STEVIA, STORIA DEL DOLCIFICANTE CHE STA CONQUISTANDO IL MONDO
di Max Trimurti -
“L’erba dolce” degli indiani Guarani è diventata un dolcificante molto diffuso in Occidente, forse sul punto di soppiantare anche l’aspartame.
Nella solitudine della foresta paraguaiana, alla frontiera con il Brasile e l’Argentina, nei pressi del fiume Paranà e a poca distanza dalle cascate di Iguaçu, un museo speciale accoglie i visitatori. Si tratta della vecchia casa di Mosé Santiago (Giacomo) Bertoni (1857-1929), in località di Puerto Bertoni, in fondo a un sentiero tracciato fra palme giganti. Tutt’intorno, nell’aria, un intenso profumo di guaiava o guava (Goiaba in portoghese)[1]. Giacomo Bertoni, scienziato nato delle montagne della Svizzera italiana e stabilitosi nel Paraguay alla fine del XIX secolo, ha un merito poco noto: ha fatto scoprire all’Europa una pianta che a buon diritto può essere considerata una delle “star” della dietetica moderna: la Stevia[2].
Qua e là, sparse per il museo, carte e manoscritti ingialliti, una stampante a pedale, provette, un microscopio, crani di pantere e di tapiri, centinaia di serpenti sotto vetro, di insetti fissati con gli spilli e un repertorio infinito di piante. Fra queste, appunto, la Stevia o Ka’à he’è, “erba dolce” in lingua guarani.
Con un potere dolcificante 300 volte superiore a quello del saccarosio della canna da zucchero e priva di calorie, la Stevia, o meglio l’estratto ottenuto da questa piccola pianta originaria del Paraguay, è stato autorizzato nel dicembre 2011 nell’Unione Europea dopo aver beneficiato di una autorizzazione più limitata in Francia nel 2009. E in pochissimi anni si è conquistata uno spazio importante nel mondo delle bibite “light” e dei prodotti a basso contenuto calorico.
Eppure questa specie arborea era conosciuta da secoli da parte dagli indiani Guarani. Annota infatti il Bertoni che questi ne impiegavano le foglie secche per addolcire gli infusi e per alleviare il mal di stomaco. «I miei genitori la chiamavano monkerapaha, la “pianta che cura tutto”» ricorda ai visitatori Antonio, il cacicco della tribù Mbya che tiene in vita il museo Bertoni.
Agli inizi del XVI secolo un colono spagnolo, il botanico Pedro Jaime Esteve (1500-1556), segnalò l’esistenza di questa pianta dal gusto del miele. Ma i conquistadores non attribuirono alcuna importanza alla scoperta, attratti quasi esclusivamente dall’oro del continente. Occorrerà aspettare quattro secoli e l’arrivo di Bertoni affinché la Ka’à ha’é possa ottenere attenzione in Europa.
Nel 1891 Bertoni fondò una piccola colonia agricola sulle rive del Paranà, nei pressi delle vecchie missioni gesuite.Qui studiò le numerose specie arboree della regione, ma incontrò qualche difficoltà a procurarsi la pianta “dolce” di cui gli Indios gli avevano segnalato l’esistenza esclusivamente nel nordovest del Paese.
Qualche anno più tardi un ufficiale delle dogane di Asuncion gli farà pervenire alcune foglie essiccate della pianta, la cui qualità però non consentì studi approfonditi. Alcuni anni dopo e a seguito di numerosi tentativi, sarà il curato della provincia di San Pedro a fargli arrivare un pianta di Stevia. Bertoni potrà finalmente studiare nel dettaglio[3] questa pianta arbustiva della famiglia delle asteracee. Occorre far realizzare anche i primi studi completi del Ka’à ha’é.
I primi studi completi vengono affidati dallo scienziato a un chimico suo amico, Ovidio Rebaudi (1860-1931), che riuscì a isolare le molecole saccarifere della pianta, le glycosidi. I risultati vengono pubblicati nel 1899 nel Bollettino dell’Accademia di Agricoltura di Asuncion e in loro onore la pianta verrà battezzata Stevia rebaudiana bertoni.
Bertoni coglie tutto il potenziale della “sua” scoperta: «Io sono ancora il solo possessore di questa pianta meravigliosa e spero di arrivare per primo con la sua coltura», scriverà nel 1906. Negli Annali scientifici paraguayani del 1918 spiega la possibilità di rimpiazzare l’edulcorante dell’epoca, la saccarina, con la Stevia. Aggiunge inoltre, che, dopo aver inviato alcuni campioni in Europa, ha ricevuto numerose richieste da parte di laboratori che iniziano, a loro volta, a studiare la piccola pianta.
Bertoni si spegnerà in povertà ma il mercato mondiale della Stevia conoscerà una crescita senza precedenti. Inizialmente, alcune difficoltà legate alle tecniche colturali della pianta ne frenano la diffusione. La Stevia, in effetti, ha bisogno di molta insolazione e di umidità e si riproduce per talea[4]. A ciò vanno aggiunti i freni messi dalle lobbies dello zucchero e degli edulcoranti chimici, che ne limiteranno la commercializzazione. Viene accampata anche la carenza di studi scientifici sugli effetti della pianta: uno studio condotto su alcuni topi nel 1999 dal Comitato scientifico dell’alimentazione umana lascia trasparire il pericolo di bassa fertilità nei soggetti che ne assumano elevate quantità.
È il Giappone a fugare per primo questi sospetti. Il Paese ha abolito dal 1970 l’uso dei dolcificanti artificiali e scommette sulla produzione della Stevia. Le colture vengono impiantate in Cina dove la manodopera risulta meno cara, con il risultato che oggi l’80% della produzione di quella che spesso viene venduta come una pianta esotica guarani arriva dall’Asia.
Infine, nel 2008 L’Organizzazione mondiale della Sanità ha dato il suo favore alla commercializzazione degli estratti dolcificanti della pianta – non delle foglie –, dopo una purificazione che esclude altri composti, sui cui effetti permangono dei dubbi: alcuni composti della pianta potrebbero infatti provocare degli abbassamenti della pressione arteriosa. Dal 14 aprile 2010 l’Unione Europea permette l’uso di questo dolcificante come additivo alimentare e anche la Svizzera ne ha ammesso il commercio e l’uso. I leader del mercato delle bibite, Coca Cola e Pepsi Cola in testa, si sono quindi lanciati nella corsa, diventando i primi produttori di Stevia. Nell’agosto del 2013 la Coca Cola ha annunciato la produzione di un nuovo prodotto, la Coca-Cola Life, che utilizza la Stevia come dolcificante, lanciando inizialmente il prodotto sul mercato argentino. In molti Paesi europei, come la Francia, il mercato della pianta non fa che crescere, rappresentando ormai circa un terzo degli edulcoranti da tavola e con grandi prospettive di detronizzare a breve l’aspartame.
Note
[1] Psidium guajava è un piccolo albero appartenente alla famiglia delle mirtacee. L’albero è diffusamente coltivato per il valore commerciale dei suoi frutti. La pianta cresce in ambienti subtropicali e temperato-caldi (area di coltivazione del limone), purché la temperatura non scenda al di sotto dello zero. In Italia le piante coltivate non presentano particolari problemi. La maturazione dei frutti è scalare sia sulla pianta che tra piante diverse (in Sicilia va dalla fine di ottobre fino a metà dicembre). Nei luoghi di origine sono soggette a diversi parassiti, ma controllabili. La produzione maggiore di guaiava viene dai paesi tropicali (Brasile e India tra gli altri).
[2] La Stevia rebaudiana è una pianta erbaceo-arbustiva perenne, di piccole dimensioni (mezzo metro circa), della famiglia delle Asteraceae (Compositae), nativa delle montagne fra Paraguay e Brasile. Secondo alcuni studi lo stevioside è tra 110 e 270 volte più dolce del saccarosio, il rebaudioside A tra 150 e 320 volte, e il rebaudioside C tra 40 e 60 volte. La Coca Cola in Giappone la usa come dolcificante per la Coca Cola Light (Diet Coke). Viene coltivata estesamente e consumata in Thailandia, Israele e Cina, e in genere in tutta l’America meridionale, dove è usata da secoli come dolcificante ma soprattutto come pianta medicinale. In Brasile è utilizzata come rimedio della medicina popolare per il diabete. Il 10 aprile del 2013 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede di rivedere le norme di utilizzo di edulcoranti quali l’aspartame e la Stevia. Nello stesso provvedimento si limita pesantemente la quantità massima di edulcoranti nelle bibite gassate.
[3] Baratti D. e Candolfi P., Vida y obra del sabio Bertoni (1857-1929). Un naturalista suiso en Paraguay, Helvetas, Asuncion, 1999.
[4] Frammento di una pianta appositamente tagliato e sistemato nel terreno o nell’acqua per rigenerare le parti mancanti, dando così vita ad un nuovo esemplare. Il più delle volte si tratta di un rametto destinato a radicarsi. Si tratta di un sistema di riproduzione che sfrutta le enormi proprietà rigenerative dei vegetali, in particolare quella di differenziare il tessuto radicale dal tessuto indifferenziato (meristematico) che si trova in sottilissimi strati sottoepidermici in varie parti della pianta. Infatti la talea può costituirsi a partire da un frammento di foglia, di ramo, di fusto o radice.