MESOPOTAMIA: SARGON E L’IMPERO DI AKKAD
di Luca Vinotto –
Nella secolo seconda metà del III millennio a.C. la Mesopotamia è la regione più popolata del mondo. Per quasi un secolo e mezzo il regno di Akkad, fondato dal mitico Sargon, si imporrà in tutta l’area sconfiggendo le città-stato vicine, creando un potente impero e introducendo una delle prime strutture centralizzate di governo.
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La Mesopotamia al tempo dell’ascesa di Sargon: il contesto storico
La Mesopotamia, soprattutto nella sua zona più meridionale (l’attuale Iraq), è sempre stata un territorio desolato. Potrebbe essere definita una monotona distesa di nulla: pochi alberi, in particolare palme da dattero, qualche arbusto secco e bruciato, un’infinità di fango e sassi. Solo in prossimità dei due grandi fiumi che l’attraversano, il Tigri e l’Eufrate, sembra prendere vita, ricoprendosi di vegetazione rigogliosa e di una ricca fauna. E’ questa la terra che il popolo dei Sumeri, antichissimi abitanti di queste lande, chiamava EDIN o EDEN, parola che suscita in noi occidentali sensazioni antiche.
Ciononostante, alla fine del IV millennio la Mesopotamia è la regione del mondo più densamente popolata e, insieme all’Egitto e alla valle dell’Indo, quella in cui lo sviluppo sociale e tecnologico ha fatto più strada.
La troviamo abitata da due etnie principali, distribuite su piccoli villaggi situati lungo i corsi d’acqua. L’area settentrionale, quella compresa tra le pendici dei Monti Taurus a nord e approssimativamente il punto in cui oggi si trova Bagdad a sud, è occupata da popolazioni di lingua semita. La parte meridionale della regione è invece a prevalenza sumera.
I Sumeri fanno la loro comparsa già intorno al 4500 a.C., affiancandosi (senza sostituirle) alle popolazioni di lingua semita preesistenti. Ho usato il termine “comparsa” non a caso, perché le circostanze che hanno determinato la loro presenza in quella regione sono ancora avvolte dal mistero. L’unica cosa che sappiamo sulla base dei primi testi scritti è che la loro lingua era profondamente diversa da quella parlata dalle popolazioni semite, per cui si ritiene che non fossero autoctoni, ma migranti provenienti da regioni ancora non ben individuate. Gli studiosi propendono per considerarli originari o della valle dell’Indo o delle coste di Dilmun (attuale Bahrein). Secondo alcuni autori sarebbero fuggiti dalle regioni costiere dell’India, sommerse dal progressivo innalzamento delle acque dell’oceano conseguente alla fine dell’ultima glaciazione. È una tesi affascinante (ma tutta da confermare) che spiegherebbe il racconto del Diluvio Universale, elaborato dai Sumeri e poi ripreso dalla civiltà ebraica. In ogni caso, si stabiliscono nella Mesopotamia meridionale dove ben presto diventarono l’etnia dominante (a quanto ne sappiamo senza ricorrere a metodi cruenti, ma anzi convivendo pacificamente con i semiti) e danno un impulso fondamentale allo sviluppo della civiltà umana, favorendo gli scambi commerciali, la nascita delle prime città e della scrittura cuneiforme (che verrà utilizzata anche per i dialetti semiti).
Uruk è il primo insediamento umano a guadagnarsi l’appellativo di “città”, inteso come luogo in cui si svolgono una quantità di funzioni specializzate e con un ruolo di centro politico ed economico di un territorio più vasto. Nel IV millennio (tra il 3800 e il 3100 circa) esercita una egemonia “culturale” su tutta la piana mesopotamica e su parte dell’altopiano iraniano, non attraverso una dominazione politica ma creando, spesso all’interno di insediamenti semiti preesistenti, vere e proprie colonie urukite che diffondono i nuovi modelli sociali. E’ la cosiddetta cultura Uruk.
Nella città si forma una organizzazione sociale molto sofisticata. Alla sommità troviamo l’Ensi, capo civile e religioso al tempo stesso. E’ coadiuvato da numerosi funzionari, veri e propri burocrati che sovraintendono i complessi meccanismi di una società fortemente centralizzata e che svolgono la loro attività in “agenzie” pubbliche chiamate “Case” (E’ in sumero) nelle quali si volge l’attività produttiva. I prestatori d’opera (le famiglie di contadini, allevatori e artigiani, a cui si aggiungeranno anche gli operai addetti alle tessiture, fonderie e opifici per la produzione di mattoni) lavorano per queste “Case” dedicandogli o la totalità del loro lavoro (“Unga”) o parte dello stesso (“Eren”). Vengono retribuiti tramite l’usufrutto su piccoli lotti di terra di cui possono conservare il raccolto e con razioni di tutto ciò che non producono direttamente. Il lavoro schiavile è presente ma poco diffuso, così come è presente la proprietà privata ma con un impatto marginale sulla economia complessiva della società.
Una simile organizzazione è resa possibile dal “collante” religioso, e si basa sulla profonda convinzione che la città e il territorio circostante siano donati agli abitanti dalla divinità protettrice. Questo dio poliade è l’unico vero padrone della terra e dispone dei suoi frutti attraverso il Sommo Sacerdote, che quindi è capo civile e religioso al tempo stesso (Ensi).
Il sistema si rivela particolarmente efficiente perché mette a disposizione della comunità, quando necessario, gruppi di lavoratori molto numerosi che possono essere impiegati per opere di irrigazione di terreni altrimenti non coltivi. Al culmine del suo sviluppo, la cultura tardo-Uruk comprende un centro di riferimento di indiscussa preminenza (la stessa Uruk, coi suoi 100 ettari) col centro direzionale e sacrale dell’Eanna, più ampio dell’Acropoli ateniese di tanti secoli successiva; un territorio interno che abbraccia tutta la bassa Mesopotamia e il Khuzistan (Susa); una zona che possiamo definire di semi-periferia (l’alta Mesopotamia) a cultura mista; degli avamposti commerciali distribuiti sulle alte terre anatoliche e iraniche.
Per motivi ancora sconosciuti, la supremazia di Uruk cessa bruscamente intorno al 3100 a.C.. La rete di colonie esistente da 700 anni si sfalda: alcune vengono abbandonate, altre distrutte, altre ancora assimilate all’interno degli insediamenti autoctoni; la stessa città di Uruk ne esce ridimensionata.
Nella bassa Mesopotamia e in misura minore in quella settentrionale il ruolo “politico” di Uruk viene assunto da una pluralità di centri autonomi, che crescono per importanza e dimensioni fino a diventare vere e proprie città stato: Per citare le principali, Ur, Nippur, Lagash, Eridu, Umma, Adab, Shuruppak a sud e Kish, Akhshak, Sippar, Eshunna, Tutub, Nagar, Ebla, Mari più a nord. Si tratta di insediamenti molto grandi per l’epoca, alcuni con decine di migliaia di abitanti, che mantengono le tradizioni culturali e amministrative di Uruk e ne assumono, certamente adattandola alle situazioni locali, la medesima organizzazione sociale. Da loro dipendono insediamenti minori e non autonomi, in forma di villaggi di agricoltori o pastori. Lagash costituisce una eccezione, perché sotto il suo controllo vi sono anche le città minori di Ninna e Girsu. Siamo nel “periodo Protodinastico”, detto anche pre-imperiale, che va dal 3100 al 2330 a.C.
Questo periodo è caratterizzato da una accentuata crescita demografica su tutta la piana mesopotamica, specie al sud. Questo fenomeno, unito all’affinamento delle tecniche di irrigazione, scatena tensioni e conflitti. Ogni città deve mettere a coltivazione terre sempre più lontane, fino a invadere quelle dei vicini. Per farlo, le città più a monte aumentano i canali e i bacini di raccolta artificiali a danno delle città più a valle.
La crescente competizione tra città sfocia in scontri armati. Cresce quindi l’importanza di chi è in grado di condurre in battaglia la propria gente, cui viene attribuito il titolo di Lugal, “Grande Uomo”. È fatale che tra la guida religiosa e quella militare si apra una contesa per la supremazia all’interno della città: con l’inasprirsi dei conflitti la seconda prevarrà sulla prima.
I conflitti hanno come obiettivo solo la soluzione dei contrasti locali e non portano a stati più vasti. Forse proprio a causa del legame tra dio poliade, città e abitanti, le città sconfitte mantengono la propria indipendenza. Il vincitore acquista prestigio e, in taluni casi, arriva a esercitare una “influenza dominante” a livello regionale, diventando un “primus inter pares” rispetto alle altre città. È il concetto di “regalità” (nam-lugal in sumero), che prevede il riconoscimento divino della supremazia della dinastia di una città su tutte le altre, ma non presuppone l’esistenza di uno stato sovra cittadino.
Ma dalla seconda metà del XXIII secolo a.C. le cose sono destinate a cambiare.
Il grande rivale: Lugal Zaggesi
L’ascesa della dinastia di Sargon di Akkad è anche la storia della sua lotta con il suo grande nemico, Lugal-Zaggesi.
Quest’ultimo è figlio del re U’u di Umma, una delle città più importanti della bassa Mesopotamia e da secoli rivale della vicina Lagash.
Inizia la sua carriera come alto sacerdote di Nisaba, dea poliade della città, quindi succede al padre sul trono. Sappiamo che non tarderà a diventare anche una delle personalità più influenti dii Uruk, città ben più importante della prima, probabilmente tramite matrimonio.
In ogni caso, unisce le forze delle due città e si scaglia contro l’eterna nemica di Umma, Lagash. Vuole approfittare della difficile situazione della rivale, dove dopo un periodo di disordini una rivolta ha portato il debole Urukagina al potere.
Inizialmente le cose non sembrano mettersi bene per lui: Urukagina attacca il suo esercito mentre è alle prese con l’assedio di Girsu, alleata di Lagash, e lo sconfigge. Lugal Zaggesi non si dà per vinto e per altre tre volte attacca il rivale arrivando a mettere sotto assedio Lagash; per tre volte viene respinto. La guerra continua sanguinosa, finché nel 2335 Lugal-Zaggesi infligge a Urukagina una devastante sconfitta. Ha vinto e questa volta non si limita a ridefinire i confini territoriali a proprio favore, come da sempre era usanza, ma saccheggia i templi e le ricchezze della sconfitta (come riporta poeticamente un testo dall’esplicito titolo “Il lamento di Lagash”) e ne annette la maggior parte del territorio.
Forte delle ricchezze ottenute con la conquista di Lagash e Girsu, Lugal-Zaggesi ottiene il trono della stessa Uruk. E’ ormai l’uomo più potente della Bassa Mesopotamia, e dinanzi a lui si inchinano, con le buone o (più spesso) con le cattive tutte le ricche città sumere: Larsa, Nippur, Zabala e altre città minori.
Il nord, per la bassa Mesopotamia, ha un nome: Kish.
Quattromila e trecento anni fa il Tigri e l’Eufrate seguivano un corso molto diverso da quello attuale. Più o meno a metà del loro tragitto, il ramo principale del secondo confluiva nel primo e solo alcuni rami minori continuavano un percorso solitario per sfociare nel Golfo Persico. Le antiche città della bassa Mesopotamia sono tutte situate lungo questi due corsi d’acqua; la maggior parte, Uruk compresa, si affaccia sui rami minori dell’Eufrate.
La città di Kish è ubicata anch’essa su uno di questi rami, ma più a nord, in prossimità del punto da dove essi si separano dal corso principale; in una posizione, quindi, che le consente di influire sulla quantità d’acqua che giunge alle città meridionali. Ne abbiamo testimonianza letteraria dall’epopea di Gilgamesh, mitologico re di Uruk, la cui epopea racconta di come affronta l’esercito di Kish per una questione attinente i lavori di manutenzione della rete di canali comuni ai due insediamenti.
All’epoca di Gilgamesh (il mito colloca il suo regno nella prima parte del Protodinastico, qualche secolo prima dell’avvento di Lugal-Zaggesi) Kish era una grande potenza regionale, tant’è vero che nei documenti successivi il titolo di “Re di Kish” – in sumero – acquista il significato di “Re della totalità” della terra conosciuta. Intorno al 2500 a.C. però la città attraversa un periodo di decadenza, forse dovuto a lotte intestine, che la portano a subire il predominio di Akhshak, di poco più a nord. Riacquista la propria indipendenza intorno al 2400 a.C. sotto la guida della regina Kubaba, l’unica donna menzionata nella “Lista dei Re”, un antico documento che elenca i sovrani succedutisi nelle più importanti città della regione.
Con lei Kish ritorna potente, ma la gloria del passato è solo un ricordo. Non deve sorprendere, quindi, che la città cada sotto il controllo di Lugal-Zaggesi. Secondo alcuni studiosi senza neppure combattere: Ur-Zababa, nipote di Kubaba, di fronte alla sproporzione tra le forze di Lugal-Zaggesi e le sue decide di sottomettersi.
Dopo 25 anni di dure battaglie Lugal-Zaggesi controlla tutta la Mesopotamia meridionale e centrale, un territorio vasto poco meno della nostra Italia, e attraverso una serie di vittoriose campagne militari estende la sua influenza anche ai regni settentrionali di Mari, Ebla e Nagar e forse oltre. Le iscrizioni sugli oggetti votivi donati da Lugal-Zaggesi a Enlil, signore di tutti gli Dei, affermano che il dio stesso ha posto ai suoi piedi tutte le terre comprese tra il Mare Inferiore (il Golfo Persico) e il Mare Superiore (il Mediterraneo).
Se prendiamo per buone queste affermazioni dovremmo concludere che Lugal-Zaggesi ha riunito sotto il suo dominio i Sumeri, i Semiti della Mesopotamia del Nord e le popolazioni proto-cananee dell’attuale Libano: un vero e proprio impero, il primo conosciuto.
Le cose però stanno diversamente, per due motivi. Il primo è che, a parte le sue parole, non vi sono evidenze di una chiara supremazia di Uruk a nord di Kish; anzi dai documenti amministrativi in nostro possesso sembra che il suo potere su quella regione si limiti a poco più di una influenza commerciale. In secondo luogo, manca il requisito principale di uno stato, e cioè l’apparato di controllo centrale del territorio. Nel solco della tradizione sumerica, infatti, le città asservite mantengono la propria indipendenza. In altri termini, Lugal-Zaggesi comanda ma non governa e in effetti il suo potere viene continuamente messo in discussione da chiunque ritenga di avere i mezzi (militari) per poterlo fare. Come accade a Kish.
Sargon, nascita di un mito
Nella città centro mesopotamica, che ha una popolazione prevalentemente semita e non sumera, emerge un nuovo personaggio, che più tardi assumerà il titolo di Sharru-kin.
Il nome è di origine semita, traducibile in “il Re legittimo” o “Il Re che porta la stabilità”. Lo stesso titolo verrà ripreso da alcuni sovrani assiri posteriori, indicati nella Bibbia come Sargon. Da qui il nome con cui è conosciuto: Sargon di Akkad o Sargon il Grande.
Questo re, vissuto alla fine del terzo millennio avanti Cristo, è rimasto vivo e presente nella tradizione letteraria mesopotamica per lunghissimo tempo, diventando protagonista di tutta una serie di racconti più o meno fedeli alla realtà effettiva della sua vita. Una letteratura che comprende testi non solo in sumerico e in semita (lingue più strettamente mesopotamiche e “in uso” ai tempi di Sargon), ma anche in hittita e hurrita (lingue più nordiche e recenti, ma influenzate enormemente dalla cultura della “terra tra i fiumi”) e copre un arco di tempo che va dal terzo millennio fino alla metà del primo.
Si spazia dall’epica pura e semplice, in cui Sargon compie imprese mirabolanti e impersona il modello del re perfetto, a testi letterari di carattere storico in cui si danno informazioni sulle origini umili del re di Akkad e sulle circostanze della sua ascesa al trono, fino alle pure e semplici “Liste dei Re” di cui quella Sumerica, sopra citata, non è che il primo esempio in ordine di tempo.
Per citare solo alcune di queste fonti, oltre alla Lista reale Sumerica risalente al XXI secolo a.C., ricordo il Shar Tamjrim o “Il re della Battaglia”, conosciuto anche come “Sargon e il Signore di Purushanda”, di origine paleo-babilonese (1950-1530 a.C.), probabilmente risultato finale di un’evoluzione (sia orale che scritta) molto più antica e coeva al grande sovrano; i testi “Sargon il Leone”, “Sargon nella Terra oltre la Foresta dei Cedri”, “Sargon il Conquistatore”, tutti di epoca paleo babilonese. Più recenti sono la “Leggenda di Sargon”, relativa al periodo neo assiro (900 – 600 a.C.) e la “Cronaca degli Antichi Re”, che tratta del regno di Sargon e di suo nipote Naram-Sin risalente al Periodo neo-babilonese (626-539 a.C.).
Ecco la sua storia. Secondo quanto riportato da tutte le fonti, le sue origini sono umilissime. Sargon viene presentato come figlio illegittimo di una alta sacerdotessa, una Entu, votata alla castità. Lei lo abbandona alle acque dell’Eufrate dalle quali viene salvato grazie all’intervento di un nukarribun, un giardiniere, di Azupiranu, un piccolo villaggio la cui esatta posizione è ignota ma dal nome curioso: in semitico indica lo zafferano, anticamente utilizzato come medicinale.
Figlio di nessuno e adottato da un giardiniere, Sargon riesce comunque a salire sul trono di Kish. Secondo un componimento epico di età paleo babilonese, Sargon diventa un alto funzionario di Ur-Zababa, sovrano di Kish, a cui la dea Inanna (Ishtar) rivela in sogno la sconfitta del suo signore. Lui si affretta ad avvertirlo, ma il re la prende male e decide di farlo assassinare: lo manda come ambasciatore da Lugal-Zaggesi, latore di una missiva in cui c’è la richiesta di uccidere il messaggero. Ma la dea veglia su di lui e lo aiuta a uscire dai guai… purtroppo il poema ci è arrivato in frammenti e non è chiaro come.
Forse l’unico elemento di verità di questa leggenda è che un “commoner” può diventare re solo con l’aiuto degli dei, allora come oggi. Siamo agli albori della Storia, ma la società mesopotamica è già stratificata: l’Ensi è coadiuvato da un prefetto (sabra) e dal capo dell’amministrazione templare (sagga) da cui dipendono uno stuolo di funzionari: il capo contabile (sadubba), quello del “catasto” (sadu), il “capo del granaio” (kaguru), il “capo delle acque” (gugallu) e tanti altri di minore importanza. A questa “classe” di burocrati viene garantita una retribuzione, sotto forma di razioni di cibo e altri prodotti, decine o centinaia di volte superiore a quella del lavoratore comune; hanno la supervisione di “Case” di produzione che impiegano centinaia di lavoratori; spesso ricevono in dono la gestione di estesi possedimenti terrieri che, pur rimanendo di proprietà del Tempio, possono essere trasmessi ai propri figli. La lotta per raggiungere, mantenere e rendere ereditari questi incarichi era senz’altro feroce e probabilmente impossibile da affrontare per una persona di umili natali. Vi era poi una formidabile “barriera all’entrata” della carriera di funzionario, superabile solo per chi fosse dotato di mezzi: fino all’inizio del II millennio (III Dinastia di Ur) non vi era un sistema scolastico pubblico e l’insegnamento veniva fornito privatamente dagli scriba. Chi voleva imparare a leggere, scrivere e contare doveva pagare profumatamente.
Nonostante queste difficoltà, Sargon depone Ur-Zababa e sale sul trono ci Kish, all’epoca già sottomessa a Lugal-Zaggesi. Probabilmente è in questo momento che assume il nome di Sharru-kin, “Re Legittimo”… e il fatto che abbia ritenuto necessario sottolineare questo concetto depone a favore di una sua presa del potere con la forza e non per via dinastica.
Sul seguito le fonti si contraddicono: secondo alcuni componimenti Sargon, evidentemente non contento di essere diventato il sovrano di una delle più antiche e importanti città della Mesopotamia, decide di muovere guerra contro lo stesso re di Uruk e signore di Sumer. Altri lasciano intendere che sia stato Lugal-Zaggesi a muoversi per primo, magari per vendicare il deposto Ur-Zababa che in fondo gli aveva giurato fedeltà. In ogni caso, il potente Lugal-Zaggesi, a capo dell’esercito congiunto delle città della Mesopotamia meridionale, e Sargon con l’esercito della sola Kish, si scontrano sul campo di battaglia in una guerra che segnerà il destino dell’intera regione e avrà ripercussioni per i secoli a venire.
Ma prima procedere nel racconto di quegli avvenimenti, concentriamoci sullo stato del warfare dell’epoca.
Le informazioni sono piuttosto scarse perché gli scriba amano descrivere il trionfo dei re vincitori ma dedicano scarsa attenzione alle strategie belliche e all’armamento utilizzato. Possiamo però rifarci a due magnifici reperti dell’arte sumera: la Stele degli Avvoltoi e lo Stendardo di Ur. Della prima, un monumento altro 1,80 metri che ritrae il re di Lagash vittorioso sui guerrieri di Umma, ci sono giunti solo alcuni frammenti, già raffigurati in questo articolo; il secondo è una rappresentazione lignea tridimensionale costituita da quattro pannelli, due facciate principali rettangolari e due più piccole trapezoidali, ricoperti di bitume e intarsiati con inserti in lapislazzuli, pietra calcarea bluastra e madreperla. Uno dei lati più grandi detto “della guerra” raffigura carri da guerra nell’atto di travolgere i nemici (scena in basso) e guerrieri mentre inseguono i nemici in fuga o li catturano (scena centrale).
In entrambe le rappresentazioni vediamo guerrieri armati di lance e, nella “stele”, protetti da scudi rettangolari alti quasi quanto un uomo. Sembrano marciare contro il nemico in una sorta di falange. I carri invece sono trainati da equidi: probabilmente si tratta di kunga, ibridi nati da onagri selvatici e asini domestici – il cavallo verrà addomesticato solo intorno alla fine del III millennio. Sui carri, oltre l’auriga, è presente un guerriero raffigurato mentre lancia un giavellotto sui nemici; una faretra nella parte anteriore del carro ne contiene altri pronti all’uso.
Lancia e scudo dovevano essere le armi principali del fante mesopotamico, quindi. Altri reperti rivelano che venivano utilizzate anche mazze di legno con la testa in pietra e i primi esempi di “spada-falce”, con la lama ricurva montata su una impugnatura di legno o bronzo, progenitrice della più famosa kopesh egizia. Quest’ultima arma doveva essere prerogativa di re e comandanti militari.
Da notare invece la quasi assoluta mancanza di raffigurazioni di armi da tiro per le truppe appiedate. Gli archi erano conosciuti (sono presenti in numerose raffigurazioni di scene di caccia) ma sembra non venissero utilizzati in guerra – o, se lo erano, non erano considerati degni di rappresentazione nei monumenti.
Sull’uso dei carri da guerra i pareri degli storici sono discordi. C’è chi li vede come uno strumento di sfondamento delle linee nemiche, similmente ai cocchi egiziani del millennio successivo, e chi invece ritiene che fossero solo i mezzi di trasporto del re e dei dignitari fino al campo di battaglia, e venissero utilizzati per inseguire il nemico in fuga. Certamente un qualche uso in battaglia ne veniva fatto, a giudicare dalle faretre piene di dardi che portavano, ma è probabile che fosse marginale rispetto all’impiego della fanteria.
Ma chi combatteva le battaglie? Fino all’epoca sargonica i documenti amministrativi in nostro possesso, le famose tavolette di argilla simbolo della civiltà mesopotamica, ci dicono che il numero di guerrieri “professionisti” a disposizione di ogni città era esiguo, lo stretto necessario per assicurare una protezione al re e garantire l’ordine pubblico (per il quale venivano utilizzati anche i gulla, una sorta di poliziotti dotati di lunghi bastoni). Gli eserciti mesopotamici erano formati principalmente da migliaia (per le città più grandi da decine di migliaia) di coscritti, unga sottratti al lavoro coatto e mandati in guerra. Erano questi guerrieri a costituire le falangi armate di lance e pesanti scudi riprodotte sulla Stele degli Avvolti e in altri reperti.
Nelle battaglie campali combattute da eserciti non professionisti disposti in lente falangi e con armamento equivalente, è chiaro che la vittoria vada al contingente più numeroso, poiché l’abilità del singolo, le tattiche e la tecnologia passano in secondo piano. Tra Lugal-Zaggesi, che può contare sulle forze riunite di una cinquantina tra i più popolosi insediamenti della regione, e Sargon alla testa dell’esercito della sola Kish, la logica ci dice che avrebbe dovuto essere il primo a prevalere sul secondo. Ma nella realtà accade il contrario.
Quali sono i motivi di questo sorprendente risultato? Tralasciando ipotesi di improvvisi cambiamenti di fronte da parte degli alleati di Lugal-Zaggesi, peraltro non riportati dalle fonti, gli storici sono concordi nell’attribuire la vittoria di Sargon alla introduzione su larga scala dei primi guerrieri di professione (forse mercenari di etnie “barbare”), in modo da contrapporre l’abilità e l’esperienza alla superiorità numerica dell’avversario.
In tal senso sembra potersi interpretare una iscrizione commemorativa, che parlando della corte di Sargon, afferma “5400 uomini mangiano ogni giorno […] di fronte a lui”. Un tale esercito di guerrieri esperti, specie se ben guidato, può certamente giocarsela contro armate anche molto più numerose.
Ritengo però che questa non sia stata l’unica innovazione di Sargon in campo militare. A partire dal suo regno, infatti, compaiono su numerosi monumenti rappresentazioni di guerrieri armati di arco.
Non si tratta però di un arco normale, ma, come si può notare dai flessi e ai tips su cui viene fissata la corda, di un arco composito. Si tratta di un particolare di non secondaria importanza, in quanto l’arco composito, delle sue diverse varianti, diventerà l’arma d’eccellenza degli Assiri e di tutti gli eserciti del medio e lontano oriente e tale rimarrà fino all’invenzione delle armi da fuoco. La sua origine viene fatta risalire proprio alla fine del III millennio, ad opera di popolazioni nomadi asiatiche, per cui non è impossibile che fosse conosciuto anche in Mesopotamia. Certo lo è all’epoca di Naram-Sin, nipote e successore di Sargon: anzi, l’arco composito è diventato un’arma così importante da essere rappresentata nelle mani del sovrano stesso nel suo più famoso e significativo monumento (la “Stele della Vittoria”).
L’utilizzo massiccio di armi da tiro, unito alla presenza di reparti di guerrieri professionisti, rappresenta una valida spiegazione delle vittorie riportate da Sargon. Al termine delle citate 34 battaglie, egli ha conquistato tutto il territorio a sud di Kish, fino al Mare Inferiore (Golfo Persico), dove simbolicamente “lava la lama della sua spada” dal sangue nemico, per significare che la sua vittoria è completa. Conduce in catene Lugal-Zaggesi a Nippur, all’epoca “città sacra” per le popolazioni mesopotamiche. Qui si fa incoronare “Ensi (governatore) della terra per conto del dio Enlil”, il signore del pantheon sumero.
In pochi anni, Sargon ha già emulato Lugal-Zagggesi. Ma il suo dominio è del tutto diverso: il nuovo sovrano si dimostra un grande innovatore anche nell’organizzazione del regno. Egli sostituisce i capi delle città-stato con propri uomini di fiducia, che mantengono il nome di Ensi (solo lui può fregiarsi del titolo di Lugal) ma sono solo governatori. Non è solo una rottura della tradizione preesistente, è una rivoluzione epocale: Sargon non è più un “primus inter pares” com’era stato Lugal-Zaggesi, ma si pone a un livello superiore rispetto ai capi delle città. Non solo: i governatori, insieme ai funzionari e alle guarnigioni fedeli a Sargon costituiscono il nucleo della struttura centralizzata di governo sovra cittadino che mancava sotto Lugal-Zaggesi. È la nascita dello stato regionale e non si tornerà più indietro, salvo che per brevi periodi.
La nuova struttura di governo deve essere mantenuta, in qualche modo. Inizia così un processo di trasferimento al sovrano (e ai suoi seguaci, funzionari e guerrieri) delle terre e delle risorse fino ad allora amministrate dal Tempio cittadino che crea un forte malcontento nelle città assoggettate. Ovviamente i vecchi proprietari non ne sono felici e piccole o grandi rivolte scoppiano molte città, sia a nord che nel meridione. Tutte vengono riconquistate e punite con la simbolica “distruzione delle mura”, da non intendersi in senso letterale: si limitavano a aprire dei varchi con l’obbligo di non richiuderli. In un mondo in cui le armi d’assedio sono limitate a scale e rudimentali arieti, distruggere le mura significava eliminare un formidabile ostacolo all’assalitore e – soprattutto – far dipendere la sua difesa dall’esercito del re anziché da quello cittadino.
Anche a Kish scoppia una rivolta, probabilmente fomentata dai seguaci di Ur-Zababa che non hanno mai accettato il “Re Legittimo”. La reazione di Sargon porta, ancora una volta, alla rottura di tradizioni millenarie.
Oltre a infliggere la solita punizione alla città, distruggendone le mura, il sovrano decide di spostare la sua capitale e fa costruire un nuovo insediamento: Agadè in sumero o Akkad in semitico. Il nome è traducibile in “Corona di fuoco”, sembra in onore della dea Inanna/Ishtar. Ma la decisione in sé è una azione rivoluzionaria, perché uno degli elementi centrali della religione e della società sumero-semita era che le città fossero un dono degli dèi agli uomini. Sargon quindi ne usurpa uno degli attributi e il tirare in ballo Ishtar, che ne avrebbe ordinato la costruzione, è solo un tentativo di nascondere il sacrilegio.
Purtroppo, non conosciamo l’esatta ubicazione della nuova capitale, ma sappiamo che si trovava a nord di Kish. Lontana, quindi, dal sud a predominanza sumera. Sarà forse per questo che il dialetto semitico diventa la lingua ufficiale del nuovo regno, subentrando al sumero. Questo forse è il lascito più importante di Sargon: la nuova lingua verrà utilizzata per i duemila anni successivi, darà origine al babilonese e all’assiro e influenzerà non solo le lingue semitiche occidentali (tra le altre, l’aramaico, l’ugaritico, il fenicio e l’ebraico), ma anche le lingue indoeuropee.
L’utilizzo della nuova lingua ha una espansione immediata: il sumero viene soppiantato in pochi lustri anche nella Mesopotamia meridionale, dove si era originato, e limitato alle sole funzioni religiose.
Gli storici chiamano “accadico” questa lingua e “Akkadi” i seguaci di Sargon; ricordiamoci però che non si tratta di un nuovo popolo, ma della rete di funzionari e guerrieri di diversa etnia ma a prevalenza semita o sumera che si diffonde dalla città di Akkad su tutto il territorio dell’impero. Va da sé che il concetto di “invasione” degli Accadi a scapito dei Sumeri, di cui spesso si legge sui libri di scuola, è totalmente fuorviante.
Le innovazioni del nuovo sovrano in campo civile non si fermano qui. La propaganda reale compie un improvviso balzo in avanti, costruendo gli strumenti ideologici a giustificazione del nuovo stato sovra-cittadino. Sargon si proclama “re della totalità” (in accadico Shar kisshatim), reinterpretando il vecchio titolo, Lugal Kish, appartenente alla tradizione sumera durante il periodo protodinastico. Un altro suo titolo, “sacerdote-unto di An” (dio del Cielo), patrono di Uruk, consente un controllo diretto sugli affari interni della principale città meridionale (non dimentichiamoci che intorno al Tempio ruotava buona parte dell’economia cittadina), oltre a costituire un ponte tra il nuovo sovrano semita e la popolazione sumera. Per gli stessi motivi, Sargon fa nominare due sue figlie alte sacerdotesse del dio Enlil a Nippur e del dio Nanna in Ur.
Quest’ultima, che assume il nome di Enkheduanna, “La sacerdotessa che è l’ornamento del cielo”, è una figura eccezionale al pari del padre. Raffinata e colta, non solo riveste un ruolo di primo piano nella gestione di Ur ma diventa un punto di riferimento della vita religiosa e politica dell’intero regno. Compone numerosi inni religiosi, di cui una quarantina sono giunti fino a noi attraverso le copie trascritte dagli scribi dei secoli successivi, che fanno di lei il primo autore chiaramente identificabile della letteratura mondiale. Sono dedicati non solo al dio Nanna, ma anche alla dea sumera Inanna, che per la prima volta è formalmente identificata con la semita Ishtar, e agli altri dèi del pantheon sumero-accadico. L’intento è chiaro: rafforzare i legami tra gli dèi significa rafforzare i legami tra le città loro dedicate e di conseguenza aumentare la coesione del nuovo stato. Sicuramente inattesa è invece la sua riuscita come scrittrice capace di dare alla letteratura del tempo alcuni dei suoi più raffinati capolavori. Di lei tratteremo più a lungo in un prossimo articolo.
L’intenzione di Sargon di creare uno stato coeso che sostituisse la struttura tradizionale delle città-stato, indipendenti e concorrenti tra di loro per lo sfruttamento del territorio, è evidente anche nella vera e propria macchina promozionale di sé stesso che pone in essere attraverso la diffusione su tutto il territorio della sua immagine. In ogni città vengono poste stele a ricordo delle sue vittorie e della sua grandezza: la fattura molto simile di tutti questi manufatti fa pensare a una vera e propria squadra di maestranze con il compito di proporre la stessa immagine del sovrano, quella di un vincitore che ha al suo fianco non solo i propri dei ma anche quelli della popolazione conquistata.
In campo economico, viene attribuito a Sargon quello che oggi potremmo chiamare il rilancio del commercio. Le iscrizioni sulle stele e sulle statue che Sargon dona ll’Ekur, il tempio del dio Enlil a Nippur, raccontano di come egli abbia favorito il commercio, anche su lunghe distanze. Così egli farà attraccare al porto fluviale di Akkad navi provenienti da regioni lontane: Dilmun (Bahrain), Magan (Oman), Meluhha (la valle dell’Indo), tutte regioni legate alla Mesopotamia da antica tradizione commerciale, adesso rinnovata.
Gli sforzi necessari per creare il nuovo stato e garantirne la coesione interna non ne interrompono l’allargamento manu militari. Anzi, i primi si rendono tanto più necessari quanto più la macchina bellica creata da Sargon procede verso la conquista di nuovi territori.
Gli storici hanno individuato tre direzioni di questa espansione, pur non avendone ancora identificato la precisa sequenza temporale: una a nord risalendo l’Eufrate fino al Libano e il Tigri fino ai Monti Taurus; la seconda a sud-est, verso l’altopiano iraniano; la terza ancora a nord, verso l’Anatolia centrale.
È probabile che le campagne verso la Mesopotamia settentrionale siano state le prime: conquistato il meridione, cioè Sumer, l’obiettivo più immediato è il nord della Mesopotamia, abitato da popolazioni semite con lingua e costumi molto vicini a quelli dell’area centrale dominata da Kish.
Sappiamo che Sargon conquista la città di Tuttul. Una delle iscrizioni rinvenute attesta che il re “si inchina davanti a Dagan [dio poliade della città] che gli concede le Terre Alte e le città di Mari, Yarmuti ed Ebla, fino alla Foresta dei Cedri [Libano] e ai Monti dell’Argento [Monti Taurus]”. In effetti abbiamo riscontri archeologici della presenza di funzionari di Akkad a Assur e Ninive, allora centri secondari che diverranno un millennio dopo il cuore dell’impero Assiro, e a Nagar, importante centro commerciale sul fiume Kabur (un affluente dell’Eufrate). Sappiamo inoltre che Mari, principale potenza commerciale e militare della regione, venne distrutta in questo periodo, ed è presumibile che a farlo sia stata l’unica forza in grado di sconfiggerne facilmente l’esercito. Durante questa campagna viene anche a contatto con le popolazioni semistanziali degli Amorrei, le cui greggi pascolavano nelle valli fluviali della Mesopotamia del nord ovest, favorendone una prima parziale integrazione nella società accadica.
Che Sargon abbia raggiunto le sponde del Mediterraneo sembra meno probabile. Dagli archivi di Ebla (situata a ridosso della catena montuosa libanese) sappiamo che il suo esercito ne occupò almeno parte del territorio, ma non abbiamo notizie su una conquista duratura della città o di una avanzata dell’esercito di Akkad fino alla costa. È più probabile che il grande sovrano si sia limitato a una serie di raid per saccheggiare i ricchi territori della Terra dei Cedri e abbia imposto ai signori locali una qualche forma di alleanza.
Sappiamo invece per certo che rivolse la sua attenzione ai territori allora occupati dagli elamiti. La regione dell’Elam – Haltamti in lingua locale – occupa la parte più occidentale dell’altopiano iraniano ed è separata dalla piana mesopotamica dalla catena dei Monti Zagros a nord ovest e da una estesa zona paludosa a sud ovest; questi ostacoli naturali hanno favorito l’emergere di una cultura a sé stante, con una lingua orale e scritta diversa da quella sumera e da quella accadica. Non per questo sono mancati intensi rapporti con la Mesopotamia, fatti di commerci ma anche di incursioni da ambo le parti. E’ contro questo avversario che muove guerra Sargon. Le sue iscrizioni descrivono la conquista di tredici diverse città, oltre alla cattura un certo numero di governatori e generali, inclusi sia “Khishibrasini, re di Elam” che suo figlio Lukh’ish’an. Una stele della vittoria eretta a Susa mostra Sargon, con una folta barba e lunghi capelli legati in una crocchia intrecciata al collo, che guida prigionieri e bottino in trionfo dopo la sua cattura della città.
Sulle sue campagne nell’Anatolia centrale parla un documento di età paleo-babilonese, “Il re della Battaglia”, conosciuto anche come “Sargon e il Signore di Purushanda”. Sembra trattarsi, più che di una guerra di conquista, di una lunga campagne militare in difesa dei mercanti mesopotamici che subivano abusi da parte dei governanti di Purushanda, un antico centro probabilmente ubicato nei presso del lago Tuz (a sud di Ankara). Non vi sono conferme da parte di altre fonti ma l’interesse di Sargon per quell’area è perfettamente plausibile, poiché l’Anatolia costituisce una importante fonte di argento per la Mesopotamia.
In ogni caso, il documento babilonese è prezioso perché offre una ulteriore prova dell’importanza che il sovrano di Akkad attribuisce ai commerci (nel solco della tradizione sumera: nel III millennio quasi sempre le guerre scoppiavano per contrasti di carattere economico, come ampiamente documentato dalla letteratura del periodo) e perché descrive l’attenta preparazione di queste campagne militari, compresa una sorprendente pianificazione di intelligence affidata proprio ai mercanti accadici.
Dopo 56 anni al potere (dal 2335 al 2279 a.C.) il grande re scompare. Si lascia alle spalle uno stato di nuova concezione, fortemente centralizzato, dotato di una capillare struttura organizzativa e capace quindi di amministrare un ambito territoriale la cui vastità (circa 300.000 kmq) è assolutamente inedita nella storia della Mesopotamia. Ne fanno parte popolazioni differenti per costumi e lingua, stanziali come i semiti, i sumeri e gli elamiti delle città o semistanziali come gli amorrei. Una compagine statale per la quale può essere tranquillamente usata la parola “impero”, così come imperialistico è il progetto che scientemente Sargon, primo nella storia dell’umanità, ha perseguito. Una impresa epica, specie se si considera che a realizzarla è una persona di umilissime origini. Sarà per questo che uno dei documenti in nostro possesso, fa dire a Sargon, che ha appena finito di enumerare alle sue truppe le conquiste di tutta una vita: “Ora, ogni re che vuole chiamarsi mio eguale, dovunque io andai, che ci vada.”
Egli esce dalla storia per entrare nella leggenda. Ho già detto che le sue imprese saranno esaltate in decine di opere letterarie, ma non è tutto. Nell’immaginario dei popoli che abitano la Mesopotamia Sargon diventa il mito del re invincibile, secondo solo agli Dei. al punto che mille e cinquecento anni dopo grandi re assiri assumeranno il suo nome per reclamarne l’eredità. Non deve sorprendere quindi che alcune delle situazioni presentate in questi racconti (ad esempio il salvataggio del piccolo Sargon dalle acque del fiume) siano diventati addirittura dei topoi letterari, presenti anche in altri testi appartenenti a culture vicine, nello spazio, a quella mesopotamica ma lontane nel tempo (la tradizione ebraica con Mosè) e si riflettono persino nei racconti mitici della fondazione di Roma, anche se certamente non esiste una correlazione diretta tra i due miti, quello latino e quello accadico (che comunque rimane il più antico non solo fra quelle citati ma fra tutti quelli con le medesime caratteristiche).
Con la sua morte il testimone passa ai suoi figli e nipoti, alcuni dei quali rivaleggeranno con lui per ingegno e per fama. Ci occuperemo di loro in un prossimo articolo.
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Per saperne di più
William J. Hamblin, Warfare in the Ancient Near East to 1600 BC: Holy Warriors at the Dawn of History, Routledge 2006.
Marc Van De Mieroop, A History of the Ancient Near East ca. 3000-323 b.C., Wiley 2016.
Lorenzo Verderame, Introduzione alle culture dell’antica Mesopotamia, Mondadori 2017.
Davide Nadali e Andrea Polcaro, Archeologia della Mesopotamia antica, Carrocci editore 2018.
Lucio Milano (a cura di), Il vicino oriente antico, EncycloMedia Publishers 2022
Franco D’agostino, I Sumeri, Hoepli 2020.
Paolo Gentili, Sargon, re senza rivali, SEU Servizio Editoriale Universitario di Pisa 1998.
L. Romano, La Stele degli Avvoltoi: una rilettura critica, VICINO ORIENTE, Annuario del Dipartimento di Scienze Storiche Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità – Università di Roma La Sapienza – anno 2007.