LA POLITICA ESTERA DI TRUMP IN MEDIO ORIENTE

di Daniela Franceschi -


Già in campagna elettorale Trump propose di cambiare radicalmente rotta rispetto alla politica di Obama. Oggi la presenza statunitense nello scacchiere sembra più contenuta, ma ci sono forze strutturali – strategiche ed economiche – che indicano come un disinteressamento per l’area non sarà mai molto probabile.

 

 

Il presidente Trump deve affrontare una serie importante di sfide in Medio Oriente, tra cui la lotta in corso contro lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), il rapporto difficile con l’Iran, dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare e l’imposizione di nuove sanzioni, le conseguenze dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, che rischia di indebolire la leadership saudita minandone la stabilità a lungo termine, il ruolo in espansione della Russia, la politica della Turchia, la crescente attrazione delle ideologie jihadiste e l’attivismo tra i sunniti. Tutto questo quando la politica estera non era stata uno dei temi centrali della sua campagna presidenziale.
Nelle poche dichiarazioni sulla politica estera durante la campagna elettorale, Trump ha sfidato i paradigmi fondamentali della strategia americana in Medio Oriente. Mentre Hillary Clinton ha condiviso l’imperativo della politica americana di perseguire un primato militare e politico in Medio Oriente, Trump ha abbracciato il paradigma dell’“America First”, chiedendosi se la premiership americana nella regione, come definita dalle amministrazioni succedutesi dalla fine della Guerra Fredda, servisse davvero gli interessi degli Stati Uniti. Non era chiaro come Trump volesse tradurre queste posizioni della campagna in una nuova strategia in Medio Oriente, non rivolta, tuttavia, verso una premiership coercitiva attraverso interventi diretti e cambi di regime, ma che ricercasse un equilibrio ragionevolmente stabile del potere, processo in cui gli Stati Uniti si sarebbero impegnati in modo produttivo con tutti i principali player regionali.
Durante la campagna presidenziale, Trump ha messo in dubbio che la leadership in Medio Oriente fosse veramente nell’interesse degli Stati Uniti – con ‘interesse’ qui strettamente inteso come l’insieme di benefici materiali, economici e politici. Ha rifiutato il cambio di regime istigato dagli USA, presentandosi come un avversario dell’invasione dell’Iraq e dell’intervento in Libia (anche se aveva fatto delle affermazioni che sostenevano entrambe le azioni nel momento in cui avevano avuto luogo). È apparso scettico sugli alleati a lungo termine, come l’Arabia Saudita, in quanto partner dell’influenza degli Stati Uniti, mettendo in discussione i legami di sicurezza apparentemente incondizionati. Inoltre, formalmente professava il supporto per la sicurezza di Israele con molto ardore, come qualsiasi altro candidato, ma le componenti politiche filo israeliane temevano che la sua avversione per le alleanze avrebbe potuto estendersi anche allo stato ebraico.
Trump sembrava anche più a suo agio, rispetto alla maggior parte dei membri dell’élite politica degli Stati Uniti, con gli elementi classici del bilanciamento dei poteri (ad esempio le sfere di influenza), essendo meno preoccupato per il coinvolgimento di altre potenze nella regione.
Come candidato presidenziale, Donald Trump ha duramente criticato le politiche del Medio Oriente dei suoi predecessori. La sua critica è stata incentrata su due temi principali: gli enormi costi e i fallimenti dell’America in progetti di Nation Building da un lato, e la debolezza dimostrata nei confronti degli avversari dall’altro. Nella sua percezione, una strategia costruita sul concetto dell’“America First”, gli Stati Uniti dovrebbero ridimensionare gli impegni nella regione, ma dovrebbero rispondere anche con una forza schiacciante a qualsiasi minaccia percepita come vitale per gli interessi nazionali. Anche se Donald Trump ha abbozzato una presenza più contenuta nel Medio Oriente, ci sono forze strutturali strategiche ed economiche che indicano come un disinteressamento del contesto Medio Orientale non è mai stato molto probabile.

Sono tre i capisaldi dell’impegno degli Stati Uniti verso la regione: la vendita di armi in particolare ai partner nel Golfo, un rapporto speciale con Israele, sostenuto da forti forze politiche nazionali negli Stati Uniti, e il continuo interesse americano nella sicurezza del flusso ininterrotto di fonti energetiche dalla regione.
Le vendite di armi verso il Medio Oriente hanno raggiunto il valore di 54,6 miliardi di dollari tra il 2012 e il 2015, con un previsto notevole aumento nel prossimo futuro. Donald Trump ha sottolineato l’importanza di mantenere una forte base manifatturiera negli Stati Uniti, quindi, è probabile che l’industria della difesa sia chiamata a svolgere un importante ruolo in questo senso, il che implica la necessità di garantire ampi mercati di esportazione. L’incerto contesto regionale mediorientale crea anche incentivi per ulteriori esportazioni di armi. I legami tra Stati Uniti e Israele rimarranno forti anche nei prossimi anni, come la forte influenza politica dei gruppi filo-israeliani in un Congresso in gran parte pro-Israele.
Nonostante la crescente indipendenza energetica degli Stati Uniti dal Medio Oriente grazie all’aumentata produzione del petrolio e del gas, l’America hanno ancora un’enorme necessità di un mercato internazionale dell’energia stabile. Gravi interruzioni nel rifornimento danneggerebbero in modo significativo non solo l’economia degli Stati Uniti, ma anche le economie degli alleati in Europa e in Asia. Analizzando le dichiarazioni e le percezioni degli attori chiave della nuova amministrazione Trump sulla regione, l’influenza di queste forze strutturali è visibile nello sviluppo di una nuova strategia americana in Medio Oriente.
La priorità dell’impegno americano è stata fin da subito l’offensiva contro il terrorismo. In un primo tempo, l’amministrazione Trump avrebbe avuto come obiettivo la sconfitta dell’ISIS in Siria, Iraq e altrove nella regione, non appena fosse stato possibile. L’amministrazione Trump ha inoltre indicato che non aderiva incondizionatamente alla deposizione di Assad. Questa politica è stata supportata dalla promessa di Trump che non ci sarebbero stati progetti di Nation Building e militari su larga scala. In questo contesto non ci sarebbero più state controversie con alleati come Israele, Egitto o le monarchie arabe del Golfo riguardo alle loro politiche sui diritti umani o sul terrorismo.
La retorica della campagna presidenziale di Trump è stata incoerente. Ha rifiutato l’intervento in Siria, ma ha approvato la no-fly-zone per proteggere i civili. Trump si è scagliato contro gli interventi degli Stati Uniti; ha, inoltre, aspramente criticato l’accordo sul nucleare iraniano, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati nel maggio di quest’anno, che riduceva senza dubbio le possibilità di un’altra guerra regionale promossa dagli USA.
Come candidato, Trump ha detto regolarmente (senza dare precisazioni) che avrebbe aumentato le azioni militari per ‘distruggere’ l’ISIS e altri gruppi jihadisti. Dal momento dell’elezione, i suoi consiglieri hanno affermato che la sua amministrazione avrebbe aumentato gli attacchi aerei contro gli obiettivi jihadisti in Iraq e Siria, nonché allentato le norme di Obama sull’ingaggio per tali operazioni. Inoltre, hanno escluso la presenza di truppe di terra in entrambi i paesi. Alcuni hanno suggerito che Trump sarebbe stato aperto a cooperare con il governo siriano, che ha il più grande contingente di forze di terra in Siria. Altri consiglieri neoconservatori avevano sostenuto che la sua amministrazione avrebbe fatto pressioni sugli stati sunniti, come l’Arabia Saudita, affinché inviassero delle truppe per ‘liberare’ le aree a maggioranza sunnita in Iraq e in Siria.

Procedendo nell’analisi, a due anni dall’inizio della presidenza di Donald Trump, è possibile affermare che pochi cambiamenti concreti sono stati fatti rispetto alle politiche dell’ex presidente Barack Obama. I cambiamenti che sono stati fatti, tuttavia, stanno minando la cooperazione e la stabilità regionale. La strategia antiterrorismo aggressiva di Trump non è riuscita a includere gli strumenti critici di soft power che aiuterebbero a contrastare l’estremismo; l’Iran continua a espandere la sua influenza attraverso le guerre civili in Siria, Yemen e Libano; e le politiche americane in Israele e Palestina hanno solo intensificato il rifiuto palestinese di qualsiasi accordo di pace mediato dagli Stati Uniti. Con così pochi successi a due anni dall’entrata in carica del presidente, le promesse fatte durante la campagna presidenziale di Trump, tra cui l’eliminazione dell’estremismo islamico, il contenimento l’Iran e la fine della conflitto israelo-palestinese, difficilmente saranno mantenute.
Mentre la politica estera non è stato un elemento centrale della campagna elettorale del presidente Donald Trump nel 2016, sono, tuttavia, stati enunciati tre punti chiave della sua piattaforma politica per il Medio Oriente, abitualmente inclusi nei suoi discorsi pubblici: 1) eliminare l’ISIS e l’estremismo “islamico”; 2) strappare il Piano congiunto d’azione globale (l’accordo sul nucleare iraniano) e affrontare le minacce regionali iraniane; 3) intermediazione e risoluzione globale del conflitto israelo-palestinese. A due anni dall’inizio della sua amministrazione, i tre elementi evidenziati nella sua campagna restano al centro della sua politica in Medio Oriente. Ma in realtà, ci sono stati pochi cambiamenti tangibili rispetto alle politiche dell’amministrazione di Barack Obama, e i risultati dei pochi cambiamenti che Trump ha fatto non hanno prodotto risultati veramente positivi.
Forse nessuna linea di politica estera durante la campagna elettorale ha suscitato una risposta più fragorosa dell’impegno di Trump “a bombardare l’ISIS”. Nonostante la priorità che il presidente ha posto sulla lotta contro l’estremismo islamico, nella sua amministrazione non c’è ancora una articolata strategia per raggiungere questo obiettivo. La strategia antiterrorismo dell’amministrazione Trump ha presumibilmente passato una fase di sviluppo per quasi un anno, ma la strategia promessa rimane finora incompiuta.
In assenza di un quadro globale, l’amministrazione ha focalizzato la sua risposta sulla minaccia estremista quasi esclusivamente in termini di azione muscolare. Il presidente ha dichiarato vittoria nella lotta contro l’ISIS dopo la caduta di Raqqa nell’ottobre del 2017, asserendo che la sua amministrazione aveva fatto “più progressi contro questi terroristi negli ultimi mesi che negli ultimi anni.”. I successi contro l’ISIS, a suo parere, erano il risultato delle decisioni delle persone che aveva incluso nel suo staff e delle nuove regole di ingaggio.

Tuttavia, un’analisi più cauta da parte del Dipartimento della Difesa, che ha notato la continuità della strategia di controterrorismo tra l’amministrazione Obama e quella Trump, ha chiarito che la sconfitta dell’ISIS non era definitiva. In effetti, molti mesi dopo la dichiarazione di vittoria di Trump, appare chiaro che, anche nei suoi più stretti aspetti militari, la lotta contro l’estremismo islamico nel teatro Siria-Iraq sia tutt’altro che terminata. La National Security Strategy riconosce che la capacità degli
Stati Uniti di prevalere nel conflitto contro i gruppi estremisti richiede comunque l’integrazione di tutti gli elementi del potere nazionale. Ma l’amministrazione ha generalmente destituito o minimizzato elementi non prettamente militari e coercitivi della politica estera. Così, non si fa menzione nella strategia di sicurezza nazionale della promozione dei diritti umani, dell’assistenza allo sviluppo, del rafforzamento delle istituzioni politiche, della buona governance, o di altri strumenti di soft power che le amministrazioni precedenti avevano abitualmente definito come elementi chiave fondamentali della loro strategia antiterrorismo.
Le osservazioni dell’amministrazione Trump al bilancio al Congresso, che propongono profondi tagli nei programmi che affrontano le questioni che alimentano l’estremismo violento nella regione, chiariscono come il Nation Building non faccia parte dell’approccio dell’amministrazione alla lotta al terrorismo. Infatti, come Steve Tankel, un analista di controterrorismo presso l’American University, ha scritto sulla rivista Foreign Policy, “la preferenza di Trump per l’azione militare sugli altri strumenti del potere nazionale si estende anche al supporto che è pronto a offrire agli altri paesi. La sua proposta di bilancio avrebbe investito pesantemente nella costruzione di eserciti delle nazioni partner, più che migliorare i settori della sicurezza civile o assistere nello sviluppo economico.”
Seguendo l’analisi di Tankel, gli Stati Uniti hanno intensificato la sola risposta “muscolare” alle minacce estremiste in Yemen, Libia e Somalia. Sotto l’amministrazione Trump, il numero di attacchi di droni è aumentato significativamente in Yemen e in Somalia. Utilizzando la classificazione di Obama dei “campi di battaglia temporanei” o “aree di ostilità attive,” l’amministrazione ha adottato un approccio più muscolare; questo include standard più “morbidi” per le operazioni militari rispetto alle norme dell’amministrazione precedente, soprattutto riguardo al non coinvolgimento dei civili.
In Libia, Trump ha continuato la linea dell’amministrazione Obama verso una maggiore attenzione alla lotta contro l’estremismo islamico a scapito del sostegno continuo agli sforzi dell’ONU per risolvere i conflitti politici interni del paese.
Le conseguenze del cambiamento dell’amministrazione verso un maggiore uso della forza nelle sue politiche antiterrorismo sono chiare come l’aumento notevole del numero di vittime civili nelle operazioni degli Stati Uniti. Il fallito raid delle forze speciali degli Stati Uniti nel gennaio del 2017, nel villaggio di al-Ghayil a Bayda, nello Yemen, ha provocato almeno 30 vittime tra la popolazione, tra cui sei donne e dieci bambini di età inferiore ai 13 anni. In Siria, un presunto attacco degli Stati Uniti sulla Moschea al-Khattab Omar Ibn nel villaggio in mano ai ribelli di Jeeneh nella provincia di Aleppo, affollata di oltre 300 fedeli, ha ucciso più di 40 persone.
L’attuazione di una linea politica contro il terrorismo più aggressiva da parte dell’amministrazione Trump ha portato, a breve termine, a un vantaggio tattico degli Stati Uniti sui gruppi estremisti. Gli sforzi in Siria e in Iraq, che rientrano nelle iniziative attuate dall’amministrazione Obama, sono riusciti ad eliminare il controllo dell’ISIS su buona parte del territorio. Nello Yemen, vi è qualche evidenza che al-Qaeda è stata indebolita dalla intensa campagna antiterrorismo condotta dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, e appoggiata dagli Stati Uniti, ma le conseguenze a lungo termine non sono così promettenti. L’assenza di un chiaro impegno a fornire aiuti per la ricostruzione di società devastate dalla guerra e nell’assistenza allo sviluppo delle istituzioni politiche ed economiche significa la creazione di spazi non governati, in cui i gruppi estremisti esistenti o nuovi possono mettere radici. Inoltre, intensificando le operazioni militari in paesi come lo Yemen, dove la presenza dell’intelligence americana è limitata e la comprensione della situazione sul terreno non chiara, esiste il rischio che qualsiasi azione bellica generi un numero elevato di vittime tra i civili. A sua volta, la morte di civili innocenti allontanerà le popolazioni locali, il cui favore è essenziale per ottenere risultati nella lotta degli Stati Uniti contro i gruppi estremisti. Sulla base dei primi due anni in carica, le prospettive dell’amministrazione Trump per sconfiggere ed eliminare l’estremismo islamico sono poco promettenti.

Alla pari con i suoi impegni per eliminare l’estremismo islamico, e spesso fondendo i due temi, durante la campagna elettorale Trump ha espresso la sua determinazione nel voler smantellare il piano globale d’azione comune (JCPOA), noto anche come accordo sul nucleare iraniano, oppure ritirarsi completamente da esso, come in effetti ha poi fatto. In un discorso a Youngstown, Ohio, Trump ha dichiarato che “l’accordo nucleare mette l’Iran, lo stato numero uno come sponsor del terrorismo islamico radicale, su un percorso per le armi nucleari. In breve, la politica estera di Obama-Clinton … ha messo l’Iran in una posizione dominante di potenza regionale che, di fatto, aspira ad essere una potenza mondiale dominante.”
Come presidente, Trump ha continuato i suoi attacchi contro il JCPOA. Nel settembre del 2017, nel suo primo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti “non possono rispettare un accordo se prevede la copertura per l’eventuale costruzione di un programma nucleare. L’accordo sull’Iran è stato uno dei peggiori che gli Stati Uniti abbiano mai stipulato. Francamente, è una vergogna per gli Stati Uniti … “. Solo poche settimane dopo, Trump ha presentato la sua strategia sull’Iran, che ancora una volta ha puntato molto sui gravi errori del trattato.
L’accordo di Camp David è stato firmato dall’Iran e da cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dalla Germania (P5+1). L’accordo è stato una svolta per Teheran che ha accettato di sospendere il suo programma nucleare in cambio della fine delle limitazioni al petrolio iraniano, delle sanzioni economiche e dell’embargo sulle armi. L’accordo avrebbe aperto la strada per investimenti esteri diretti e avrebbe permesso all’Iran di partecipare all’economia globale. Allo stesso modo, l’accordo poteva aumentare il commercio del Paese e il PIL, reintegrando l’Iran nei mercati globali, e aprendo alla cooperazione con altri Stati nel sistema internazionale. L’Iran ha utilizzato questa nuova forza economica e l’accesso alle armi per sostenere i suoi alleati ed estendere la sua influenza regionale. Nell’ultimo periodo, dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo e la conseguente imposizioni di nuove sanzioni, l’economia iraniana ha subito una battuta d’arresto e vive adesso una grave crisi finanziaria.
Nonostante la sua intensa attenzione per i termini del accordo nucleare iraniano, la maggior parte delle affermazioni del presidente erano estranee al programma nucleare. In effetti, i problemi su cui gli alleati regionali degli Stati Uniti (con l’eccezione di Israele) hanno posto l’attenzione, in genere, non riguardavano il comportamento dell’Iran riguardo alle sue armi nucleari. Al contrario, chiedevano un appoggio per contrastare la minaccia dei missili balistici, il sostegno al terrorismo, e l’interferenza nelle politiche interne dei vicini, in particolare in Yemen e in Bahrain da parte del regime degli ayatollah.
Trump ha risposto a queste preoccupazioni. A Riad, parlando a una platea di leader degli stati arabi e islamici, il presidente ha affermato che “dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran fornisce fondi e armi alle milizie terroristiche”. Allo stesso modo, alle Nazioni Unite, Trump ha dichiarato: “è tempo per tutto il mondo di unirsi a noi nel chiedere che il governo iraniano metta fine alla sua ricerca della morte e della distruzione…Soprattutto, il governo iraniano deve smettere di sostenere i terroristi… e rispettare i diritti sovrani dei suoi vicini “.

Ma le azioni politiche di Trump non hanno rispecchiato la sua robusta retorica contro l’Iran. Ha elaborato quattro punti cardine, nella strategia annunciata nell’ottobre del 2017, per contrastare l’Iran: lavorare con gli alleati per contrastare l’attività di destabilizzazione del regime e il supporto ai gruppi terroristici nella regione; mettere ulteriori sanzioni contro il regime per bloccare il finanziamento del terrore; affrontare la proliferazione dei missili e delle armi del regime iraniano che minacciano i suoi vicini, il commercio globale, e la libertà di navigazione; impedire al regime tutti i percorsi per dotarsi di un’arma nucleare.
Quasi sei mesi dopo, l’amministrazione ha intrapreso alcuni passi concreti per raggiungere gli obiettivi di questa strategia sull’Iran. Come Dennis Ross ha osservato in un articolo su Foreign Policy, “fino ad oggi, il sostegno di Trump agli israeliani e ai sauditi è in primo luogo simbolico. Mentre il simbolismo conta chiaramente qualcosa, ha bisogno di essere sostenuto dalla sostanza per non perdere il suo significato.” Al contrario, mentre l’amministrazione Trump si concentra sui gesti simbolici e le dichiarazioni retoriche, l’Iran continua a rafforzare la sua presa in Siria e Iraq; espande la propria assistenza agli Houthi nello Yemen, compresa la fornitura di tecnologia missilistica consentendo loro di minacciare grandi centri abitati sauditi e degli Emirati; e valorizza il ruolo di Hezbollah, suo alleato forte nel mondo arabo, profondamente impegnato in Siria e nello Yemen e minaccia costante per la sicurezza di Israele.
Ironia della sorte, le minacce del presidente al JCPOA, che gli altri firmatari dell’accordo vedono ancora come l’unico elemento della politica verso l’Iran che sta funzionando, impedisce la cooperazione internazionale per affrontare gli altri elementi problematici del comportamento iraniano. A seguito di un incontro nel gennaio del 2018 con il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, i ministri degli Esteri del Regno Unito, della Francia, della Germania e dell’Unione europea hanno insistito con la stampa che l’accordo nucleare “ha reso il mondo più sicuro e ha impedito una possibile corsa agli armamenti nucleari nella regione.” L’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, aveva sottolineato che qualunque tentativo di affrontare altre questioni controverse con l’Iran, compreso il suo programma missilistico e il comportamento aggressivo nella regione, dovevano essere separati dall’accordo sul nucleare.
Nel maggio del 2018, gli Stati Uniti si sono effettivamente ritirati dall’accordo sul nucleare.
Trump non ha presentato alcuna prova che l’Iran non si stesse conformando agli obblighi imposti. Né il presidente né i paesi stranieri che sostengono la sua decisione, soprattutto Israele e l’Arabia Saudita, hanno presentato alcuna prova che l’Iran è tecnicamente in violazione del trattato.
Invece, la decisione del presidente sembra ruotare intorno ai difetti del trattato stesso. Il primo è che l’accordo non è del tutto permanente; le restrizioni sul programma nucleare iraniano iniziano a diminuire circa 10 anni dopo la firma dell’accordo (anche se la clausola di non costruire un’arma nucleare è permanente). Il secondo è che l’accordo non ha risolto le altre questioni problematiche del comportamento dell’Iran, incluso lo sviluppo di missili balistici e il suo sostegno alle milizie estremiste in tutto il Medio Oriente (come Hezbollah in Libano).
Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump ha più volte definito l’accordo con l’Iran “il peggior accordo mai fatto”. Inoltre, sembra essere una priorità per questa amministrazione abbattere le realizzazioni della presidenza precedente, come la riforma sanitaria o l’accordo sul clima di Parigi o, appunto, l’accordo sul nucleare iraniano.

Nel frattempo, gli amici e partner in Medio Oriente degli Stati Uniti sono sempre più scettici sulla capacità dell’America di raggiungere un reale progresso nella riduzione della minaccia iraniana per la sicurezza e la stabilità regionale, e stanno cercando altre potenze mondiali, tra cui Russia e Cina, per il supporto necessario.
A differenza delle questioni scottanti dell’Iran e dell’estremismo islamico, l’approccio di Trump al conflitto israelo-palestinese durante la campagna presidenziale rifletteva il suo interesse in quanto rappresentava una sfida per le sue qualità di negoziatore.
Nel marzo del 2016, Trump ha confermato al New York Times che “avrebbe avuto una migliore possibilità di chiunque altro di fare un accordo” tra israeliani e palestinesi. Anche se ha suggerito in quel momento che avrebbe negoziato l’accordo personalmente, ha chiarito, alla vigilia del suo insediamento, che avrebbe incaricato il genero, Jared Kushner, di assumersene la responsabilità. Trump ha detto al pubblico durante un evento del 19 gennaio che “in tutta la mia vita ho sentito che è l’accordo più difficile da fare, ma ho la sensazione che Jared stia facendo un ottimo lavoro.”
A poche settimane dal suo insediamento, Trump ha continuato sulla stessa linea durante un incontro alla Casa Bianca con Netanyahu. Nel corso di una conferenza stampa congiunta, Trump ha dichiarato: “stiamo andando a fare un accordo. Potrebbe essere un accordo più grande e migliore di quanto la gente in questa stanza possa capire”. Ha utilizzato la stessa nota positiva in una riunione del settembre del 2017, incontrando il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas a New York. Trump ha detto ad Abbas, “abbiamo una vera, ma molto vera possibilità [per la pace tra israeliani e palestinesi], e certamente dedicherò tutto il mio cuore e la mia anima per ottenere che l’accordo sia fatto. Il nostro team è esperto; la tua squadra è esperta. Israele sta lavorando molto per lo stesso obiettivo, e devo dire che l’Arabia Saudita e molte altre nazioni stanno lavorando molto duramente.”
Nonostante la sua determinazione per risolvere il conflitto, l’approccio dell’amministrazione è estremamente vago. Nella conferenza stampa con Netanyahu, Trump ha lasciato gli ascoltatori perplessi quando ha rifiutato di confermare che gli Stati Uniti avrebbero continuato il tradizionale impegno per una soluzione a due stati; “sto guardando a due stati e ad uno stato”, ha suggerito Trump, aggiungendo “mi piace quello che entrambe le parti vogliono.” Il riferimento di Trump ai sauditi nella sua conferenza stampa congiunta con Netanyahu riflette ulteriormente l’interesse dell’amministrazione per un approccio “outside-in” che fa affidamento su partner regionali, in particolare i sauditi, per guidare al posto degli Stati Uniti una normalizzazione politica con Israele e fare pressione sui palestinesi affinché accettino una proposta di mediazione e facilitare in questo modo una risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
Il rendere noto al grande pubblico il concetto di “outside-in” ha messo i sauditi in una posizione scomoda. Pur esprimendo il supporto per l’impegno dell’amministrazione a perseguire un’iniziativa di pace israelo-palestinese, i sauditi si sono uniti agli altri leader della Lega Araba, almeno in pubblico, per sottolineare che la loro posizione era rimasta in linea con quella dell’iniziativa di pace araba redatta la prima volta nel 2002 dal re saudita Abdullah bin Abdul-Aziz Al Saud. Tale iniziativa comprendeva la normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani e la creazione di normali relazioni diplomatiche a seguito di un accordo israelo-palestinese. L’amministrazione Trump ha visto la crescente confluenza di interessi tra Israele e Arabia Saudita, in particolare sulla condivisa preoccupazione per l’attivismo iraniano, come un’opportunità per fare pressione al fine di una normalizzazione delle relazioni con Israele.
La decisione nel dicembre del 2017 di “riconoscere” Gerusalemme capitale di Israele e spostarvi l’ambasciata americana ha gravemente complicato, anche se non ha del tutto distrutto, la possibilità che l’amministrazione riuscisse veramente a promuovere un accordo di pace definitivo israeliano-palestinese. L’amministrazione continua a insistere sul fatto che andrà avanti nei suoi sforzi per un accordo di pace, i cui termini rimangono, tuttavia, estremamente vaghi.
Lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha intensificato il rifiuto palestinese della politica dell’amministrazione Trump. Oltre all’opposizione ad incontrare i rappresentanti degli Stati Uniti di alto livello, tra cui il vice presidente Mike Pence, Abbas ha rifiutato il ruolo degli Stati Uniti come mediatore nelle trattative di pace. In un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel febbraio del 2018, il leader palestinese ha invitato il Consiglio ad organizzare una conferenza internazionale entro la fine dell’anno; ammettere lo Stato palestinese come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite; e riconoscere le linee di armistizio del 1967 come il confine internazionale tra Israele e Palestina. Nelle circostanze attuali, anche se la proposta degli Stati Uniti è significativamente più favorevole alla posizione palestinese, è improbabile che i palestinesi saranno disposti a impegnarsi nelle trattative.
La risposta saudita all’annuncio americano sull’ambasciata è stata estremamente negativa, ma i funzionari palestinesi hanno riferito che il principe ereditario Mohammed aveva incoraggiato Abbas a rimanere aperto verso un accordo di pace degli Stati Uniti. La reazione negativa palestinese e internazionale verso la posizione dell’amministrazione Trump su Gerusalemme ha portato i sauditi e gli altri Stati del Golfo a ritirarsi ulteriormente dal loro supporto per lo sforzo di mediazione statunitense.
La loro riluttanza ad abbracciare l’iniziativa dell’amministrazione Trump si è approfondita con l’irrigidirsi della Casa Bianca. Affermazioni ripetute che la questione di Gerusalemme era ormai “fuori dal tavolo”, così come l’annuncio che lo spostamento dell’ambasciata si sarebbe tenuto nel maggio del 2018, hanno approfondito e intensificato le preoccupazioni di Riad riguardo alla cooperazione con l’amministrazione americana, che poteva comprometterne seriamente lo standing nazionale e regionale. Sono stati particolarmente sensibili alle critiche sul loro coinvolgimento provenienti dai rivali Turchia e Iran. A questo punto, gli stati del Golfo non saranno certamente disposti a fare pressioni sui palestinesi, anche se il principe ereditario saudita Mohammed ha fatto ogni sforzo in questo senso durante la sua visita a Washington nel marzo del 2018.

Dopo due anni dall’inizio dell’amministrazione Trump, la fiducia inizia a sgretolarsi; l’elezione di Trump era stata accolta calorosamente dai governi in Israele e in molte altre parti del mondo arabo. Da Tel Aviv al Cairo a Riad, le opinioni politiche di Trump erano viste come antidoto ai fallimenti dell’amministrazione Obama.
Ma i partner regionali degli Stati Uniti stanno cominciando a riconoscere che la linea politica di questa amministrazione è molto retorica e a corto di realizzazione pratica. In realtà, l’amministrazione Trump è semplicemente troppo caotica e imprevedibile per implementare nuove politiche.
Come risultato, i partner regionali esprimono ancora fiducia nell’amministrazione e senza dubbio sarebbero pronti ad abbracciare un eventuale successo dell’amministrazione, ma sono anche pragmaticamente alla ricerca, in un senso più ampio, di un supporto internazionale e stanno diventando sempre più assertivi nel difendere i loro interessi.
Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno resistito alle richieste degli Stati Uniti di risolvere il loro conflitto con il Qatar, che l’America considerava un pericolo per la sicurezza e la stabilità del Golfo. La promessa di un vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo a Camp David, se ci fossero stati passi positivi verso la normalizzazione delle relazioni all’interno dell’organizzazione, non ha modificato la loro posizione che non prevede compromessi.
La decisione di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme ha messo fine alla disponibilità dell’Arabia Saudita di fare pressione sui palestinesi affinché accettassero un piano di pace israelo-palestinese, ancora da definire, mediato dagli Stati Uniti.
Nonostante il suo entusiasmo per le politiche dell’amministrazione Trump nel contesto israelo-palestinese, Netanyahu ha guardato a Vladimir Putin, e non al presidente americano, per cercare di limitare il potere dell’Iran e ridurre le tensioni in Siria.
Infatti, i paesi leader della regione continuano a ribadire che fanno affidamento sull’amministrazione Trump per affrontare la minaccia iraniana e l’estremismo islamico, ma stanno anche rafforzando le relazioni con le altre potenze mondiali, in particolare la Russia e la Cina. Alti dirigenti sauditi e degli Emirati hanno viaggiato a Mosca e Pechino al fine di bilanciare i rapporti di Teheran con i due paesi e ottenere un’accoglienza più amichevole per i loro interessi. I sauditi hanno annunciato un importante acquisto di armi dalla Russia, senza dubbio un segnale che indica come l’Arabia Saudita abbia più opzioni per proteggere i propri interessi nell’area. Anche l’Egitto, il pilastro fondamentale della presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente per quasi 40 anni, ha rafforzato i suoi legami con i russi e persegue potenziali trattati sulle armi con Mosca come salvaguardia contro l’incoerenza degli Stati Uniti.

Retorica a parte, non è chiaro quale direzione l’amministrazione Trump intenda adottare nella sua politica in Medio Oriente nei prossimi anni. Progressi significativi nello sfidare l’Iran o nel processo di pace israelo-palestinese appaiono improbabili data l’attuale traiettoria delle politiche dell’amministrazione. Mentre ci sarà probabilmente un successo nel tentativo di sconfiggere l’ISIS attraverso i mezzi militari, l’eliminazione dell’estremismo islamico rimarrà una sfida duratura per gli Stati Uniti.
Né è chiaro se gli Stati Uniti siano pronti a dedicare risorse significative alla regione. Amici e alleati, insoddisfatti della linea dell’amministrazione Trump, non sono certamente rassicurati dalla strategia di difesa nazionale americana, secondo la quale: “la competizione tra Stati è strategica, non il terrorismo, ed è ora la principale preoccupazione per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti “. Se, infatti, l’attenzione e gli sforzi degli Stati Uniti verso la sicurezza nazionale riguarderanno la competizione strategica con la Cina e la Russia, è improbabile che ci sarà un impegno costante verso il Medio Oriente.
Agli inizi del mese scorso, il 3 novembre, il Presidente Trump ha annunciato, attraverso un video su twitter, il ripristino delle sanzioni contro l’Iran, sanzioni che riguardano il settore delle banche e del petrolio, assi cardini dell’economia iraniana.
Saranno otto i Paesi che potranno continuare a importare petrolio iraniano senza incorrere nelle sanzioni degli Stati Uniti, tra cui Italia, Giappone, Corea del Sud, Cina e Turchia. La decisione di Trump non desta stupore, inoltre, le divergenze con l’Europa riguardo al dossier Iran sono sempre state molto forti; infatti, l’Europa ha costantemente espresso dure critiche verso l’intransigente posizione statunitense. Indubbiamente, il ripristino delle sanzioni spazza via il lavoro diplomatico e politico svolto negli ultimi anni per fermare le ambizioni atomiche iraniane.
Per l’amministrazione americana, l’Iran è uno “stato canaglia”, quindi, la linea della “tolleranza zero” andrà avanti fino a quando il regime degli ayatollah non cesserà di sostenere il terrorismo islamico, di destabilizzare il Medio Oriente (Siria, Libano e Yemen), e di sviluppare i programmi nucleari e missilistici.
La leadership americana in Medio Oriente ha iniziato a indebolirsi dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. Il deterioramento del predominio strategico degli Stati Uniti è continuato durante la presidenza Obama. In assenza di nuovi sviluppi, l’era Trump vedrà un progressivo sgretolarsi della premiership posseduta dagli Stati Uniti nell’area mediorientale fin dagli anni Settanta e la crescita, al contempo, di una grande competizione multipolare per il potere e l’influenza nel Medio Oriente.

 

 

Per saperne di più

Aleem, Z. (2016) “Iran’s big new oil deal with Shell will help keep its nuclear agreement safe from Trump,” Vox, December 7.

Baker, P. (2015) “G.O.P. Senators’ Letter to Iran About Nuclear Deal Angers White House,” The New York Times, March 9.

Bergen, P. (2016) “Inside the mind of Trump’s national security guru,” CNN, November 13.

Boot, M. (2016) “Trump’s ‘America First’ Is the Twilight of American Exceptionalism,” Foreign Policy, November 22.

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