SAJMIŠTE, UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO NAZISTA IN SERBIA
di Renzo Paternoster -
Se Auschwitz è il simbolo dei crimini nazisti in Europa occidentale, il lager di Sajmište rappresenta il dramma delle popolazioni slave sotto il nazismo.
Il 6 aprile del 1941 l’esercito nazista invade il Regno di Jugoslavia. L’invasione delle Serbia e la conseguente occupazione militare nazista è particolarmente violenta. A parte l’odio razziale contro i popoli Balcani, Hitler riteneva la Serbia responsabile della guerra e della sconfitta tedesca nel primo conflitto mondiale. La Serbia porta anche al rinvio della “Operazione Barbarossa”, il programma d’invasione nazista dell’URSS previsto originariamente per il 15 maggio 1941. Infatti, a seguito dell’adesione del Regno di Jugoslavia al “Patto Tripartito”, intesa firmata dal principe reggente Pavle Karađorđević, il principe ereditario Pietro II mette fine alla reggenza e revoca la partecipazione al trattato. Hitler considera questo un affronto personale ed è anche costretto a posticipare l’invasione dell’Unione Sovietica.
La reazione tedesca si concretizza nell’operazione “Castigo”: la violenta invasione nazista dei Balcani che comincia con un bombardamento a tappeto sulla città di Belgrado la mattina del 6 aprile 1941. Il 17 aprile c’è la resa delle forze jugoslave. Già dopo due giorni l’ufficio delle Schutzstaffel (SS) introduce l’obbligo di registrazione per tutti gli ebrei, minacciando a chi cerca di sfuggire a tale direttiva la fucilazione immediata, e quello di portare al braccio sinistro una fascia identificativa gialla. Il comandante della Wehrmacht in Serbia, l’ufficiale della Luftwaffe Heinrich Danckelmann, decide di affidare al generale serbo Milan Nedić l’amministrazione della Serbia occupata. Il 29 agosto si insedia lo Stato fantoccio di Nedić, che guida ufficialmente un “Governo di Salvezza Nazionale (Vlada Nacionalnog Spasa) sino al 4 ottobre 1944, quando la sua amministrazione è rovesciata dai partigiani titoisti.
Tutto l’apparato governativo, presieduto da rappresentanti serbi, dipendeva di fatto dai vertici nazisti in Serbia, in primo luogo da Felix Bencler, plenipotenziario in Serbia del Ministero degli affari esteri del Terzo Reich. Incapace di resistere ai tedeschi, il generale Nedić consentì l’esistenza di campi di concentramento nel suo territorio, di una Gestapo serba, e di un Corpo di Volontari Serbi delle SS (Serbisches SS-Freiwilligen Korps).
Geograficamente lo Stato fantoccio di Nedić comprende la parte centrale della Serbia, il territorio settentrionale del Kosovo (la zona attorno a Kosovska Mitrovica) e la regione autonoma del Banato (l’area danubiana a est).
Quasi subito l’esercito occupante nazista si trova a fronteggiare la ben organizzata guerriglia scatenata dai partigiani comunisti guidati da Tito. La repressione nazista è violenta, coinvolgendo i civili, soprattutto gli ebrei e chi è ritenuto comunista. La maggior parte dei maschi è arrestata e concentrata nei lager o in centri improvvisati nei dintorni di Belgrado. Tra la fine novembre e metà dicembre la maggior parte degli uomini internati è fucilata dai reparti speciali della Wehrmacht. Donne, bambini, anziani e una parte dei maschi sopravvissuti alle esecuzioni sono concentrati nel ghetto di Belgrado, una soluzione provvisoria in attesa della realizzazione di specifici campi di concentramento.
Il comando delle SS decide di costruire due campi di concentramento a Zasavica, una località nei pressi di Sremska Mitrovica sulla Sava, come soluzione temporanea prima di una eventuale grande deportazione a est. Tuttavia a causa di straripamenti continui del fiume Sava il progetto è abbandonato e, nell’ottobre del 1941 il comandante in capo delle forze armate tedesche in Serbia Franz Friedrich Böhme, decide di adattare i padiglioni della vecchia fiera di Belgrado (in serbo Staro Sajmište). Le spese del materiale sarebbero state pagate con il denaro e la vendita dei beni sequestrati agli ebrei stessi, la manodopera sarebbe stata prestata dagli stessi internati.
Sajmište è un grande quartiere fieristico che si trova vicino alla città di Zemun (Semlin), zona separata da Belgrado dal fiume Sava.
Eretta nel 1936, la zona fieristica è molto grande, con una monumentale torre centrale circondata da cinque padiglioni principali (i cosiddetti “padiglioni jugoslavi”), il più grande dei quali è il numero 3 con una superficie di 5.000 metri quadrati. Poi ci sono i “padiglioni stranieri” (italiano, ungherese, rumeno, cecoslovacco, turco, tedesco, sovietico) e una serie di strutture più piccole sponsorizzate da aziende private, tra cui il padiglione Nikola Spasić, finanziato da una fondazione costituita appunto dal ricco imprenditore serbo Nikola Spasić e della Philips, il produttore olandese di elettronica, che nel 1938 organizza la prima trasmissione televisiva nei Balcani dal suo stand. All’interno della fiera c’è anche una torre in acciaio per il paracadutismo alta 74 metri, la più alta in Europa all’epoca, costruita dal produttore di auto cecoslovacco Skoda.
Dopo l’invasione nazista nei Balcani, il Quartiere Fieristico è sotto la giurisdizione del comando locale di Zemun (Semlin), formalmente sul territorio croato. Il governo ustascia di Zagabria, ovviamente, non oppone il suo diniego, chiedendo solamente di evitare la presenza di guardie o miliziani serbi sul suo territorio.
L’ex fiera esce relativamente incolume dai bombardamenti aerei nazisti del 6 aprile 1941. Solo danneggiamenti ai tetti, alle pareti e alle finestre, senza importanti danni strutturali agli edifici.
La sistemazione è assegnata alla società di costruzioni statale tedesca Todt, che utilizza circa duecento ebrei internati nel vicino campo di concentramento di Topovske Šupe. Sono predisposti servizi igienici improvvisati e punti idrici all’aperto. Con delle semplici assi sono costruiti letti a castello su tre o quattro livelli. Le finestre rotte sono sostituite da assi di legno. Ovviamente il campo è recintato con filo spinato alto quattro metri. Tutti i lavori sono molto approssimativi.
La direzione del campo è affidata al sottotenente delle SS Herbert Andorfer, suo vice è il sottoufficiale Edgar Enge. Il campo è, inizialmente. alle dirette dipendenze del Gruppo operativo di polizia del colonnello Wilhelm Fuchs, successivamente passa sotto il comando del generale delle SS August von Meyszner, ma il responsabile diretto fu Emanuel Schäfer, nuovo comandante della polizia.
Il 7 dicembre 1941 tutti gli ebrei di Belgrado ricevono l’ordine di presentarsi agli uffici della Udenreferat (Polizia ebraica) in via George Washington il mattino seguente, muniti di provviste sufficienti per tre giorni. Dopo aver consegnato le chiavi delle loro case, sono deportati alla ex fiera di Belgrado. L’ex fiera di Belgrado diventa così il Judenlager Semlin (in serbo Jevrejski Logor Sajmište).
Le prime 5.000 donne e bambini ebrei sono collocati nell’edificio più grande, il padiglione jugoslavo numero 3. Via via sono riempiti anche gli altri padiglioni: il numero 2 dai rom, il numero 5 dagli uomini che lavoravano alla manutenzione del campo, nel padiglione numero 4 è installata la cucina, il padiglione turco è destinato alle docce e in seguito a obitorio e nel “Nikola Spasić” l’ambulatorio ospedaliero e la farmacia. L’amministrazione del campo si insedia nella torre centrale, sulla cui cima sventola la bandiera nera delle SS. Come nei lager dell’Europa centrale, l’autorità naziste del campo affidano agli stessi ebrei il mantenimento della disciplina all’interno.
Il rifornimento alimentare è a carico del Comune di Belgrado, tuttavia, poiché il cibo manca anche in città, giacché gran parte della produzione agricola è regolarmente requisita da nazisti e inviata in Germania, il campo ebraico è posto in fondo alla loro lista di priorità.
La vita all’interno del campo ricalca quella degli altri lager nazisti. La sveglia è alle 5, seguita subito dall’appello all’esterno. I tre pasti giornalieri sono molto miseri: a colazione tè molto blando o surrogato di caffè entrambi senza zucchero, a pranzo e cena zuppa di cavolo, fagioli o patate senza grasso e senza sale, un pezzetto di pane secco di mais.
La promiscuità, l’affollamento, la scarsa alimentazione, l’inadeguatezza delle strutture (infiltrazioni di pioggia, vento, neve) e l’insufficienza delle stufe per riscaldare i grandi padiglioni ben presto causano il diffondersi di malattie, soprattutto dissenteria e tifo.
Le condizioni inumane all’interno del campo, le sofferenze e le strategie per sopravvivere sono descritte dalle stesse internate che, grazie ad alcuni lavoratori esterni e soprattutto medici e corrieri dell’ospedale ebraico che periodicamente si recavano a Sajmište, riescono a far uscire lettere e biglietti inviati ai loro cari. Per questo una dozzina di internate e postini sono pubblicamente fucilati. Le missive sono ora conservate presso il Museo ebraico di Belgrado.
Nato come campo di concentramento, il campo di Semlin diventa presto un luogo di sterminio. Infatti, il comando nazista locale è sotto pressione per trovare sia una soluzione al “problema ebraico” sia per svuotare il campo dagli Untermensch (sotto uomini) e far posto ai “comunisti” e agli appartenenti alle forze partigiane. Berlino risolve la questione, inviando un Gaswagen, un autocarro per trasporto merci modificato in camera a gas, quindi con il sistema di scappamento trasformato in modo da asfissiare i prigionieri rinchiusi all’interno con il monossido di carbonio prodotto dallo stesso mezzo: «I Gaswagen erano dei grandi autocarri con un cassone lungo 4 o 5 metri, largo circa 2 metri e 20 e alto 2 metri, rivestito all’interno di lamiera. Sul pavimento c’era una grata di legno. Nel fondo del cassone c’era un’apertura che poteva venir collegata allo scappamento con un tubo metallico mobile. Quando i camion erano al completo i battenti delle porte posteriori venivano chiusi e si stabiliva il collegamento tra lo scappamento e l’interno del camion […] I membri del commando impiegati come autisti dei Gaswagen mettevano poi in moto il motore, cosicché le persone che si trovavano all’interno morivano soffocate dai gas di scarico» [Dalla testimonianza di Walter Burmeister, autista di Gaswagen a Chełmno. E. Klee, W. Dressen, V. Riess, «The Good Old Days» The Holocaust as Seen by Its Perpetrators and Bystanders, Free Press, New York 1988, trad. it., «Bei tempi». Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha seguito e da chi stava a guardare, La Giuntina, Firenze 1990, p. 172, cit. in R. Paternoster, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017, p. 156].
La “camera a gas mobile” è guidata dal sergente Wilhelm Götz e dal primo tenente Erwin Meyer, ambedue delle SS. Entrambi portano il loro carico umano annientato durante il tragitto, ai piedi del monte Avala, presso il villaggio Jajinci, a meno di una decina di chilometri da Belgrado. Qui sette prigionieri serbi gettano i corpi in grandi fosse comuni.
I primi passeggeri sono i pazienti dei due ospedali ebraici di Belgrado e poi tutto il personale medico, infermieristico e amministrativo. Svuotati e chiusi gli ospedali, si passa agli internati del Judenlager Semlin. Per non creare panico tra i prigionieri, il comandante del campo annuncia il loro trasferimento in Polonia o in Romania. I primi a salire su questo furgone della morte furono i volontari. Per non insospettire gli internati, è detto di ordinare i loro averi ed etichettarli, poiché un camion avrebbe li avrebbe portati alla nuova destinazione. Infatti, un altro camion carico dei pochi averi appartenuti agli internati è sempre presente quando i prigionieri sono caricati sul Gaswagen.
Nessuno nel campo ha immaginato di essere portato alla morte. Ogni giorno feriale il furgone della morte lascia il campo con il suo carico umano, per dirigersi verso le fosse comuni ai piedi del monte Avala. In tutto una settantina di viaggi. Un vero e proprio lavoro normale che si interrompe la domenica, per far riposare i dipendenti. L’ultimo viaggio della camera a gas mobile è effettuato il 10 maggio, uccidendo i prigionieri responsabili del campo e la Presidenza ebraica.
Dei quasi 7000 ebrei internati a Semlin, tutti i maschi sono uccisi, mentre meno di 50 donne sopravvivono, rilasciate principalmente per il fatto di essere sposate con i serbi.
Nella Serbia occupata la mattanza di ebrei e rom continua negli altri campi di concentramento, per la strada e nelle campagne: si calcola che solo poco più del 10% della popolazione ebraica in Serbia sia sopravvissuta allo sterminio, una percentuale tra le più basse d’Europa. Tanto che Emanuel Schäfer, comandante della polizia di sicurezza e della Gestapo in Serbia, in un telegramma inviato a Berlino scrive: «Serbien ist judenfrei» [B.M. Lituchy, Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia. Analyses and survivor testimonies, Jasenovac Research Institute, Jasenovac 2006, p. XXXIII], mentre Harald Turner, il comandante dell’amministrazione militare nazista in Serbia può orgogliosamente comunicare a Alexander Löhr, comandante di tutte le forze militari tedesche schierate nei Balcani che «La Serbia è l’unico paese in cui la questione ebraica e la questione zingara sono state risolte» [D. Dwork, R.J. Pelt, R.J. van Pelt, Holocaust. A history, WW Norton, New York 2003, p.184].
Nell’aprile del 1942, con i viaggi della morte ancora in corso, arrivano nel campo i primi prigionieri politici. Terminate le gasazioni, il campo diventa Anhaltelager, campo di fermo e di lavoro forzato. La maggioranza degli internati sono serbi, ma ci sono anche croati, bosniaci e albanesi.
Manco a dirlo le condizioni di vita sono crudeli: sovraffollamento, carenza di cibo e mancanza di igiene sono la causa di epidemie, alcune particolarmente mortali. Le violenze gratuite completano il quadro malvagio del campo. Come negli altri lager, la disciplina interna è affidata agli stessi internati, scelti tra i criminali comuni, che spesso si abbandonavano ad abusi. L’ex padiglione ungherese diventa il luogo delle torture e delle punizioni.
A seguito dei bombardamenti alleati, l’Anhaltelager di Semlin (anch’esso bombardato nell’aprile 1944) è pian piano svuotato e gli internati sono trasferiti in altri campi. Il 26 luglio 1944 l’ex fiera di Belgrado è formalmente abbandonata e consegnata alle forze di polizia ustascia dello Stato indipendente della Croazia.
Seppur dato in consegna ai nazifascisti croati, il campo è utilizzato dai nazisti il 17 settembre 1944, quando un gruppo di ebrei catturato in Ungheria è provvisoriamente “parcheggiato” per tre giorni, prima di essere deportato nei lager tedeschi.
Il campo dell’ex fiera di Belgrado non è oggi un sito storico e un Memoriale della tragedia dei serbi sotto il nazismo. Del campo vero e proprio restano poche tracce. Una parte è divenuta un quartiere popolare residenziale, altre zone sono diventate ristoranti e altri luoghi di intrattenimento.
Solo alcune targhe commemorative ricordano che in quel luogo è stata rinchiusa e successivamente uccisa una umanità considerata in eccesso e ribelle.
La prima lapide commemorativa fu posta nel 1974, un’altra nel 1984. Dal 1995 un imponente monumento, creato dall’artista Miodrag Popović, ricorda tutte le vittime jugoslave ad opera della follia nazista.
•
•
Per saperne di più
«Staro sajmište», sito web ufficiale (in serbo e inglese), http://www.starosajmiste.info/en/sajmiste-camp/history.
P. Morača, “I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale”, in E. Collotti (a cura di), L’occupazione nazista in Europa, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 517-552.
V. Glišic, Concentration Camps in Serbia 1941-1944, The Third Reich and Yugoslavia 1933-1945, Institute for Contemporary History, Beograd 1977.
K. Browning, The Final Solution in Serbia. The Semlin Judenlanger. A Case study. Yad Vashem Studies, XV, Jerusalem 1983, pp. 55-90.
C. Browning, Fateful Months. Essays on the Emergence of the Final Solution, Holmes and Meier, New York 1985.
S. Menachem, Sajmište – An Extermination Camp in Serbia, «Holocaust and Genocide Studies», n. 2, 1987, pp. 243–260.
M. Shelach, Sajmište. An Extermination Camp in Serbia, in M. Marrus (ed.), The Nazi Holocaust. Historical Articles on the Destruction of European Jews, The Victims of the Holocaust, vol. 2, part. 6, Westport-London, 1989, pp. 1168-1185.
Š. Ljubica, From Fairy Tale to Holocaust. Serbia: Quisling Collaboration with the Occupier During the Period of the Third Reich with Reference to Genocide Against the Jewish People, Culture and Promotion Department, Ministry of Foreign Affairs, Republic of Croatia, Zagreb 1993.
W. Manoschek, “Serbien ist judenfrei”. Militärische Besetzungspolitik un Judenvernichtung in Serbien 1941/42, Oldenbourg, München 1993.
D. Dwork, R.J. Pelt, R.J. van Pelt, Holocaust. A history, WW Norton, New York 2003.
B.M. Lituchy, Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia. Analyses and survivor testimonies, Jasenovac Research Institute, Jasenovac 2006.
R. Paternoster, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017.