anti-Gheddafi era troppo ampia per sopravvivere, scossa al suo interno da interessi e liti, soprattutto in un contesto in cui le norme e le procedure istituzionali erano ancora da definire.
Fin dall’inizio, il CNT fu accusato dalle brigate di essere troppo elitario e collegato al regime di Gheddafi. Nel 2012, il Consiglio dovette confrontarsi con una protesta su vasta scala, avente come centro la città di Bengasi, che chiedeva una maggiore trasparenza, il licenziamento dei funzionari dell’era Gheddafi e l’introduzione della Sharia.
Da allora, il periodo del dopoguerra si è caratterizzato per l’incessante lotta di potere per ottenere più influenza politica, più risorse e più ruoli apicali. Verso la fine del suo mandato, il CNT si è trovato sempre più esposto alla realtà frammentata della Libia post-Gheddafi, in cui una pletora di gruppi di interesse ha combattuto per garantirsi i propri punti di appoggio politico ed economico.
Nella corsa alle prime elezioni democratiche, l’estrema frammentazione degli interessi e i protagonisti che ne facevano parte hanno definito il panorama politico libico. I lealisti di Gheddafi sono stati allontanati. È emersa una nuova spaccatura, tra i «rivoluzionari intransigenti» e i «rivoluzionari centristi moderati». La linea dura della coalizione era composta dai nuovi arrivati nell’arena politica, come i Fratelli Musulmani e i salafiti, le brigate di roccaforti rivoluzionarie come Misurata, le brigate islamiche e i federalisti dell’Est.
I moderati erano coloro che avevano interessi politici ed economici nello Stato Libico, come i politici e i burocrati uniti nel NTC e più tardi nel NFA, le brigate tribali favorite sotto il regime di Gheddafi, che cambiarono fronte nella fase iniziale della rivoluzione.
Coloro che si erano uniti nel campo rivoluzionario della linea dura cercavano un rinnovamento della politica e dell’economia a proprio vantaggio. Tuttavia, l’obiettivo finale era minare le forze centriste pro-rivoluzione. Il NFA ha fermamente respinto l’eccessiva influenza rivoluzionaria, riuscendo a vincere la prime elezioni del GNC e nominando Mohamed Magarief Presidente del GNC, sulla base di un approccio più pragmatico e inclusivo rispetto ai rivoluzionari intransigenti rappresentati dal JCP e dai suoi alleati.
Nonostante il dominio numerico del NFA in Parlamento, il campo rivoluzionario ha ottenuto un grande successo spingendo per decisioni volte ad escludere certi gruppi dall’arena politica. In questo è stato aiutato dal rapporto di forza tra il NFA e le liste di partito del JCP e gli indipendenti, oltre alle sempre mutevoli alleanze tattiche.
La spaccatura tra le due coalizioni in competizione ha raggiunto l’apice quando la Legge sull’Isolamento Politico («Qanun al-’azl al-siyasi») è stata approvata nel maggio 2013. Il passaggio del disegno di legge, che prevedeva che gli ex funzionari del regime potessero essere esclusi dalla vita pubblica del Paese, illustra l’importanza della formazione delle coalizioni e della formazione delle alleanze nella politica della Libia post-rivoluzionaria. È importante evidenziare il potenziale della Legge sull’Isolamento, capace di alterare l’equilibrio di potere nel GNC. Le dimissioni del Presidente Magarief furono un preavviso della lotta di potere che avrebbe coinvolto le due coalizioni.
I conflitti interni alla Libia non avevano suscitato l’attenzione internazionale, soprattutto quella statunitense, fino all’uccisione dell’Ambasciatore Americano Chris Stevens nel settembre 2012 a Bengasi. Prima dell’attacco a Bengasi, vi erano già stati i segnali di nuove minacce alla sicurezza, dato che gli attacchi ai simboli dell’Autorità stavano divenendo sempre più frequenti, per esempio, vi era stato l’impiego di autobombe contro edifici governativi sia a Tripoli sia a Bengasi e l’Ambasciatore Britannico era scampato fortunosamente ad un attentato contro la sua auto. Nonostante il Governo Libico sostenesse che i sostenitori del vecchio regime fossero i responsabili, era chiaro a tutti gli osservatori internazionali il coinvolgimento degli jihadisti.
È importante evidenziare che molti islamici radicali avevano visto nella rivoluzione la possibilità di un’apertura verso uno Stato Islamico secondo i dettami della Sharia. I militanti, con diversi gradi di impegno per la jihad, hanno approfittato della completa assenza di forze di sicurezza governative per mettere radici, regolare vecchi conti, e promuovere la loro causa. Hanno resistito all’impegno da parte dello Stato di riaffermare il controllo, e la loro stessa esistenza complica seriamente il problema della ricostruzione e stabilizzazione, anche se non sono l’unica forza fonte di violenza. L’ampia disponibilità di armi e i confini permeabili della Libia rendevano possibile, fin dal 2012, l’espansione dei gruppi islamici radicali. Nel 2013, si segnalava ormai la presenza di gruppi legati ad Al-Qaeda nel Sud della Libia, essendo stati cacciati dal Mali grazie all’intervento militare francese.
Verso la fine del 2013, la transizione del dopo-Gheddafi divenne ancora più caotica e difficile; una serie di omicidi irrisolti si verificò a Bengasi, la seconda città del Paese; il sequestro lampo dell’allora Primo Ministro Ali Zeidan; l’uccisione da parte delle milizie di civili che protestavano sia a Tripoli sia a Bengasi; coalizioni rivali si sono scontrate all’interno del GNC, eletto nel luglio 2012, sul futuro del Governo di Zeidan e sul mandato del GNC. Il Primo Ministro Zeidan era riuscito a mantenere la sua carica nonostante numerosi tentativi di sfiducia (novembre 2012 e marzo 2014) e una serie di crisi derivanti dalle richieste dei gruppi armati per l’isolamento politico dei funzionari dell’era Gheddafi e dal rafforzamento degli islamisti ad Est e a Sud.
Le elezioni, a lungo attese, per un’Assemblea Costituente sono state rimandate fino al febbraio del 2014, contraddistinte da un’affluenza relativamente bassa alle urne a causa della violenza imperante. Nel marzo del 2014, una coalizione di forze islamiste e indipendenti ha ottenuto abbastanza voti nel GNC per cacciare Zeidan, usufruendo anche del boicottaggio crescente di altri membri del GNC, che ha reso difficile per il Governo operare con un quorum politicamente stabile. Sotto una pressione crescente, i membri del GNC hanno votato per sostituire il predetto organismo con una nuova Istituzione, la Camera dei Rappresentanti (HoR), con 200 membri, a cui sarebbe stata trasferita l’autorità legislativa.
Le tensioni all’interno e all’esterno del Congresso Nazionale erano generate dalle divergenti opinioni sul futuro ruolo e responsabilità delle milizie armate, sull’influenza dei poteri locali sulle questioni nazionali e sulle regole che dovevano disciplinare l’esclusione politica di coloro che avevano occupato posizioni ufficiali durante l’era Gheddafi.
I disaccordi tra i politici islamici e le figure relativamente laiche hanno contribuito al progressivo collasso del consenso verso la transizione. Il contesto nazionale è peggiorato sotto la pressione di una serie di violenti scontri tra civili e milizie.
Nel maggio del 2014, un Generale in pensione delle forze fedeli a Gheddafi, Khalifah Haftar, ha lanciato una campagna militare, non autorizzata da parte delle Autorità provvisorie, contro i miliziani islamisti nella Libia Orientale. Haftar ha agito partendo dal presupposto della colpevolezza dei militanti jihadisti per l’assassinio di agenti di sicurezza, con la cooperazione di jihadisti stranieri, tra cui Al-Qaeda, affiliati regionali e gruppi aventi la base in Siria. Uno degli obiettivi di Haftar era eliminare gli islamisti, tra cui i sostenitori della Fratellanza Musulmana, dalla Libia.
Nei mesi che seguirono la Libia fu teatro di un vasto scontro regionale tra le forze pro e anti islamiche, che vide il coinvolgimento, come supporter di Haftar, dei Governi Egiziano e degli Emirati Arabi Uniti. Le azioni di Haftar e quelle dei suoi avversari hanno contribuito a far emergere alla superficie molte delle tensioni latenti nel Paese, contribuendo alla polarizzazione del contesto nazionale. Questa polarizzazione era chiaramente visibile durante l’estate del 2014 nella lotta politica tra i sostenitori del Primo Ministro Abdullah Al Thinni e la coalizione di leader islamisti e indipendenti all’interno del GNC, che avevano cercato di sostituire Al Thinni prima delle elezioni del giugno 2014 per la nuova Camera dei Rappresentanti.
La campagna militare di Haftar, denominata Operazione Dignità, ha subito diverse battute d’arresto sul campo di battaglia, per mano della formazione terroristica Ansar al Sharia (AAS) e di una coalizione emergente nota come Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi.
Alla metà del 2014, gli scontri sono esplosi anche nella Libia Occidentale, con due coalizioni in lotta per il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, delle strutture governative e strategiche e delle aree intorno alla capitale.
Nel corso del tempo, la lotta e la retorica dei due teatri della guerra civile divennero sempre più interconnessi, sovrapponendosi alle rivalità tribali e regionali. In particolare, alcuni gruppi armati della città di Misurata e delle milizie islamiste più piccole formarono una coalizione, nota come Alba della Libia («Fajr Libia»), che lanciò un’offensiva nel luglio del 2014 per prendere il controllo dell’aeroporto di Tripoli.
Alcuni osservatori hanno descritto gli sviluppi della guerra civile libica dopo la metà del 2014 come una «lotta binaria» tra due coalizioni avversarie. L’elemento centrale, tuttavia, appare lo scontro tra due centri di potere, ognuno dei quali controlla città, tribù e milizie armate, che si contendono la legittimità e l’autorità in un Paese privo di istituzioni efficienti. In Libia oggi esistono due Governi. Il primo ha sede nella città orientale di Tobruk ed è sostenuto dalla Camera dei Rappresentanti eletta nel giugno 2014. Esso gode della legittimità internazionale formulata sulla base del solo risultato delle elezioni, pur attualmente controllando meno della metà del territorio e solo una parte di una delle tre grandi città del Paese.
Il secondo, con sede nella capitale, Tripoli, che esercita un controllo de facto sui Ministeri, è stato nominato dal rinato Congresso Nazionale Generale, nuovamente attivo dopo che i membri della Camera dei Rappresentanti hanno abbandonato la capitale. La dicotomia islamisti versus laici si gioca in questo campo. Pur con differenze e sfumature all’interno di entrambi gli schieramenti, il Governo di Tripoli viene normalmente associato a componenti più o meno moderate dell’islamismo locale, mentre quello con sede nella parte orientale del Paese, al confine con l’Egitto, ha fatto della lotta contro l’islamismo – di qualsiasi natura e sotto qualsiasi incarnazione – il proprio obiettivo e la propria ragion d’essere. Questa situazione è ulteriormente complicata dal fatto che una fitta rete di alleanze regionali ha permesso a entrambe le fazioni, pur con notevoli differenze di intensità, di beneficiare di flussi di denaro, armi e sostegno diplomatico. Mentre Qatar, Sudan e Turchia si sono schierati dalla parte di Tripoli, Egitto ed Emirati Arabi Uniti sono legati a Tobruk nella lotta a tutto campo contro gli islamisti, tanto nei rispettivi Paesi quanto nella regione in generale.
Sullo sfondo di questa contesa, che ha totalmente paralizzato il Paese, si staglia una situazione socio-economica sempre più disagevole per la popolazione. Sebbene le principali istituzioni economico-finanziarie del Paese, formalmente neutrali, abbiano continuato a funzionare, evitando così il fallimento del Paese, per esempio pagando i salari dell’elevatissimo numero di dipendenti pubblici, esistono segnali sempre più pressanti circa la possibilità che si arrivi a una totale paralisi della Libia e al suo collasso economico. A fine maggio 2015, per esempio, l’inviato speciale delle Nazioni Unite, lo Spagnolo Bernardino León, ha ammonito la comunità internazionale intera, nello strenuo tentativo di evitare un ulteriore fallimento del processo negoziale da lui condotto, sostenendo che il Paese si trova sull’orlo del collasso economico e finanziario e che le finanze pubbliche – in gran parte derivanti dalla vendita di idrocarburi – basteranno a tenerlo in vita per 10-12 mesi soltanto.
Questa situazione di caos e di incertezza, da alcuni autori definita come sintomo dell’esistenza di un «semi-failed State», ha favorito la proliferazione di gruppi militanti islamisti di natura estremista. Si tratta di una galassia jihadista molto variegata. Un numero non ben identificato di formazioni – tra le quali spicca Ansar al-Sharia, la milizia più cospicua nell’Est del Paese, già inserita dalle Nazioni Unite nella lista delle organizzazioni terroristiche e ritenuta responsabile dell’assassinio dell’Ambasciatore Americano Chris Stevens a Bengasi nel settembre 2012 – sono eredi dei gruppi rivoluzionari che hanno combattuto nel 2011, hanno avuto accesso a una grande quantità di armi e al sostegno diretto o indiretto della NATO e si sono ulteriormente radicalizzate e rafforzate con lo sgretolarsi dello Stato Libico. Altre, come le tre branche dello Stato Islamico in Libia, rappresentano un fenomeno relativamente nuovo. La crescita e il radicamento di tali gruppi, che hanno comunque potuto contare su un terreno estremamente fertile data la presenza in città come Sirte e Nawfiliya di gruppi pre-esistenti, sono stati profondamente influenzati dalla significativa presenza di combattenti («foreign fighters») libici in Siria (circa 5.000 persone) che hanno fatto ritorno in patria e hanno iniziato a condurre campagne di reclutamento e azioni violente a partire dalla città di Derna.
Tali azioni violente hanno incluso il bombardamento di alcune strutture e uffici amministrativi a Bengasi e Sirte, oltre alla decapitazione di 21 copti.
Sebbene secondo alcuni studiosi la minaccia dello Stato Islamico in Libia non vada eccessivamente enfatizzata, esistono fattori concreti che spiegano la rapida crescita di gruppi che si ispirano a una retorica jihadista nella primavera-estate del 2015.
Dopo mesi e mesi di shuttle diplomacy, che hanno prodotto tre bozze del testo dell’accordo che sono state rigettate da una o dall’altra parte o da entrambe, una quarta – molto probabilmente l’ultima a disposizione del mediatore ONU Bernardino Léon – sembra aver raggiunto un primo parziale risultato con la firma di un accordo quadro preliminare a metà luglio 2015.
L’Accordo Preliminare di Pace di Skhirat, firmato in Marocco da un notevole numero di rappresentanti dei due Parlamenti, l’11 luglio del 2015, avrebbe dovuto portare anche alla formazione di un Governo di Unità Nazionale; il 23 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha riconosciuto all’unanimità il futuro Governo di Unità Nazionale come solo Governo legittimo della Libia, invitando gli Stati membri a rispondere a eventuali richieste di assistenza del nuovo Governo per stabilizzare il Paese.
Tale accordo è stato, tuttavia, accolto dal rifiuto della fazione che fa capo al Governo di Tripoli in assenza di sostanziali modifiche allo stesso. In particolare, uno dei punti contesi del testo riguarda il mandato e i poteri del Consiglio di Stato che, in base all’accordo, dovrebbe assorbire i membri del Congresso Nazionale Generale. L’accordo prevede, inoltre, la creazione di un Governo di Unità Nazionale («Government of National Accord») dotato di ampi poteri anche in campo economico-finanziario e di politica estera e di sicurezza; il prolungamento dell’attività della Camera dei Rappresentanti, che diverrebbe l’unica istituzione con poteri legislativi, per almeno un altro anno; e la creazione del già citato contestato Consiglio di Stato.
Dato che le prospettive per la pacificazione del Paese dipendono in larga misura dall’implementazione dell’accordo raggiunto, sicuramente perfezionabile attraverso la piena inclusione di tutti gli attori libici, alcune azioni andrebbero intraprese, anche con il sostegno dell’Unione Europea. Da una parte, particolare importanza dovrebbe essere attribuita a garantire le minime condizioni di sicurezza per permettere al dialogo politico di portare frutto. In questo senso il debole accordo politico dovrebbe essere sostenuto da una missione di pace delle Nazioni Unite, e con l’ampio sostegno europeo. Dall’altra, il successo a lungo termine della pacificazione del Paese dipenderà in larga misura dalla possibilità di evitare la radicalizzazione delle forze islamiste moderate che, come conseguenza del trend di marginalizzazione nei loro confronti avvenuto in tutta la regione dal 2013 in poi, hanno in alcuni casi abbandonato le vie legali della politica e abbracciato forme violente di lotta contro i rappresentanti dello Stato e la popolazione nel suo complesso.
La firma dell’Accordo non ha ancora condotto alla nascita di un Governo di Unità Nazionale.
Da questa panoramica appare chiaro come le sfide che interessano la Libia nel breve periodo sono essenzialmente due: contrastare il terrorismo di matrice islamista in corso di radicamento nel Paese e gestire l’afflusso di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Europa. Entrambe queste sfide rappresentano altrettanti problemi irrisolti per l’Unione Europea e i suoi Stati membri, oltre a condizionare pesantemente l’andamento delle relazioni tra questi ultimi e la Libia. In realtà le due sfide sopra menzionate sono strettamente connesse con il futuro del Paese in quanto Stato-Nazione e al risultato del processo negoziale in corso.
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