LA VIOLENZA SULLE DONNE NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
di Michele Strazza -
In Belgio e in Francia nelle prime fasi del conflitto si registrarono numerosi stupri da parte di soldati tedeschi, puntualmente documentati da organizzazioni internazionali e da associazioni feministe. Nel 1919 a Versailles si decise di procedere contro i colpevoli, introducendo il reato di “crimine contro l’umanità”. Ma di fatto solo pochi processi furono istituiti.
Nell’agosto del 1914, nel corso dell’invasione del Belgio da parte dell’esercito tedesco le truppe germaniche si macchiarono di numerosi episodi di stupro ai danni delle donne belghe, suscitando allarmate reazioni nell’opinione pubblica.
Anche nel nord della Francia vennero denunciati casi di violenza carnale commessi dai reparti tedeschi, puntualmente registrati da una commissione d’inchiesta alleata.
Sulle violenze perpetrate in Belgio e nella Francia settentrionale forniscono informazioni importanti le testimonianze delle tante donne europee e americane, soprattutto dottoresse ed infermiere, che si recarono sul posto per assistere le vittime degli stupri.
Tra esse ricordiamo le volontarie dell’American Women’s Hospital che operarono tra le profughe. Entrando in contatto con le ricoverate della Matérnité di Chalons sur Marne, un ospedale dei “quaccheri” britannici, furono documentate tragiche situazioni, come quella di una bambina di soli 13 anni violentata da soldati ubriachi, poi aiutata da tutte le donne ricoverate durante la gravidanza e il parto.
Molte di queste volontarie erano anche convinte militanti femministe e colsero quell’occasione per elaborare importanti riflessioni “sul modo di pensare che predisponeva gli uomini alla violenza e che la guerra andava rafforzando”, scrivendo saggi immediatamente censurati dalle autorità. Così Ellen Newbold La Motte, infermiera della Croce Rossa in un ospedale militare in Belgio, nel suo The Blackwash of War (New York-London, Putnam, 1916), sostenne che la violenza sulle donne non si manifestava soltanto nello stupro, dovendo essere ricercata nella stessa mentalità maschile che considerava il corpo femminile un bene di consumo e di divertimento, proprio come il cibo e il vino.
Anche per Esther Pohl Lovejoy, ostetrica e suffragista americana, il problema della degradazione sessuale non era limitato al solo stupro. Dopo aver diretto in Francia nel 1917 l’American Women’s Hospitals, un ospedale condotto da sole donne, e aver operato in una Résidence Sociale parigina che accoglieva le profughe della Francia settentrionale, descrisse le sue esperienze in The House of the Good Neighbor (New York, Macmillan, 1919). Recatasi ad Evian-les-Bains “per vedere e conoscere di più” osservò: «E’ più difficile resistere all’effetto cumulativo della paura e del bisogno che alla violenza […] I figli della guerra sono la prova vivente di una forza più grande della violenza e dell’oltraggio deliberato. Sono il risultato della guerra, delle mutate relazioni e condizioni portate dalla guerra. Sono le conseguenze dei protettorati individuali che si sono stabiliti […]. Il soldato brutale che sfonda la porta di una casa con il calcio del suo fucile non è altrettanto pericoloso per l’onore e la felicità di quella casa di colui che arriva con un atteggiamento gentile e con un pezzo di pane per i bambini e che assicura alla donna protezione da tutti tranne che da se stesso».
Su tale linea alternativa le femministe del tempo si opposero alla centralità del dibattito sugli stupri, proponendo “un modo diverso di parlare del rapporto guerra e violenza alle donne”. Esse finivano, in tal modo, per contestare che lo stupro fosse “la sola sofferenza femminile ad avere riconoscimento pubblico” mentre i propri cari morti erano visti solo come “sacrifici volontari, generosamente offerti alla patria”.
Pur continuando a battersi per il riconoscimento degli stupri come crimini internazionali, come richiesto nel 1914 dall’International Council of Women, esse avevano come obiettivo quello di arrivare a una radicale condanna contro “la guerra in quanto tale”. Di qui il sottolineare lo stretto rapporto tra militarismo e violenza alle donne, in cui la seconda diventava diretta conseguenza del primo. Spiegava Grace Isabel Colborn nel 1914: «Il punto di vista militare è quello del disprezzo della donna, la negazione di qualsiasi valore che non sia la riproduzione. E’ questo spirito del militarismo, la glorificazione della forza bruta, che ha tenuto la donna in schiavitù politica, legale, economica».
La guerra rappresentava essa stessa “un oltraggio alla maternità” e la “degradazione del corpo femminile”. Temi, questi, che vennero riproposti, il 10 gennaio 1915, al Congresso di Washington al quale parteciparono 3.000 donne in rappresentanza dei movimenti femminili americani. Così si espresse Emmeline Pethick-Lawrence, femminista e socialista britannica: «Pensate a quegli uomini impregnati del sangue dei loro fratelli, pensate alla donne profughe prive di riparo che portano nel loro grembo violato i figli della generazione futura, pensate a quelle madri che cercano di soffocare i lamenti dei bambini tra le loro braccia, che si nascondono nei boschi, nelle fosse di qualche villaggio desolato, pensate a quei treni che riportano a casa i morti…Se gli uomini possono tollerare tutto questo, le donne non possono!»
Ma pur accettando un obiettivo generale come la condanna della guerra nella sua totalità, non si poteva rinunciare alla battaglia di far dichiarare lo stupro come un crimine internazionale. Il 10 marzo 1919 tre associazioni femminili, la Union française pour le suffrage des femmes, il Conseil national des femmes françaises e la Conférence des femmes suffragistes alliées inviarono una petizione alla Conferenza di Pace per l’istituzione di una commissione interalleata per la ricerca e la liberazione delle donne deportate e per la punizione dei colpevoli degli stupri. La petizione, firmata da ben 5 milioni di donne americane, affermava: «Tali crimini, oltre a rappresentare un mostruoso insulto alla dignità della donna, colpiscono il cuore stesso della società, la famiglia […] e pongono la società nell’alternativa seguente: o accettare la propria distruzione, tollerare il fatto che stuprare le donne e le ragazze, mutilarle, ridurle in schiavitù, costringerle alla prostituzione, diventi attraverso la forza del precedente una consuetudine ammessa dalle leggi di guerra, oppure condannare senza appello un tale precedente».
Le richieste delle associazioni femminili non avrebbero però trovato accoglimento. Infatti, nonostante la “Commissione sulla violazione delle leggi di guerra” della Conferenza avesse proposto l’istituzione di un Tribunale supremo internazionale e nonostante all’interno degli episodi di violazione delle “leggi di guerra, dell’umanità e della coscienza pubblica” avessero trovato spazio gli stupri commessi in Belgio nel 1914 e quelli di massa perpetrati in Serbia, venendo contemplato espressamente il reato di stupro, le conclusioni della Commissione non vennero accettate per la ferma opposizione dei rappresentanti degli Stati Uniti, i quali contestarono la definizione stessa di “crimine contro l’umanità”, ritenendo il concetto di “umanità” un principio vago e giuridicamente infondato. Stigmatizzando, infine, una netta distinzione tra lecito e illecito, dichiararono che la misura dell’ammissibilità di una pratica di guerra risiedeva nel vantaggio militare.
Si tenga presente che nonostante, alla fine della guerra, il Trattato di Versailles del 28 giugno 1919 avesse previsto per l’ex Kaiser un giudizio internazionale, non se ne fece niente per il rifiuto dei Paesi Bassi di estradare l’imputato e per la stessa opposizione degli Stati Uniti, dubbiosi sull’operatività di una Corte internazionale. Solo alcuni processi vennero svolti in Germania, a Lipsia, ma si conclusero con un nulla di fatto: 888 dei 901 imputati per crimini di guerra non vennero neanche processati mentre solo gli altri 13 furono condannati, ma non scontarono le pene.
Per saperne di più
Askin K.D., War Crimes Against Women. Prosecution in International War Crimes Tribunals – The Hague (L’Aia), Kluwer Law International, 1997.
Bianchi B., “Militarismo versus femminismo”. La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi pubblici delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, n. 10, 2009.
Gaultier P., La barbarie allemande – Paris, Librairie Plon, 1917.
Hartman Morgan J., German Atrocities: An Official Investigation – London, Fisher Unwin, 1916.
Strazza M., Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali – Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata-CRPO, 2010.
Toynbee A. J., The German Terror in Belgium – New York, George H. Doran, 1917.
Toynbee A. J., The German Terror in France – London, Hodder & Stroughton, 1917.