L’OLOCAUSTO HERERO E NAMA NELL’AFRICA TEDESCA
di Renzo Paternoster -
La storia dell’Africa tedesca del Sud-Ovest è scritta col sangue, intessuta di razzismo e di sete di potere. Tra il 1884 e il 1908 la colonia tedesca fu il laboratorio per la creazione di campi di concentramento e la sperimentazione delle prime forme di eliminazionismo di massa.
Il colonialismo non è stato solo espansione e dominazione economica e militare, ma anche biopotere, razzismo violento ed etnocentrismo culturale, che ha prodotto massacri in grande stile.
La dichiarata superiorità degli europei sui popoli americani, africani e asiatici è la justa causa delle potenze coloniali per sottomettere militarmente e senza scrupoli intere comunità locali, appropriandosi delle loro terre, giudicate res nullius, per qualificarle geograficamente e giuridicamente.
Tutti gli Stati europei parteciparono all’occupazione e allo sfruttamento territoriale realizzati con la forza a danno di popoli ritenuti arretrati o selvaggi. La Germania si aggiunse per ultima alle altre potenze colonialiste europee, lanciandosi in un’intensa campagna coloniale nel cuore dell’Africa.
L’impero tedesco si inserisce nel colonialismo del continente nero soprattutto per motivi politici piuttosto che squisitamente economici: il cancelliere Bismarck voleva contrastare l’espansionismo francese e inglese, oltre a voler scaricare le tensioni politiche interne su territori periferici. La decisione di “allargare” l’impero tedesco fu presa anche su pressioni della Lega pangermanista, che si fece attiva propagandista della superiorità razziale dei tedeschi e del loro diritto di dominio sui popoli “inferiori”. Solo in un secondo momento l’espansione coloniale tedesca fu legata all’ambizione di grandezza e a ragioni economiche.
Il ritardo con cui la Germania intraprese la sua politica coloniale non lasciò molte possibilità: il Secondo Impero dovette accontentarsi di stabilire il dominio su quelle poche terre ancora non “occupate” dai cosiddetti popoli civili.
Alla Conferenza di Berlino (15 novembre 1884-23 febbraio 1885) si decise il futuro del continente africano. Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Germania e Stati Uniti, con la presenza come osservatori di Austria-Ungheria, Svezia, Danimarca, Italia, Impero Ottomano e Russia, si spartirono le terre africane.
La Germania dovette accontentarsi del Camerun, del Togo, dell’Africa Orientale Tedesca (corrispondente agli Stati di Burundi, Ruanda e Tanzania, escluso l’arcipelago di Zanzibar già possedimento britannico) e dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest (un’area corrispondente a gran parte della Namibia moderna, eccetto l’enclave britannica di Walvis Bay e le isole dei Pinguini).
La distribuzione dei territori africani fu fatta sulla base di una spietata violenza ideologica e geografica, che non tenne minimamente conto delle caratteristiche storiche, antropologiche e culturali dei popoli che vi abitavano. Così l’espansione coloniale europea produsse sulle popolazioni locali effetti devastanti, visibili ancora oggi: smembramento di intere comunità etniche, espropriazione di terre e di bestiame d’allevamento, schiavitù, povertà.
Ai nuovi “padroni”, comunque, non interessava annichilire le popolazioni locali, che dovevano servire come manovalanza per sfruttare le risorse locali. Le uccisioni avevano lo solo scopo di punire e scoraggiare ribellioni. Tuttavia, di fronte alla resistenza irriducibile di alcuni gruppi etnici, il ricorso allo sterminio di massa divenne l’unica “medicina” per salvaguardare gli interessi dei colonizzatori. Fu questo il caso degli Herero e dei Nama nell’Africa tedesca del Sud-Ovest.
Il gruppo etnico dei Nama o Namaqua (che vuol dire “popolo Nama”) costituisce un sottoinsieme del più ampio gruppo etnolinguistica sudafricano dei Khoikhoi (conosciuto anche con il nome di Ottentotti, termine che deriva dall’olandese “balbuziente”, per il caratteristica suono della loro lingua). Originariamente i Nama, uno dei più antichi gruppi indigeni della Namibia, vivevano intorno al fiume Orange, con uno stile di vita principalmente pastorale e seminomade, praticando una politica della proprietà della terra in comune.
Uno dei più celebrati eroi di questo gruppo etnico è stato Hendrik Witbooi (ca. 1830-1905), capo Nama nella lotta di liberazione dalla colonizzazione tedesca. Conosciuto come “Nanseb Gaib | Gâbemab”, ossia “il capitano che scompare nell’erba”, in riferimento alla sua tattica militare per combattere gli occupanti tedeschi, fu ucciso in battaglia il 29 ottobre 1905 nei pressi di Vaalgras, vicino Koichas.
Samuel Daniel Shafiishuna Nujoma, primo presidente della Namibia indipendente (1990-2005) lo ha ricordato il 26 agosto 2002 durante la cerimonia di inaugurazione del maestoso monumento “Heroes’ Acre”, situato a dieci chilometri dalla capitale Windhoek, dedicato agli eroi martiri della Namibia: «Il capitano Hendrik Witbooi è stato il primo leader africano che ha preso le armi contro gli imperialisti tedeschi e gli occupanti stranieri in difesa della nostra terra e integrità territoriale. Noi, la nuova generazione di Land of the Brave [“patria dei coraggiosi”; Namibia, Land of the Brave è l’inno nazionale namibiano, n.d.a], siamo ispirati dall’azione rivoluzionaria del capitano Hendrik Witbooi, morto in combattimento contro gli imperialisti tedeschi che hanno colonizzato e oppresso il nostro popolo. Per il suo spirito rivoluzionario e la sua memoria visionaria umilmente offriamo il nostro onore e rispetto».
Un altro grande gruppo etnico della regione è quello degli Herero. Gli Herero costituiscono il ramo occidentale della più ampia famiglia etno-linguistica Bantu. Giungono in Namibia intorno alla metà del XVI secolo, provenendo dall’Africa centrale. Un tempo tribù potente e bellicosa, gli Herero avevano un’economia basata quasi esclusivamente sull’allevamento bovino. La necessità di assicurarsi le terre da pascolo portò questo gruppo etnico a conflitti tribali prima con gli Ovambo (a ovest) che li scacciarono e poi con i Nama che li decimarono.
All’arrivo dei coloni tedeschi, Herero e Nama misero da parte le antiche rivalità e si associarono nella lotta contro l’invasore bianco.
Ancor prima della Conferenza di Berlino, il 24 aprile 1884, il cancelliere tedesco Bismarck dichiarò colonia tedesca un’area corrispondente a gran parte della Namibia moderna, eccetto la strategica zona di Walvis Bay, sotto influenza britannica, e le isole del Guano (o isole dei Pinguini). Il 7 agosto 1884 fu issata la bandiera tedesca sul nuovo possedimento, che fu chiamato Deutsch-Südwestafrika (Africa tedesca del Sud-Ovest).
Nell’aprile dell’anno dopo fu fondata la Deutsche Kolonialgesellschaft für Südwest-Afrika. Nel maggio dello stesso anno Ernst Heinrich Göring (padre del futuro delfino di Hitler, Hermann) fu nominato Commissario e stabilì il suo governo a Otjimbingwe (dalla lingua herero Otjiherero, ossia “luogo rinfrescante”, riferendosi alla sorgente naturale presente).
La Deutsch-Südwestafrika fu l’unica colonia dove i tedeschi si stabilirono in gran numero, di conseguenza gli espropri di terre e animali alla popolazione locale fu totale.
Partendo dalla considerazione che i popoli indigeni africani erano considerati come sotto-uomini, per cui tutto si poteva nei loro confronti, il regime coloniale nell’Africa tedesca del Sud-Ovest fu vorace e violentemente razzista: oltre alle già riferite confische di terra e bestiame, furono praticate continue umiliazioni agli indigeni e alle loro tradizioni, lavori forzati, violenze sulle donne.
Così descriveva nel 1831, durante le sue lezioni universitarie di filosofia della storia, la natura dei “negri africani” Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il filosofo dell’idealismo tedesco: «Nell’Africa vera e propria (l’Africa subsahariana) è la sensibilità il punto a cui l’uomo resta fermo: l’assoluta incapacità di evolversi. Egli manifesta fisicamente una grande forza muscolare, che lo rende atto a sostenere il lavoro, e bonarietà d’animo, ma accanto ad essa anche una ferocissima insensibilità. [...] L’Africa, per tutto il tempo a cui possiamo storicamente risalire, è rimasta chiusa al resto del mondo. È il paese dell’oro, che resta concentrato in sé: il paese infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé. [...] Gli Europei non hanno quindi acquistato che poca conoscenza dell’interno dell’Africa; per contro, qualche volta ne sono usciti fuori popoli che si sono dimostrati così barbari e selvaggi, da escludere ogni possibilità di annodar relazioni con essi. [...] In questa parte principale dell’Africa non può aver luogo storia vera e propria. Sono accidentalità, sorprese, che si susseguono. Non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono. [...] Caratteristico dei negri è infatti proprio che la loro coscienza non è giunta alla contemplazione di una qualsiasi salda oggettività − come ad esempio Dio, legge − a cui possa aderire la volontà dell’uomo e in cui egli possa giungere all’intuizione della propria essenza. [...] Il negro rappresenta l’uomo nella sua totale barbarie e sfrenatezza: per comprenderlo, dobbiamo abbandonare tutte le nostre intuizioni europee. Nel suo carattere non si può trovar nulla che abbia il tono dell’umano. Appunto per ciò non ci possiamo immedesimare davvero, col sentimento, nella sua natura, come non possiamo immedesimarci in quella di un cane. [...] Simile assoluta svalutazione dell’uomo spiega come la schiavitù costituisca in Africa il rapporto basilare del diritto. L’unico rapporto essenziale che i negri hanno avuto, ed hanno, con gli Europei è quello della schiavitù. I negri non vedono in essa nulla che sia sconveniente. In questo senso la schiavitù ha contribuito a risvegliare un maggior senso di umanità presso i negri. [...] La schiavitù è ingiustizia in sé e per sé, perché l’essenza dell’uomo è la libertà: ma per giungere a questa egli deve prima acquistare la maturità necessaria. [...] Da tutti questi tratti risulta che ciò che caratterizza l’indole dei negri è la sfrenatezza. Questa loro condizione non è suscettibile di alcun sviluppo o educazione» [G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1963, pp. 236-244].
Il razzismo tedesco si manifestò dunque in tutta la sua drammatica violenza fisica e morale, distruggendo le basi economiche, culturali, spirituali e politiche dei popoli indigeni. Ai Nama e agli Herero rimaneva l’alternativa di soccombere lentamente o ribellarsi. Alcuni passarono al servizio dei nuovi proprietari delle loro terre e del loro bestiame, altri scelsero la seconda opzione.
La prima rivolta contro i coloni tedeschi ebbe luogo fra il 1893 e il 1894: a insorgere furono i Nama, guidati dal capo Hendrik Witbooi. I guerrieri ottentotti si dimostrarono molto resistenti, soprattutto perché adottarono la tattica della guerriglia su un territorio che conoscevano bene.
Mentre i soldati tedeschi cercavano di domare la rivolta, nel 1903 il governatore Leutwein decise la creazione di riserve per gli Herero, con l’intenzione di tenere sotto controllo la tribù, ormai priva di terre e, quindi, pronta a ribellarsi.
Per domare l’insurrezione della tribù dei Bondei, nel frattempo scoppiata in prossimità del fiume Orange, e per tenere sotto controllo gli ultimi rivoltosi Nama, il governatore Theodor Leutwein dovette concentrare le scarse forze militari della colonia nel centro-sud del possedimento. Gli Herero ne approfittarono e il 14 gennaio 1904, guidati dal capo Samuel Maherero, iniziarono un’insurrezione armata trucidando il piccolo presidio di Waterberg. Guidati dal loro capo Samuel Maherero, gli Herero sterminarono centoventitrè tra soldati e coloni, risparmiando donne, bambini, missionari e coloni britannici.
Ad accendere il fuoco della rivolta Herero fu la conquista tedesca di Okahandja, luogo di sepoltura del “vecchio Herero”, con l’abbattimento degli “alberi sacri” e la trasformazione del cimitero in fattoria per coloni.
Dopo aver assaltato e sterminato il presidio militare di Waterberg, i rivoltosi sabotarono la linea ferroviaria d’interesse strategico che le autorità coloniali avevano fatto costruire tra Windhoek e il porto di Swakopmund. Poiché le comunicazioni fra la colonia e la madre patria furono provvisoriamente interrotte, per alcuni mesi Samuel Maharero assunse il controllo de facto di vaste regioni centrosettentrionali.
Nella lotta contro l’invasore tedesco, perfino la tradizionale ostilità fra gli Herero e i Nama venne meno e i due popoli si coalizzarono contro l’intollerabile dominazione bianca. Tuttavia l’intervento dei Nama arrivò in ritardo, quando ormai dalla Germania erano arrivati i rinforzi.
Infatti tra l’11 giugno e il 20 luglio arrivarono nella colonia ventimila soldati, armati di artiglieria da campagna. Al comando delle Schutztruppe fu posto il generale di fanteria Lothar von Trotha. Famoso per il suo “pugno di ferro” nelle attività repressive, con von Trotha la politica militare tedesca nell’Africa tedesca del Sud-Ovest cambiò corso, diventando una Vernichtungspolitik, una politica di annientamento.
Appena giunto nella colonia, von Trotha scrisse ai superiori esternando le sue intenzioni: «Ritengo preferibile che la nazione herero perisca piuttosto che infetti i nostri soldati e inquini la nostra acqua e il nostro cibo». [Cit. in M. Cattaruzza, Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, Vol. 1, Utet, Torino 2005, p. 144]. E così fu.
In un proclama pubblico del 2 ottobre 1904, von Trotha fece conoscere agli indigeni i suoi propositi: «Io, generale delle truppe tedesche, indirizzo questa lettera al popolo herero. D’ora in poi gli herero non sono più sudditi tedeschi. Hanno ucciso, rubato […] Tutti gli herero devono lasciare il Paese. Qualsiasi herero scoperto all’interno del territorio tedesco, armato oppure no, con oppure senza bestiame, sarà ucciso. Non sarà tollerata neppure la presenza di donne o bambini che dovranno raggiungere gli altri membri della loro tribù [ossia morire di sete nel deserto] altrimenti saranno fucilati». [Cit. da Zimmerer J., Colonialism and Nazy Genocide: towards an Archeology of Genocide, in A.D. Moses, a cura di, Genocide and Settler Society, Berghahn Books, New York 2004, p. 65].
Il piano di von Trotha fu quello di fare terra bruciata, con la demolizione sistematica dei villaggi, l’avvelenamento dei pozzi, la distruzione dei raccolti e di ogni altra fonte di sostentamento, per accerchiare definitivamente i rivoltosi e sterminarli. Ai prigionieri fu riservata l’impiccagione di massa.
La grande battaglia ebbe luogo l’11 agosto 1904, a Waterberge, e fu lo scontro decisivo nella campagna di repressione degli Herero. Decisivo non dal punto di vista militare, perché i rivoltosi riuscirono a far fallire il piano tedesco. Infatti, pur subendo perdite pesantissime, gli Herero riuscirono ad aprirsi un varco verso il deserto dell’Omaheke. Nonostante la fuga, i tedeschi si lanciarono all’inseguimento sparando alle spalle. Molti perirono nel deserto, pochi raggiunsero il Bechuanaland britannico (l’odierno Botswana), tra cui Samuel Maharero. La campagna militare tedesca contro gli Herero provocò la morte dell’ottanta per cento del totale della tribù.
Gli Herero che erano riusciti a nascondersi, si unirono nella lotta nel frattempo iniziata dai Nama.
Nel 1905, dopo che le terribili notizie sul trattamento riservato ai rivoltosi giunsero in patria, provocando il disappunto dell’opinione pubblica, e dopo accesi dibattiti nel Parlamento tedesco, l’ordine di annientamento fu revocato.
Alla fine della guerra il bilancio fu drammatico. Contro gli Herero furono combattute 88 battaglie, contro le 2.348 di quelle contro i Nama. Von Trotha dichiarò che 65.000 Herero erano uccisi. 2.348 i soldati della colonia tedesca morti in queste battaglie.
Allo sterminio sistematico seguì la prigionia: gli Herero e i Nama non dovevano essere più sterminati ma imprigionati e obbligati ai lavori forzati. Imitando gli spagnoli e i britannici – che per primi ne avevano fatto uso rispettivamente nelle guerre a Cuba e contro i boeri – furono realizzati campi di concentramento in cui ammassare gli ultimi Herero e Nama per obbligarli al lavoro forzato.
Ovviamente il razzismo e lo spirito di vendetta si manifestarono in un trattamento inumano dei prigionieri (malnutrizione, freddo, lavoro pesante, stupri e violenze fisiche), determinando un altissimo tasso di mortalità.
Ancor più inquietante fu l’utilizzo dei prigionieri come cavie per fini di sedicente ricerca medica. Due studiosi di genetica dell’epoca, Theodor Mollison ed Eugen Fischer, condussero nei campi degli esperimenti sui meticci e sui gemelli per corroborare le loro tesi sulla superiorità della razza tedesca (ritornato in patria, Fischer insegnò nelle università tedesche, diventando rettore di quella di Berlino durante il nazismo. Tra i suoi allievi avrà Mengele, che ad Auschwitz proseguirà i suoi esperimenti di eugenetica sui gemelli internati). Molti teschi furono spediti in Germania per continuare gli studi di eugenetica.
Il più famigerato campo di concentramento delle colonie tedesche fu il Konzentrationslager auf der Haifischinsel vor Lüderitzbucht nell’isola di Shark, dove si registrò un tasso di mortalità del settanta per cento. Per il clima inospitale (freddo), la malnutrizione, il lavoro durissimo, le violenze fisiche e gli stupri, il campo fu rinominato dai coloni tedeschi Todesinsel, “isola della morte”.
Il colonnello Ludwig Von Estorff, dopo aver visitato il campo di Lüderitzbucht e altri campi, in un telegramma inviato al suo Comando il 10 aprile 1907 ne sollecitò la chiusura. Così giustificò la sua richiesta: «Non posso incaricare i miei ufficiali di questi servizi da carnefice, né posso assumermene la responsabilità» [Cit. da I. Hull, Cultura militare e «soluzioni finali» nelle colonie: l’esempio della Germania guglielmina, in R. Gellately, B. Kierman, a cura di, Lo spettro del genocidio, Milano, Longanesi & C., 2006, p. 147].
Ufficialmente, i lavori forzati terminarono il 1° aprile 1908 quando agli Herero e ai Nama fu revocato lo status di prigionieri di guerra, ma in realtà il loro impiego forzato nei progetti coloniali continuò anche oltre tale data.
Nel 2004, in occasione del centenario della guerra, il governo tedesco ammise le colpe della Germania per i crimini contro l’umanità commessi nella Deutsch-Südwestafrika. Ma ai discendenti degli Herero non è bastato. Per questo hanno chiesto a Berlino quattro miliardi di dollari di risarcimento per il lavoro compiuto dai loro discendenti. A parte la richiesta economica, è stata reclamata anche la restituzione di quarantasette teschi di Herero, ancora conservati nelle università e centri medici tedeschi.
Già nel 2001 l’allora capo Herero Kuaima Riruako presentò a una corte americana la richiesta di due miliardi di dollari contro il governo federale tedesco e la Deutsche Bank, che finanziò l’impresa coloniale.
Il 26 Ottobre 2007 il Parlamento namibiano ha approvato all’unanimità una mozione presentata da Kuaima Riruako che impegna il governo di Nahas Angula a chiedere alla Germania un risarcimento per lo sterminio di centinaia di migliaia di Herero.
Pur riconoscendo la responsabilità morale della Germania per il massacro dell’etnia Herero e Nama, le autorità berlinesi non intendono però farsi trascinare in un’ennesima diatriba sui risarcimenti. Sulla restituzione dei teschi, invece, niente è stato detto. Tuttavia, il governo tedesco ha esternato la sua disponibilità ad aumentare il volume degli aiuti allo sviluppo alla Namibia. Anche se poco, è già qualcosa.
Per saperne di più
G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Duncker und Humblot – Berlino, 1837; trad. it., Lezioni sulla filosofia della storia – La Nuova Italia, Firenze, 1963.
H. Jaffe, Three Hundred Years, a History of South Africa – New Era Fellowship, Cape Town 1952; trad. it., Sudafrica. Storia politica – Jaca book, Milano 1980.
F. Lamendola, Il genocidio dimenticato: la soluzione finale del problema Herero nel sud-ovest africano – Stavolta, Pordenone 1988.
J.B. Gewald, Herero Heroes. A Socio-political History of the Herero of Namibia, 1890-1923 - James Currey, Oxford 1999.
Isabell Hull, Cultura militare e «soluzioni finali» nelle colonie: l’esempio della Germania guglielmina, in R. Gellately, B. Kierman (a cura di), Lo spettro del genocidio – Longanesi, Milano 2006.
A.D. Moses, a cura di, Genocide and Settler Society – Berghahn Books, New York 2004.
M. Cattaruzza, Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, Vol. 1 – Utet, Torino 2005.
J. Sarkin-Hughes, Germany’s Genocide of the Herero: Kaiser Wilhelm II, His General, His Settlers, His Soldiers - UCT Press, Cape Town (South Africa) 2010.
L. Costalunga, Aspetti del colonialismo tedesco in Africa orientale, 1884-1914 - Effepi, Genova 2011.