LE FARNETICANTI BASI SCIENTIFICHE DEL RAZZISMO
di Renzo Paternoster -
Il razzismo biologico è un fenomeno relativamente recente. Antichissima è invece la tendenza a discriminare l’“altro” in funzione politica, sociale e religiosa. La finalità del razzismo, in tutte le sue varianti, consiste nel legittimare la discriminazione o l’oppressione di un popolo o di una categoria di persone.
Si racconta che lo scienziato Albert Einstein, giunto in America dopo la sua fuga dalla Germania nazista, alla domanda inclusa nel modulo d’immigrazione sulla “razza di appartenenza”, rispose: umana.
Quest’aneddoto non è confermato, ma tutti sappiamo che il grande fisico dovette vivere sulla propria pelle la discriminazione razziale, essendo ebreo. Partendo da questo episodio, sorge spontanea la domanda: esistono più razze umane? Rispondiamo subito di no, non esistono diverse razze umane e l’idea di una distinzione razziale tra essere umani è destituita di qualsiasi validità scientifica.
Per lungo tempo il concetto di “razza” si è fondato sulla base delle diversità del fenotipo (dal greco phainein, che significa “apparire”, e týpos, che significa “impronta”), cioè delle caratteristiche somatiche esterne, tra cui maggiormente il colore della pelle. Con lo sviluppo della genetica si è iniziato a guardare al genotipo (ossia la composizione genetica di un organismo) come elemento distintivo dei gruppi umani.
Allora è possibile scientificamente definire il concetto di “razza”? Rispondiamo ancora no. Dal punto di vista scientifico è scorretto dividere gli uomini in “gruppi” caratterizzati da differenze di pelle o da altre caratteristiche. Tutti i gruppi etnici hanno lo stesso numero di cromosomi e le differenze geniche tra le varie “razze” sono insignificanti, mentre c’è una grande variabilità genica individuale all’interno di ogni singola “razza”. In definitiva nella differenza, siamo tutti parenti. Questo è avvenuto grazie alla mescolanza genetica, conseguenza dei continui scambi migratori che si sono verificati nella storia dell’umanità. Se i gruppi razziali non possono essere biologicamente definiti, le categorie razziali sono allora costrutti sociali.
Nell’antichità il razzismo non è biologico ma si basa su differenze politiche, linguistiche, culturali e religiose. Uno dei primi documenti che sembra legittimare la discriminazione tra gli uomini è probabilmente una stele risalente all’antico Egitto del XIX secolo a.C. Vi è scritto: «Frontiera Sud. Questo confine è stato posto nell’anno VIII del Regno di Sesostris III, Re dell’Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di questa frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibito a qualsiasi nero, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzino».
Non tutti gli studiosi concordano con la traduzione del termine “nero”, alcuni rapportano il vocabolo a “nubiani”, gli abitanti della Nubia, regione comprendente l’Egitto Meridionale (Bassa Nubia), lungo le rive del Nilo, e la parte Settentrionale del Sudan (Alta Nubia). Tuttavia la sostanza non cambia, poiché i nubiani erano di carnagione nera. Però, quella degli Egizi fu solo una discriminazione di natura politica, perché dopo la conquista della Nubia la popolazione di pelle nera fu integrata saldamente nella civiltà dell’antico Egitto.
Gli antichi Greci e Romani, più che associare l’appartenenza alla razza, collegavano il concetto di cittadinanza a quello di civiltà, dividendo il genere umano non in razze, ma in popoli (étnoi). La cittadinanza presso gli antichi Greci e nell’Impero romano rendeva giuridicamente liberi, un privilegio sociale, politico e giuridico, non certo biologico. Chi accettava i valori della civiltà greca o romana era riconosciuto cittadino. Lo stesso termine “barbari” utilizzato da Greci, poi dai Romani, oggi usato con un significato ostile o di scherno, indicava unicamente tutti i non-greci (nella radice della parola, infatti, la ripetizione della sillaba “bar”, restituisce in maniera onomatopeica il balbettìo incomprensibile): se un barbaro parla il greco o il latino chiaramente non è più un barbaro.
L’Impero Romano fu la società più multietnica dell’antichità, non conosceva persecuzioni di “diversi” in quanto tali, ma solo quando questi rappresentavano una minaccia o non volevano sottomettersi all’ordine costituito. Ad esempio, l’ostilità verso gli ebrei non fu di tipo razziale, ma politica e poi religiosa. L’appartenenza a un gruppo etnico non era causa dello status sociale e chiunque, in teoria, poteva migliorare la propria condizione economica e sociale. Lo stesso privilegio della cittadinanza non fu distribuito secondo la razza, ma secondo la fedeltà a Roma.
Durante l’epoca medievale si assiste a un’ondata di discriminazioni verso altri popoli o verso una categoria di persone, ma sono tutte dovute a motivi religiosi e politici e non razziali. In questo periodo dilagano le violenze tra cristiani e musulmani, le persecuzioni contro eretici e pagani, le “guerre” all’interno dello stesso cristianesimo fra cattolici e ortodossi e fra cattolici e protestanti, si accendono i roghi per condannare uomini e donne accusati di stregoneria, si acutizza l’odio cristiano contro gli ebrei.
Quest’ultimo popolo è quello più perseguitato nella storia: già avversati prima del Cristianesimo, lo saranno in seguito ancor più quando l’Europa si cristianizzerà. Tuttavia, per buona parte del Medioevo sarà un’avversione non a sfondo biologico, ma di natura religiosa e politica, tant’è vero che all’interno della Cristianità, chiunque avesse accettato di essere battezzato, quale che ne fosse l’origine razziale, avrebbe dovuto essere considerato un cristiano al pari di qualsiasi altro. Il forte spirito comunitario e la forte identità culturale degli ebrei hanno scatenato da sempre l’ostilità di altri popoli nei loro riguardi; a questo si aggiunga il pregiudizio religioso: il popolo ebraico è ritenuto l’erede di quello che fece uccidere Gesù il Cristo. Questa avversione verso gli ebrei prenderà erroneamente il nome di antisemitismo.
Il termine “antisemita” fu coniato dal giornalista viennese Wilhelm Marr nel 1879 per indicare l’ostilità nei confronti degli ebrei. Probabilmente Marr riprese il termine semitisch coniato dallo storico tedesco August Ludwig von Schlözer come aggettivo per indicare il gruppo delle lingue che comprende il siriaco, l’aramaico, l’arabo, l’ebraico, il fenicio, tutti idiomi parlati da quelle popolazioni che un passo biblico fa discendere da Sem, figlio di Noè (cfr. Genesi, 10, 21-31). Se usato correttamente, dunque, il vocabolo “antisemitismo” dovrebbe indicare l’ostilità nei confronti dell’intera famiglia semitica e non solo verso gli ebrei.
Gli ebrei non sono il solo popolo a essere perseguitato in questo periodo. Infatti, man mano che l’Europa cristiana allargava i suoi confini, venne a galla un sentimento di superiorità verso i popoli colonizzati non cristiani che determinò violenza e arbitrio.
Con la scoperta di “nuovi mondi” e “nuovi popoli” la superiorità europea caratterizzò la storia: il contatto con popolazioni sinora conosciute, con struttura fisica differente dal fenotipo noto in Europa, determinò una nuova “alterità”: questi popoli furono così giudicati “non umani”, privi di ragione, sentimento e moralità, e per questo andavano sterminati o sottomessi. Ovviamente vi furono anche dei cattolici, come ad esempio Bartolomeo de Las Casas, che sostennero l’uguaglianza degli uomini a prescindere dalle differenze etniche o religiose (rimando al mio La prima Carta dei Diritti Umani nacque nel Nuovo Mondo, in «Storia in Network», numero 110, dicembre 2005).
La demonizzazione degli ebrei e la scoperta di nuovi popoli in America, Asia e Africa gettò le basi del razzismo biologico, che a sua volta generò la strage di molti popoli e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (tra cui l’abominevole tratta dei neri).
Nel 1684, il medico e filosofo francese François Bernier, a seguito di osservazioni effettuate nei suoi numerosi viaggi, nel suo Nouvelle division de la Terre par les différentes éspèces ou races d’homme qui l’habitent suggerì l’idea dell’esistenza di diversi tipi di uomini, ciascuno localizzato su un continente, distinti dal colore della pelle e da altre caratteristiche fisiche e somatiche. Bernier, tuttavia, non ne ricavò giudizi di superiorità o inferiorità di un “tipo” rispetto a un altro.
Nella prima metà del Settecento, il medico e naturalista svedese Carl von Linné (latinizzato in Linnaeus, poi divenuto Linneo) si servì per la prima volta, come criterio distintivo delle razze, del colore della pelle, dividendo i gruppi umani in bianchi, neri, rossi e gialli. Il grande progetto di classificazione umana fu messo nero su bianco nel suo Systema naturae (1735).
Nel 1749, il naturalista Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, sosteneva nella sua Histoire naturelle de l’homme, che la formazione delle razze sarebbe in sostanza il risultato dell’esposizione alle condizioni materiali di un determinato ambiente. In pratica, il naturalista francese sosteneva che, per effetto di differenti condizioni ambientali, ovvero per degenerazione ambientale, da un unico “tipo” umano si sarebbero originate tutte le altre razze umane. Così, per il naturalista francese, i gruppi «naturali» di individui sono determinati da peculiari caratteri morfologici.
Nel XIX secolo, con lo sviluppo delle scienze naturali, si sviluppano in Europa teorie scientifiche che determinano il peggioramento della situazione in termini di razzismo. Il primo a porre le basi del pensiero razzista moderno fu il diplomatico e filosofo francese Joseph Arthur, Comte de Gobineau. Nel suo Essai sur l’inégalité des races humaines (1853) sviluppò il concetto di “decadenza razziale”. In pratica la decadenza delle “civiltà dei bianchi” è dovuta, secondo il filosofo francese, a una mescolanza tra popolazioni bianche e quelle di colore. Per questo egli sostenne che, per arrestare questo decadimento della razza bianca, si doveva attuare un disegno di discriminazione delle razze “inferiori”.
Dalla teoria evolutiva di un’unica razza, che poi si sarebbe diversificata a causa delle diverse condizioni ambientali, si ripassò a quella “poligenetica”, che farebbe risalire le popolazioni del mondo a progenitori diversi.
Nel 1775, l’antropologo tedesco Johann Friedrich Blumenbach, nel trattato De generis humani varietate nativa, riprese la precedente suddivisione dei gruppi umani (caucasici, mongoli, etiopi, amerindi, malesi), assegnando questa volta un preciso ordinamento gerarchico delle razze, basato su criteri estetici e in cui naturalmente la precedenza era assegnata al proprio gruppo di appartenenza (la caucasica, quella europea). Blumenbach, involontariamente, diede corpo alle teorie razziste in Europa.
Grande sostenitore della teoria poligenetica fu Edward Long, storico e amministratore coloniale britannico in Giamaica. Nel capitolo “Negroes”, incluso nel secondo dei tre volumi della sua History of Jamaica (1774), propone una classificazione delle razze basate su tre specie umane: gli europei e i loro affini, i negri, gli orang-utan (il primate più vicino all’uomo, che condivide circa il 97% del nostro patrimonio genetico) sino a tutte le scimmie antropomorfe senza coda.
La teoria razzista di Long conteneva anche un’altra eresia scientifica: i mulatti, sosteneva il britannico, in virtù della loro “mescolanza di razza” sono sterili. Ovviamente questo non è vero, e lo stesso Long poteva constatarlo direttamente vivendo in Giamaica.
Una curiosità sul termine “mulatto”: deriva dallo spagnolo mulàto (con riferimento al mulo, animale ibrido), espressione a sua volta ripresa dall’arabo movallad o muallad, che indicava in origine il figlio nato da padre arabo e madre non araba.
Fervente sostenitore della teoria poligenetica delle origini umane fu lo storico tedesco Christoph Meiners. Nel 1785, con il suo Grundriss der Geschichte der Menschheit (Lineamenti della storia umana), inaugurò la strada al razzismo scientifico in Europa. Egli postulò la teoria dell’esistenza di una pluralità di razze umane con caratteri ereditari e indelebili, ordinate gerarchicamente in base a giudizi di valore. Ovviamente, anche per lui gli Europei (esclusi gli Slavi) sarebbero superiori a tutti gli altri popoli.
Da Meiners in poi le farneticazioni pseudo-scientifiche sulle razze umane si ampliarono. Verso la fine del Settecento, l’anatomista olandese Petrus Camper, introducendo per primo l’utilizzo dell’angolo facciale in anatomia comparativa (ossia quell’angolo che si forma tra una linea orizzontale passante per il foro uditivo esterno e la spina nasale inferiore e un’altra verticale passante per la parte più sporgente della fronte e dei denti incisivi), suddivise le razze umane su una base di tipo estetico, associando il concetto di “fisicamente bello”.
Le misure dell’angolo facciale di Camper, furono poi prese in considerazione dalle emergenti teorie razziste. Queste associarono lo sviluppo delle facoltà intellettive all’angolo facciale. In pratica, partendo dall’idea che le facoltà intellettive hanno sede nei lobi frontali del cervello (l’angolo facciale è tanto più aperto quanto più il cranio è sviluppato anteriormente) si potevano determinare le razze superiori da quelle inferiori. Secondo Camper l’angolo facciale del nero non superava i settanta gradi, e ciò era un evidente sintomo della sua somiglianza con la scimmia.
A conclusioni simili arrivarono altri studiosi. Tra questi, l’antropologo francese Julien-Joseph Virey, nella sua Histoire naturelle du genre humain (1801) incrementò le argomentazioni di Meiners, ribadendo che le razze bianche sono belle, a differenza di quelle nere che sono brutte. Verso il 1845, anche Anders Retzius, docente svedese di anatomia, sostenne le teorie di Camper e coniò il concetto di indice cefalico. Secondo l’accademico, poiché le teste lunghe e strette (cosiddette “dolicocefale”) erano assai più belle e armoniche di quelle larghe (chiamate “brachicefale”), non vi era alcuna incertezza sull’evidenza che gli uomini bianchi europei erano dotati di migliori “facoltà dell’anima” rispetto ai neri.
Arthur de Gobineau, diplomatico e filosofo francese, nel suo saggio Essai sur l’inégalité des races humaines (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane), pubblicato nel 1853-54, suddivise le razze umane in bianca, nera e gialla, attribuendo a ciascuna determinate caratteristiche morali e psicologiche innate per sostenere la tesi della superiorità dei bianchi sui neri e sui gialli. Secondo il diplomatico gli Stati si avviano prima o poi sulla strada del loro progressivo declino a causa della progressiva degenerazione dei popoli causata dal “meticciato”, in altre parole dalla mescolanza di sangue tra razze diverse. A questo si poteva ovviare preservando la purezza della razza superiore, quella ariana ovviamente.
La teoria di Charles Darwin sull’evoluzione, darà consistenza alla credenza della degenerazione della razza. Sebbene il biologo e naturalista britannico non mirasse chiaramente a costruire una teoria razziale, la sua opera The Origin of Species (1859) diede notevole impulso al successivo sviluppo delle teorie razziali attraverso il “darwinismo sociale”, nonostante nel saggio ci fossero tutti gli elementi necessari per smentire il razzismo. Il darwinismo sociale non è altro che l’applicazione dell’evoluzionismo alla società umana.
Francis Galton, cugino di Darwin, nell’opera Inquiries into the human faculty and its development (1883), introdusse il neologismo eugenics, derivandolo dal greco eugéneia (di buona stirpe, di buona nascita), per indicare il programma finalizzato a migliorare, attraverso procreazioni selettive, la specie umana. Nasce l’eugenetica, la disciplina che si proponeva il miglioramento della specie umana. Nella sua forma estrema, l’eugenetica sociale arrivò a proporre la necessità di eliminare gli individui affetti da malformazioni congenite e da malattie ereditarie.
Nel 1922 è coniato negli Stati Unti il termine under man (sub-umano), che poi diventerà il cavallo di battaglia dell’ideologia nazista della “purezza della razza”. Autore è Theodore Lothrop Stoddard, tra i padri del razzismo scientifico, che intitola un suo saggio The Revolt Against Civilization. The Menace of the Under Man (La rivolta contro la civilizzazione. La minaccia del sub-umano), in cui definisce sub-umani i bolscevichi russi. Il termine sarà adottato poi dai nazisti, grazie alla versione tedesca del libro: Der Kulturumsturz: Die Drohung des Untermenschen.
Se le prime teorie razziste giustificarono il sistema schiavistico nel continente americano e africano, la politica di sfruttamento nel periodo coloniale e la discriminazione razziale negli Stati Uniti d’America, la strumentalizzazione politica di queste nuove teorie razziste giustificherà i tragici eventi realizzati da governi razzisti nel Novecento.
In particolare i teorici del nazismo ebbero spianata la strada per giustificare qualunque violenza e discriminazione verso gli ebrei, i rom e i sinti, gli omosessuali, i portatori di handicap fisico e mentale, consegnando alla storia la vergogna dell’Olocausto degli ebrei e del Porrajmos dei rom e sinti; della sterilizzazione coatta dei cosiddetti Erbkranke, ossia gli individui affetti da malattie degenerative; dell’eutanasia infantile che portò all’eliminazione di neonati e bambini sotto i tre anni con gravi malformazioni e disabilità congenite; dell’eutanasia degli adulti portatori di una malattia inguaribile; dell’eliminazione fisica di chi era portatore di gravi menomazioni fisiche e mentali.
L’affermarsi della convinzione della superiorità dei bianchi sui neri, portò dal 1948 al 1993 al governo dell’apartheid nella Repubblica Sudafricana. Apartheid vuol dire nella lingua afrikaans “separazione” e fu una politica di segregazione e divisione razziale che regolava le relazioni tra la minoranza bianca e la maggioranza non bianca della popolazione (bantu, neri africani, coloured, persone con discendenza mista, e asiatici) in Sudafrica. Dal 1948 al 1993 il razzismo di Stato della Repubblica Sudafricana permise l’attuazione di leggi che prescrivevano per ciascun gruppo i luoghi da frequentare, il tipo di lavori da esercitare e a quale tipo di sistema scolastico poteva accedere. Ovviamente, per legge, erano proibite quasi tutte le relazioni interrazziali e l’esclusione dei non bianchi da ogni forma di rappresentanza politica.
Il massiccio flusso migratorio di popoli che scappano dalla guerra, la disparità economica tra il Nord del mondo opulento e il Sud povero, il riemergere di un nazionalismo esasperato, stanno riportando a brutte derive razzistiche il mondo contemporaneo, come se secoli di storia infame sul razzismo non ci avessero davvero insegnato niente. Diceva già nel 1942 l’antropologo ebreo Ashley Montagu: «I problemi della razza sono essenzialmente problemi di relazioni umane, e i problemi della razza non sono che una delle tante prove del nostro fallimento nelle relazioni umane».
Per saperne di più
Barbujani G., L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2006.
Cavalli Sforza L.L., Cavalli Sforza F., Piazza A., Razza o pregiudizio? L’evoluzione dell’uomo fra natura e storia, Einaudi, Torino 1996.
Delacampagne C., L’invenzione del razzismo. Antichità e Medioevo, trad. it. Ibis, Pavia 2000 (orig. 1983).
Fredrickson G.M., Breve storia del razzismo, Donzelli, Roma 2005 (orig. 2002).
Morrone A., I colori della pelle. Lineamenti di anatomia e fisiopatologia della cute scura, CIC Edizioni Internazionali, Roma, 1999.
Mosse George L., Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari 2007 (orig. 1978).